Proponiamo l’intervista di Edoardo Acotto (Fronte Popolare) a Massimiliano De Conca, Centro nazionale dipartimento Contrattazione della FLC-CGIL nazionale e segretario regionale FLC Lombardia.
D. Dopo tanto tempo la CGIL indice ben due scioperi a distanza di una settimana: quello della scuola pubblica il 10 dicembre e quello generale per tutte le altre categorie il 16. A cosa attribuire questa ripresa della conflittualità, per certi versi inattesa: al recupero dell’agibilità democratica in un momento in cui la pandemia pare abbastanza sotto controllo, o all’azione del governo Draghi nettamente contraria al settore pubblico?
R. Lo sciopero è un mezzo di lotta, di conflitto democratico, mai un fine: usciamo dalla sindrome della tirannia dei numeri e dell’esigenza di contarci. In questi mesi, in questi due anni di pandemia, abbiamo contribuito in modo responsabile e critico alle decisioni prese dal governo nell’interesse del Paese, cercando di equilibrare gli obiettivi con le esigenze e i bisogni delle lavoratrici e dei lavoratori, in un’ottica di collaborazione, come dovrebbe sempre fare un sindacato serio che rappresenta istanze, non che rappresenta se stesso. Non deve sfuggire nemmeno che ci sono stati molti motivi di tensione e di scontro, tanto che per dicembre 2019 e marzo 2020 erano previsti scioperi sui temi del precariato che poi sono stati congelati perché sono arrivati patti, intese e accordi. Ora è il momento di raccogliere i frutti di quegli accordi e di misurare nel concreto la coerenza e l’impegno delle due parti. Abbiamo partecipato a tavoli, accordi, abbiamo fatto proposte, ma ci sembra che il ministero dell’Istruzione e il governo in generale abbiano la memoria corta, per cui di fronte alla loro incoerenza, noi mettiamo in campo le armi del conflitto che ci sono riconosciute dalla Costituzione, quindi lo stato di agitazione, le mobilitazioni, lo sciopero. Il nostro è un percorso fatto insieme alle lavoratrici e ai lavoratori, con il loro appoggio, perché noi rappresentiamo le loro istanze e non noi stessi.
D. Si è tanto parlato di scuola negli ultimi due anni, per poi giungere a una Finanziaria che non mette un soldo su uno dei luoghi che maggiormente hanno patito la crisi pandemica (e ancora patiranno nei prossimi anni): com’è possibile?
R. È possibile perché si hanno idee diverse di scuola e di lavoro. Da una parte c’è chi vuole cambiare tutto, perché non cambi nulla, ma soprattutto qualunque cosa la vuole fare “senza oneri aggiuntivi per lo Stato” (formuletta alla quale siamo ormai abituati, purtroppo); dall’altra parte c’è chi, come noi della FLC CGIL, ha un’idea di scuola e di lavoro a scuola fondata su valori precisi (costituzionali, quindi diritto allo studio, al lavoro, democrazia e partecipazione), maturata e definita nel confronto continuo con lavoratrici e lavoratori, un’idea che richiede finanziamenti, richiede investimenti, richiede cambiamenti di rotta. Personalmente sono fra quelli che non si aspettava né qualcosa di più né qualcosa di meno da questo governo, che sicuramente non poteva cambiare la rotta, quindi non mi stupisce alla fine che la legge di bilancio sia ancora una legge iniqua, che non valorizza il lavoro, che non tutela i più deboli e non riduce le disuguaglianze. La scuola non si è mai fermata, non ha mai fatto pause, si è adattata in presenza e a distanza, poi magicamente da luogo di “eroi” (definizione di un anno fa a opera di Alberto Asor Rosa) si è trasformato in luogo di “fannulloni” da umiliare con circolari e note calate dall’alto.
D. Come valutare la non partecipazione della CISL allo sciopero?
R. Questo è un problema interno alla CISL, che però rischia di minare l’unità del fronte sindacale. Sicuramente, in un momento delicato come questo, ci si aspettava l’adesione della CISL in considerazione del fatto che, per loro stessa ammissione, condividono le stesse nostre rivendicazioni. Evidentemente hanno altre strategie politiche, legittime, ma a mio avviso contraddittorie. A me pare del tutto evidente che chi aderisce allo sciopero porta avanti le ragioni di una scuola diversa dal modello esistente, con più tempo scuola, più organici, salari dignitosi; chi al contrario si astiene dallo scioperare avalla quello che questa legge di bilancio prevede per la scuola, cioè tutto ciò che oggi manca, niente aumenti dignitosi per il personale scolastico, niente organici adeguati, niente ampliamento del tempo scuola. E ancora: avalla il mantenimento della legge Fornero, la riforma fiscale a danno dei ceti medio-bassi, l’assenza di strategie precise per la stabilizzazione dei giovani, che invece continuano a lasciare l’Italia in cerca di lavoro (circa 100mila ogni anno), l’assenza di politiche industriali nell’ottica della transizione ecologica. Ecco, sembra manicheo, ma non può essere diversamente.
D.Ti aspetti che il governo colga il messaggio e cambi qualcosa alla legge di bilancio?
R. Non si può non essere ottimisti, però bisogna anche essere molto realisti e radicati in questo particolare contesto politico: a parte qualche spicciolo sul rinnovo contrattuale e qualche contentino (la proroga dei contratti temporanei del personale ATA fino al 30 giugno?), non ci sarà altro. Del resto l’idea, classista e gentiliana, di questo governo e di questo ministero dell’Istruzione, supportata da “autorevoli” fonti estere, è che il vero progresso sia nell’orientamento verso il mondo del lavoro fin dalle scuole primarie e di ridurre gli anni della secondaria a quattro. Ma, come detto sopra, lo sciopero non è un fine, quindi non ci avviamo a fare una passerella o un atto di presenza: il 10 dicembre e poi il 16 dicembre non è per noi né un punto di arrivo né la fine di un percorso. Ne è una tappa. Dopo quelle date faremo il punto e riprenderemo il dialogo con il governo: non ci sarà regalato nulla, ma dovremo continuare a mettere in campo tutte le strategie in nostro possesso per guadagnare ciò che lavoratrici e lavoratori della scuola meritano. Del resto, o ci pensano i lavoratori organizzati da e nel sindacato, da e nella CGIL, a rivendicare la loro dignità lavorativa, oppure non ci aspettiamo che sia la politica – che fatica a masticare i temi di dignità sociale – a restituire valore al nostro lavoro.
D. C’è una certa sfiducia nei lavoratori riguardo al ruolo del sindacato: quale pensi debba essere la strategia per riconquistare questa fiducia?
R. Non abbiamo smesso neanche per un giorno di tenere costanti rapporti e relazioni con le lavoratrici e i lavoratori, a distanza e in presenza. La sfiducia nasce da due fattori, a mio avviso: l’assenza di una coscienza di classe (lasciatemi passare il termine, sono un nostalgico) e l’impreparazione della controparte. Mi spiego: chi si affaccia al lavoro oggi, soprattutto nella scuola, ha vissuto con normalità lo sconquasso post-Brunetta che ha ridotto gli spazi di contrattazione, colpevolmente annullata dal 2009 fino al 2018, e disabituato tutti alle logiche della partecipazione e della democrazia. In quei dieci anni sono cambiati anche i riferimenti ministeriali e ARAN, è venuta meno la cultura del contratto, sostituito dall’atto unilaterale, dalla convergenza sul pensiero unico. Aggiungiamoci poi anche un periodo di crisi economica (il default del 2008 che si è trascinato per diversi anni e di cui ancora oggi paghiamo le conseguenze) che ha profondamento inciso nella visione sociale comune, trasformando le vertenze collettive in vertenze individuali. Manca da tempo la cultura del conflitto, la cultura della contrattazione, mancano i presupposti per il confronto e ognuno si sente legittimato a parlare per sé, rinunciando alla visione complessiva e collettiva.
Fra i nostri obiettivi c’è anche quello di far rinascere questa cultura collettiva che la crisi economico-politica ha fatto venire meno. La strada è lunga, ma abbiamo dalla nostra parte l’umiltà di metterci sempre in discussione e soprattutto di dialogare sempre con chi rappresentiamo.