Il nostro paese, dalle posizioni di punta acquisite fino a qualche decennio fa, è rotolato nel castro dei maiali (PIIGS).
Avevamo un gioiello che era al passo con le allora pionieristiche tecnologie informatiche, l'Olivetti, ma il grande imprenditore, adorato a “sinistra”, il Cavaliere Carlo Debenedetti, l'ha distrutta. La Nuova Pignone, società pubblica che era ben posizionata nel mercato, venne privatizzata e si è dissolta. La Fiat non è più italiana grazie a un altro incensato e famoso manager e si chiama Fca. Altri casi della massima importanza sono Alitalia, Telecom, Indesit, Ansaldo Breda, Pirelli, Ilva. Tutte queste industrie, in gran parte pubbliche, o sono state cedute in mano straniera, o sono state smantellate, o ridotte ai minimi termini, o oggetto di esternalizzazioni che penalizzano i lavoratori. Così, in soli sei anni, l'Italia è scesa dal quinto all'ottavo posto fra i paesi industriali. Ma più ancora è stridente il divario fra la fase dinamica del cosiddetto “miracolo italiano” degli anni ‘60 in cui alcuni prodotti della nostra industria avevano acquisito fama in tutto il mondo, basti pensare alla Vespa Piaggio, alla Cinquecento Fiat, alle calcolatrici Olivetti, e il totale vuoto di produzioni industriali, specialmente quelle ad alta tecnologia, odierne. Già nel 2010 il 33 per cento della nostra produzione consisteva in prodotti a bassa tecnologia, mentre in Germania essi rappresentano appena il 18 per cento [1].
Per un po' di anni ci hanno riempito la testa col nuovo posizionamento del “made in Italy”, legato all'alimentare, al tessile, alla moda, all'arredamento e al design, settori in cui ben presto e agevolmente siamo stati copiati dai paesi emergenti e messi fuori mercato. L'altro pilastro su cui si riteneva di poter contare fu il cosiddetto “piccolo è bello”, l'economia dei distretti industriali fatti di piccole imprese che facevano “sistema”. Una boiata pazzesca, se non peggio, avrebbe detto il povero Paolo Villaggio. Il piccolo non si è rivelato per niente bello. Ha potuto sfruttare maggiormente i lavoratori, in genere meno sindacalizzati ed esposti al paternalismo padronale, ha vivacchiato evadendo le tasse e ricorrendo al lavoro nero, ma il nanismo della nostra struttura produttiva non ha potuto reggere la sfida dei notevoli investimenti necessari per introdurre alte tecnologie.
La crisi mondiale del 2008 ci ha trovato quindi molto esposti alle sue ricadute, tanto che Eurostat certifica che la nostra produzione ha subito ulteriormente, dal 2007 al 2014, una diminuzione del 18 per cento, addirittura maggiore di quella della Spagna e della Grecia, a fronte di un aumento dell'8 per cento di quella tedesca. In particolare il comparto manifatturiero, secondo un rapporto del Centro Studi Confindustria del 2014, ha subito un calo del 25 per cento dal 2000 al 2014, mentre nel resto del mondo saliva del 36 per cento, e, per quanto riguarda l'Europa, un rapporto Istat ci dice che la Germania ha sostanzialmente mantenuto la posizione, mentre Francia e Inghilterra registrano un arretramento importante, ma molto più contenuto del nostro (fra il 10 e il 15 per cento).
Lo stesso discorso vale per l'occupazione che, secondo lo stesso rapporto, è diminuita nell'industria di un milione e 160mila unità dal 2001 al 2013. Per non parlare della sua qualità e dell'estensione abnorme del lavoro precario che è diventato la regola della nuove assunzioni.
Visto che i commenti si sprecano a ogni rilevazione trimestrale e ci si accanisce a commentare – magari interpretandole secondo le necessità politiche – le piccole variazioni avvenute nel corso di tre mesi, è opportuno dare uno sguardo ai dati che Eurostat mette online e che riguardano l'intero periodo dal 2007 al 2016. Viene fuori che il Pil Italiano, in 9 anni, è cresciuto del 3,9 per cento, meno dello 0,4 per cento annuo, la Francia è cresciuta di oltre il 20 (circa 2 per cento all'anno) e la Germania di oltre il 25 (2,5 all'anno). L'intera zona Euro, pur fra crescenti disparità, è cresciuta del 10,2, oltre un punto l'anno.
Vediamo l'occupazione: L'Italia perde oltre 480mila posti di lavoro, pari al 2 per cento. La zona Euro guadagna il 4,35 per cento, la Germania l'8,22.
È quindi risibile l'entusiasmo di Renzi, seguito dai media embedded, di fronte alle ultime rilevazioni e alle stime dell'Istat. Cosa è avvenuto veramente? È avvenuto che il nostro Istituto di statistica, nelle proprie stime preliminari del Pil del secondo trimestre 2017, pubblicate il 16 agosto, indica un aumento del Pil dello 0,4 per cento sul trimestre precedente e prevede un aumento del 1,5 per cento per l'intero 2017. Si tratta certamente di un miglioramento rispetto alla stagnazione degli anni precedenti, ma ciò non è dovuto ai provvedimenti governativi, come invece ha sbandierato Renzi e come “La Repubblica” riporta acriticamente senza accennare alle opinioni contrarie, il cui impatto è stato giudicato irrilevante dai più accorti. Piuttosto l'Italia ha goduto – meno di quello che la situazione avrebbe consentito – di una certa ripresa delle attività economiche su scala mondiale e nell'area Euro, condita anche dai pur modesti effetti della massiccia introduzione di liquidità da parte della BCE. Tuttavia le analoghe previsioni della Commissione Europea indicano che ancora l'Italia sta marciando a una velocità inferiore rispetto alla media dei paesi europei.
L'altro dato su cui si gongolano i media di regime, riguarda il lavoro. Sempre l'Istat, nella sua nota mensile di agosto, indica che nel trimestre maggio-luglio i disoccupati sono diminuiti dell'1,2 per cento e che su base annua l'occupazione cresce dell'1,3 per cento. L'Istat si affretta però a dire che “a crescere sono gli occupati ultracinquantenni (+371 mila) e [assai meno] i 15-24enni (+47 mila), a fronte di un calo nelle classi di età centrali (-124 mila)”. Sembrerebbe quindi non il Jobs Act, che riguarda i nuovi assunti, ma la Legge Fornero, nonostante la sua successiva apeizzazione, che ha allontanato la pensione, a far crescere la presenza di ultracinquantenni, trattenuti forzatamente al lavoro. Un'avvertenza è poi necessaria su cosa dicono effettivamente le statistiche. Vengono censiti come disoccupati solo coloro che non lavorano neppure un'ora al giorno, quindi sfuggono alla rilevazione tutti i part time, e altre figure precarie che svolgono una minima attività lavorativa, anche se assolutamente insufficiente ai propri bisogni. Se, per esempio, in una famiglia lavorava un solo membro che percepiva 2mila euro al mese e ora lavorano tre persone che guadagnano 500 euro al mese ciascuno, le condizioni di quella famiglia senz'altro peggiorano, ma l'occupazione, per le statistiche, è triplicata. Immaginiamoci quindi quanto siano poco indicativi i dati che riportano l'andamento della disoccupazione nei nostri paesi dove il lavoro stabile e ben retribuito è andato via via quasi estinguendosi.
E comunque, anche sul lavoro, rimaniamo il fanalino di coda dell'Europa se si pensa che, sempre i dati della Commissione Europea, dicono che nella zona euro la disoccupazione è al 9,1 per cento contro il nostro 11,3.
Al di là delle oscillazioni congiunturali, l'Italia è sempre nel pantano e per risollevarla è necessario dotarci degli strumenti di politica economica che governi di centrodestra e di centrosinistra hanno smantellato, quali le industrie di stato, investimenti nella ricerca e nella tutela e sicurezza ambientale, e invertire la rotta rispetto alle politiche liberiste. Sappiamo che ciò urta contro gli interessi delle classi di riferimento dei nostri governi e in generale dei forti gruppi imprenditoriali transnazionali, ma non c'è alternativa a una dura e organizzata lotta per ridurre il loro potere.
Note:
[1] Cfr. Pierfranco Pellizzetti, Alla ricerca della manifattura perduta, in Micromega 4/2017, p. 226