Viaggio nella Crisi. Parte III.
I lavoratori e le lavoratrici della grande distribuzione hanno scioperato in massa contro gli ulteriori tagli al salario già da fame che percepiscono. Gli stipendi continuano ad essere sotto attacco, si tagliano e si aumenta l’orario di lavoro, costringendo molte famiglie a (soprav)vivere sotto la soglia di povertà. Più la crisi si approfondisce e più si attaccano i salari, è strano? No.
di Rita Bedon e Pasquale Vecchiarelli
I lavoratori del commercio, della comunicazione, della logistica, del sociale, per non parlare degli operai e degli edili, sperimentano sulla loro pelle la triste realtà che oggi li accomuna: salari da fame e orari da incubo. Ormai non esistono più limiti alla decenza si possono trovare condizioni lavorative da super sfruttamento anche nel cosiddetto occidente evoluto. L’attuale crisi del Capitale, di cui abbiamo tracciato alcune caratteristiche nel numero 51 di questo giornale, spinge i padroni, grazie anche al sostegno dello Stato, da un lato ad aumentare sempre di più l’orario di lavoro e dall’altro ad abbassare il salario complessivo cioè sia quello diretto (stipendio) che quello indiretto (servizi sociali) e differito (pensioni). Questo fatto lo vediamo in tutti i settori, basta chiedere ai lavoratori della grande distribuzione, commesse e commessi nei centri commerciali o ai lavoratori delle cooperative di servizi. Persino all’Expo, vetrina del nostro paese, si sono sperimentate nuove forme di sottomissione con turni massacranti e stipendi ridicoli: “[…] Il mio è un contratto di 6 mesi, classe F del CCNL Vigilanza e Sicurezza, con una paga oraria di 5 euro lordi all’ora. Netti, più o meno, fanno la miseria di 4 euro all’ora. Facendo i calcoli, con 40 ore settimanali, al mese arriverei a 800 euro lordi: è, né più né meno, uno stipendio da fame. Ma è pur sempre meglio di niente. Come gran parte dei dipendenti, avevo il compito di gestire gli ingressi ai tornelli. Il contratto consiste di 40 ore settimanali, divise su 5 giorni lavorativi da 8 ore, con 2 giorni di riposo consecutivi; questo è quello che dice il contratto, ma la realtà è ben diversa: di certo 2 giorni consecutivi di riposo non li ho mai fatti! ” [1].
Nel settore della grande distribuzione le cose non stanno meglio: “Nelle mobilitazioni dei lavoratori e delle lavoratrici della grande distribuzione la posta in gioco non è solo il contratto nazionale. I lavoratori hanno scioperato contro le pesanti richieste di Federdistribuzione e delle Cooperative, richieste assolutamente inaccettabili perché colpiscono pesantemente i salari e i diritti: riduzione delle maggiorazioni domenicali e festive, aumento del divisore orario che diminuisce sensibilmente lo stipendio, differenze salariali che i padroni vogliono introdurre tra nord e sud costituiscono un forte attacco alla dignità di questi lavoratori..” [2]
Dunque i lavoratori e le lavoratrici di questa categoria stanno dando una grande prova sconfiggendo la rassegnazione e la demoralizzazione di questi tempi e riscoprendo la piacevole sensazione di unità nella lotta essendo accomunati dallo stesso destino di sfruttati: proprio in questi giorni lo sciopero generale della categoria ha coinvolto circa l’80% dei lavoratori [3].
L’attacco al livello del salario è una delle strategie con cui il Capitale fronteggia le crisi che periodicamente lo affliggono. La riduzione del salario è la scelta principale che i padroni adottano per sopperire alla perdita di profitto. [4]
Salario e profitto sono sempre antagonisti e il livello del salario è determinato storicamente, ed è composto oltre che dal salario propriamente detto anche da quella parte che viene differita a un’età non più lavorativa, oltre a quella parte di “welfare” che rende possibile la conservazione e riproduzione della forza-lavoro, salario indiretto.
Se si osservano i dati sul salario [5], la tendenza generale evidenzia, senza lasciare dubbi, la caduta vertiginosa in diversi paesi della quota di reddito destinata ai salari.
Fonte: AMECO Eurostat [5]
Se ripercorriamo l’evoluzione delle politiche di attacco al salario messe in atto dalla classe dirigente neoliberista che dagli anni ’80 in poi ha dominato la scena mondiale, in modo più o meno aggressivo secondo i paesi e del momento, dobbiamo prendere in considerazione lo smantellamento dello stato sociale nelle sue parti più indicative come la sanità, l’istruzione, la previdenza passando per la “riforma” del mercato del lavoro.
Nella maggioranza dei paesi sviluppati si è attuato un attacco concentrico al salario sociale; in Italia regole più severe sono state introdotte nel sistema delle pensioni con l’introduzione della riforma Fornero, la spesa sanitaria in Italia come in Europa è diminuita negli ultimi anni. Per quanto riguarda l’Italia, la spesa sanitaria ha seguito un trend decrescente, la riduzione si deve soprattutto agli interventi del governo per contenere i disavanzi di bilancio. La quota del PIL italiano relativa alle spese sanitarie era del 9.2% nel 2012 ed è un livello che risulta più basso di quello di altre nazioni europee come i Paesi Bassi, la Germania, la Francia e la Svizzera, anche se è vicina alla media OCSE che è del 9,3%.
La media dei salari reali non cambia solo a causa di un incremento o riduzione del livello salariale di alcuni settori, ma anche a causa di una diversa composizione della forza lavoro occupata. Infatti, sul piano dei costi del lavoro, l'aggiustamento è avvenuto principalmente sulle condizioni d’ingresso piuttosto che sui salari, anche se i dati indicano che la quota delle imprese che hanno congelato o tagliato i salari, è aumentata nel corso del tempo.
Le imprese sostengono che licenziare lavoratori singoli è diventato più semplice dopo la riforma Fornero, mentre regole più restrittive per l'assunzione di lavoratori temporanei hanno reso l'assunzione più difficile [6], ovviamente perché è più funzionale al Capitale la massima flessibilità, rimane da vedere come agirà lo “Jobs Act” quando sarà a pieno regime.
Un altro dato efficace nel mostrare le difficoltà cui la classe dei salariati è andata incontro durante la crisi è quello della capacità di risparmio e del grado d’indebitamento delle famiglie. I grafici che seguono, elaborati da parte dell’OCSE, mostrano come la percentuale di risparmi sul reddito delle famiglie abbia subito una caduta proprio in concomitanza della fase di crisi. Anche il livello di indebitamento sale, mostrando una difficoltà crescente delle famiglie a mantenere un livello di consumo ormai acquisito nel tempo.
La disuguaglianza era molto minore in Italia negli anni ’70, poi con la disdetta della scala mobile il divario si è andato allargando portando a un ampio divario di reddito a metà degli anni ’90, gli anni dell’accentuarsi della difficoltà della nostra economia, e da allora i valori precedenti non sono più stati recuperati; tra il 2009 e il 2010 l’indice di Gini [7] si è mantenuto praticamente costante, nel 2012 è stato pari a 0,32 inoltre il 20% più ricco delle famiglie residenti in Italia percepisce il 37,7% del reddito totale, mentre al 20% più povero spetta il 7,9%, dato che ha subito un peggioramento significativo nell’arco di trenta anni.
Nella comparazione dei paesi OCSE l’Italia si trova al terzo posto nell’indice di Gini della distribuzione del reddito, solo prima di Gran Bretagna e USA.
Può essere interessante vedere com’è variata la distribuzione del reddito tra lavoro e capitale. Se la quota declina, significa che una parte più piccola del reddito nazionale è andata ai lavoratori.
La spiegazione che è data dall’Ilo è che la forza lavoro si sia spostata in settori dove il saggio di profitto era più alto come il settore dei servizi finanziari; questo è stato dovuto al rivolgersi del settore finanziario verso comparti con alto rendimento, spingendo verso la globalizzazione e il commercio internazionale, oltre all’introduzione di nuove tecnologie, questo insieme a un’erosione della possibilità di difesa del reddito da salario da parte delle istituzioni rappresentanti i lavoratori.
Note:
[1] http://milanoinmovimento.com/news-stream/dallarete-vigilanza-expo-turni-massacranti-stipendi-da-fame
[4] “Se dal valore di una merce togliamo il valore delle materie prime e degli altri mezzi di produzione impiegati in essa, cioè se togliamo il valore che rappresenta il lavoro passato in essa contenuto, il valore che rimane si riduce alla quantità di lavoro aggiunto dall'operaio che ha lavorato per ultimo. Se quest’operaio lavora giornalmente dodici ore, se dodici ore di lavoro medio si cristallizzano in una quantità di oro eguale a sei scellini, questo valore addizionale di sei scellini è l'unico valore che il suo lavoro avrà prodotto. Questo valore determinato dal tempo di lavoro è l'unico fondo dal quale sia l'operaio che il capitalista possono trarre la loro parte o quota rispettiva, l'unico valore che deve essere ripartito in salari e profitti, evidente che questo valore stesso non viene modificato dal diverso rapporto secondo il quale esso può venir ripartito fra le due parti. Inoltre, nulla sarà mutato se invece di un operaio considereremo l'intera popolazione operaia, e invece di una giornata di lavoro considereremo, poniamo, dodici milioni di giornate di lavoro. Poiché il capitalista e l'operaio hanno da suddividersi solo questo valore limitato, cioè il valore misurato dal lavoro totale dell'operaio, quanto più riceve l'uno, tanto meno riceverà l'altro, e viceversa. Siccome non esiste che una quantità, una parte aumenterà nella stessa proporzione in cui l'altra diminuisce. Se i salari cambiano, il profitto cambierà in direzione opposta. Se i salari diminuiscono, aumenteranno i profitti; se i salari aumentano, i profitti diminuiranno” […] “il valore del lavoro è determinato dal tenore di vita tradizionale in ogni paese. Esso non consiste soltanto nella vita fisica, ma nel soddisfacimento di determinati bisogni, che nascono dalle condizioni sociali in cui gli uomini vivono e sono stati educati” .
Tratto da Salario Prezzo e Profitto scritto da Karl Marx - https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1865/salpp.htm pag. 22 e pag 26
[6] Questioni di Economia e Finanza (Occasional papers) Number 289 – September 2015 Wages and prices in Italy during the crisis: the firms’ perspective by Francesco D’Amuri, Silvia Fabiani, Roberto Sabbatini, Raffaele Tartaglia Polcini, Fabrizio Venditti, Eliana Viviano and Roberta Zizza- pag.6- Banca d’Italia https://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/qef/20150289/index.html?com.dotmarketing.htmlpage.language=1
[7] L’indice di Gini è un indicatore delle disparità di reddito che si creano all’interno di una comunità, comunemente utilizzato come indicatore della concentrazione delle retribuzioni. A valori bassi dell’indice corrisponde una distribuzione abbastanza omogenea dei redditi, a valori alti una distribuzione più disuguale: per un valore dell’indice pari a zero tutti hanno uguale retribuzione netta, al valore uno corrisponde la concentrazione di tutto il reddito nazionale su una sola persona. Data la struttura dell’indice, una differenza di pochi centesimi di punto si traduce in indicative disomogeneità di reddito.