Pochi giorni fa il governo ha passato la prova sul voto del Def (il Documento di economia e finanza), in sostanza il principale strumento della programmazione economico-finanziaria; il documento, attraverso il quale il governo indica la strategia economica e di finanza pubblica nel medio termine e la sottopone al voto parlamentare. Il Parlamento ha dato così il via libera alla Nota di aggiornamento del Def ed allo scostamento di Bilancio. Una votazione nella quale, tra l’altro, si è consumata l’ennesima pantomima di Mdp, che ha espresso voto contrario alla relazione del ministro Padoan - per l’approvazione della quale i voti del partito dei (quasi) fuoriusciti dal PD sono ininfluenti - ed ha votato a favore della risoluzione sullo scostamento di bilancio - dove i voti di Mdp sono necessari a non mettere in crisi il governo. A nulla valgono le giustificazioni secondo le quali il voto contrario avrebbe determinato l’applicazione automatica delle norme di salvaguardia, con aumenti dell’Iva. C’è da ricordare, infatti, che il pareggio di bilancio in Costituzione e le clausole di salvaguardia non sono cadute dal cielo: il primo è stato votato in Parlamento nel 2011; l'aumento automatico dell'IVA è stato introdotto tra le norme di salvaguardia dal governo Renzi, che ci ha impacchettato questo bel regalino nel 2015. Ed il PD, che allora poteva contare su Bersani, D’Alema e Speranza (quest’ultimo non presente in parlamento nel 2011, ma sedeva tra i banchi del PD nel 2015) votò compatto entrambi i provvedimenti.
Il voto sulla Nota di aggiornamento del Def dimostra, non solo che Mdp non riesce ad uscire dalla maggioranza di governo; ma soprattutto che, per quanto tenti di rifarsi una verginità politica, il partito dei (mai del tutto) scissionisti è ancora (e non può essere diversamente, né cambierà natura) un soggetto politico pienamente dentro l'ideologia neoliberista. Ideologia alla base di quei provvedimenti antipopolari che hanno accomunato i governi da Monti a Letta, da Renzi a Gentiloni, che si sono retti su maggioranze ampie costituendo nei fatti quel Partito della nazione auspicato dal segretario nazionale del PD. Una base ideologica che ha prodotto le politiche ed i meccanismi economici che massacrano da anni chi non appartiene alle classi sociali privilegiate.
Il risultato è nel rapporto Lavoro e capitale negli anni della crisi: l’Italia nel contesto europeo elaborato dalla Fondazione Di Vittorio, che delinea un quadro ben lontano dalla ripresa con la quale continuamente si riempiono la bocca i rappresentanti del governo. “La più grave crisi dal dopoguerra ad oggi, per unanime giudizio degli analisti, non è ancora in Italia definitivamente alle spalle”, afferma l’istituto di ricerca della Cgil, secondo il quale “Non sono ancora riparati – come i dati dimostrano – i danni provocati nel tessuto produttivo dalla recessione”.
I decimali di punto di incremento del Pil che tanto entusiasmano il governo ad ogni nuovo rapporto Istat, non hanno permesso di recuperare i quasi nove punti percentuali di prodotto che l’Italia ha perso negli anni della crisi. Così, siamo al punto che “La distanza - in termini di variazioni del prodotto - dalla media della zona Euro si è dilatata fino a superare 10 punti percentuali nel 2016”. A questo dato si aggiunga la contenutissima dinamica salariale e già il quadro complessivo si mostra nella sua drammaticità. I salari nominali di chi lavora in Italia, tra il 2007 e il 2016 sono aumentati molto meno della media della zona euro (-5,7%). In termini reali, nel 2016 i salari in Italia si sono attestati “ancora sotto il valore registrato nel 2007 (7 decimi di punto in meno). Nello stesso anno in Spagna i salari sono stimati a +5.7% rispetto al dato pre-crisi, in Francia a +9.5% e in Germania a +10.8%”.
Insomma, in Italia si produce meno valore che in altri Paesi europei e la ricchezza prodotta va sempre meno ai salari, aumentando i divari sociali. E le crescenti diseguaglianze - conferma la Fondazione Di Vittorio - giocano un ruolo determinante come fattore recessivo e deflattivo. Non è un caso, quindi, che “solo in Italia e Spagna i consumi nel 2016 sono ancora sotto il valore del 2007 (-4.7% e -5.5% rispettivamente)”. Diseguaglianze sottolineate anche nel Rapporto 2017 dell’Asvis, Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile, che mostra come “Il divario fra il reddito disponibile equivalente ricevuto dal 20% della popolazione con più alto reddito (quintile più ricco) e quello del 20% della popolazione con più basso reddito (quintile più povero) è, in Italia, molto elevato ed è aumentato nell’ultimo decennio”. Nel frattempo, anche gli investimenti fissi hanno subìto una contrazione rilevante, “provocando una drammatica contrazione della capacità produttiva”, che ovviamente si riflette negativamente sull’occupazione. Il quadro che ne viene fuori è drammatico: “Con una caduta eccezionale della produzione e dell’occupazione, la ripresa è più lenta e le proiezioni sul PIL al 2018 allargano ancora il divario che si è prodotto negli ultimi anni rispetto alle altre grandi economie continentali”. Eccola la ripresa tanto e troppo spessa annunciata con lo stile di un vecchio banditore di paese.
Eppure siamo ancora a Def in cui si prevedono nuovi regali alle imprese (non sono bastati gli oltre 20 miliardi già regalati con pessimi, prevedibilissimi, risultati), tagli alla spesa pubblica, solo spiccioli da recuperare dalla lotta all'evasione fiscale, mentre - sono dati Istat - in Italia l’economia sommersa e illegale vale 208 miliardi (pari al 12,5% del Pil), di cui una buona fetta (quasi 80.000.000.000 di euro) è il frutto dell'impiego di lavoro irregolare. Emerge, quindi, che i lavoratori pagano due volte l'ingordigia della parte più ricca della società: obbligati, come classe sociale, a farsi carico del peso più ampio della fiscalità generale e al tempo stesso costretti spesso a rinunciare ai più elementari diritti di civiltà del lavoro, perché costretti ad accettare qualunque impiego, anche precario o irregolare che garantisce alle classi dominanti maggiori margini di profitto. E nel frattempo, governi compiacenti con gli evasori approvano finanziarie in accordo alle regole del pareggio di bilancio tagliando servizi e stato sociale, colpendo in tal modo, una volta di più, le categorie sociali più deboli.
Un Def, quindi, quello approvato pochi giorni fa, che si aggiunge a dieci di anni di regressione economica, alla quale hanno dato il proprio contributo governi guidati e sostenuti da professori, tecnici, politici di centrodestra e centrosinistra accomunati dall'idea della necessità delle misure di austerità. E se, come sottolinea il rapporto, gli investimenti privati sono crollati, l'intervento pubblico è andato in un'unica direzione: quella orientata a favorire un capitalismo arraffone ed a colpire le classi popolari. Intanto, viene progressivamente svenduto quel che rimane del patrimonio produttivo italiano e si continua a far passare provvedimenti che rispondono alla logica del pareggio di bilancio e delle peggiori misure di austerità.
E' ovvio che in queste condizioni non ci salverà alcuna politica (tra l'altro di impossibile applicazione) di riduzione del danno. Occorre, semmai, ribaltare il tavolo.