Di fronte a precarietà, disoccupazione e crisi aziendali bisogna trovare il bandolo della matassa per rilanciare un percorso di ricomposizione di una classe lavoratrice frantumata in mille rivoli. La questione salariale, legata strettamente a quella dell’orario di lavoro, è un fattore determinante nella costruzione di una piattaforma per tutti i lavoratori subordinati, dipendenti o precari che siano.
di Massimiliano Murgo
Nel tentativo di rilanciare un percorso di lotta e organizzazione capace di riunificare una classe lavoratrice frantumata, sia sul piano contrattuale che politico e sindacale, la questione salariale, legata strettamente a quella dell’orario di lavoro, è un fattore determinante nella costruzione di una piattaforma in grado di rappresentare le istanze di tutte le lavoratrici e tutti i lavoratori subordinati (dipendenti o precari che siano).
L’incapacità sempre maggiore del normale ciclo economico di valorizzare adeguatamente i capitali investiti, nonostante il fortissimo utilizzo della speculazione finanziaria, spinge i capitalisti a dover sfruttare maggiormente la classe lavoratrice aumentando la quantità di lavoro e riducendo il più possibile il salario.
In questo modo si è creato un meccanismo che si avviluppa su se stesso perché, riducendo il reddito complessivo di chi lavora, il mercato è a sua volta sempre meno capace di assorbire le merci fuoriuscite dal processo produttivo facendo cadere, almeno tendenzialmente, la capacità di produrre profitto dall’investimento del capitale.
Le scelte del governo Renzi in materia di lavoro e di salario, in continuità con quelli precedenti, seguono perfettamente quelle che sono le scelte strategiche espresse dai padroni e dalle banche, in un intreccio tra interessi delle imprese produttive e del sistema finanziario, che ormai sono quasi una cosa sola. Il cosiddetto Jobs Act è uno strumento di legge che rende de jure (per legge) ciò che de facto (in realtà) avveniva già nel mondo del lavoro: lavorare di più, lavorare quanto serve al padrone, sotto il costante ricatto del licenziamento e a salari che ormai non bastano nemmeno alla sussistenza minima per la gran parte dei lavoratori.
Nel 2001 con due milioni di lire nette si viveva abbastanza bene; oggi con mille euro è quasi impossibile immaginare di tirare avanti fino alla fine del mese. La “questione salariale italiana” è un tema che attiene alla crescita e alla redistribuzione della produttività e di una nuova politica dei salari e che, nonostante riguardi tutto il mondo del lavoro, negli ultimi anni ha coinvolto e travolto soprattutto i giovani, costretti a scaricare sulle famiglie la mancanza di un reddito adeguato. Una generazione precaria che, col ricatto della disoccupazione giovanile (oltre il 42% nel nostro Paese), è costretta all’accettazione del lavoro sottopagato e addirittura semigratuito, come dimostrano i modelli contrattuali anticipati da Expo 2015 e da Eataly, non a caso i due “fiori all’occhiello” del rilancio renziano dell’economia capitalistica nostrana. Questo proprio nel momento in cui tutto il lavoro dipendente classico, già ampiamente flessibilizzato sia nel modello produttivo che contrattuale, sta subendo una massiccia perdita di posti di lavoro stabili a causa delle crisi aziendali, delle delocalizzazioni e delle esternalizzazioni, espulsioni che d'ora in avanti, col Jobs Act, saranno favorite anche dalla maggiore libertà di licenziamernto generalizzata a tutto il mondo del lavoro subordinato. Questo nuovo modello dei contratti a “tutele crescenti” (ossia senza tutele) farà risparmiare alle imprese persino i costi delle agenzie di lavoro somministrato che ormai serviranno a ben poco.
Ma allora, esiste in Italia una questione salariale? In questi anni di crisi, in media le buste paga sono calate del 10% del loro potere d’acquisto rispetto all’inflazione reale.
Secondo i dati Ires Cgil lo stipendo medio nel nostro Paese è di circa 1.250 euro mensili. Ma con una forbice enorme, se si pensa che la stragrande maggioranza della variegata popolazione lavoratrice guadagna questa cifra o, molto più comunemente, ne è al di sotto. La qual cosa non può che significare che, per essere questa la retribuzione “media”, di contro un pugno di persone percepisce redditi altissimi.
Sono oltre 15 milioni i lavoratori dipendenti che guadagnano meno di 1.300 euro netti al mese. Circa 7,5 milioni ne guadagnano meno di 1.000 (di cui oltre il 60% sono donne). Più di 7 milioni (il 63%) di pensionati guadagna meno di mille euro netti mensili. Già oggi, prima degli effetti del Jobs Act, emerge che la ricattabilità è un elemento che pesa moltissimo sullo schiacciamento salariale. Una lavoratrice mediamente guadagna il 12% in meno; un lavoratore di una piccola impresa (sotto i 20 addetti) precepisce il 18,2% in meno; un lavoratore del Sud del Paese il 20% in meno; un lavoratore immigrato (extra Ue) il 24,7%; un lavoratore a tempo determinato il 26,2%; un giovane lavoratore (15-34 anni) il 27% in meno e un lavoratore in collaborazione il 33,3% in meno. La quota di lavoratori a basso reddito è aumentata negli anni della crisi avvicinandosi ai 3 milioni di dipendenti che, pur con un impiego, sono considerati “working poor” (calcolati con una retribuzione sotto i 6,9 euro l’ora). Guardando alle percentuali si tratta dell’11,7% degli occupati tra i dipendenti e del 15,9% tra i lavoratori autonomi.
Come si può, quindi, rilanciare una proficua negoziazione salariale? Innanzitutto intervenendo sul cuneo fiscale a favore del lavoro dipendente e non delle imprese, come avvenuto nel recente passato.
Ridurre il cuneo fiscale non è stato possibile, anche perché si è preferita la strada del bonus di 80 euro, che non ha avuto effetti sul livello dei consumi ancora del tutto fermi, di fatto. Ma ora la riduzione del cuneo tra salario lordo e salario netto e tra quest’ultimo e il costo della vita deve ritornare ad essere una priorità.
Oltre a schiacciare verso il basso il salario diretto, per favorire la concentrazione e l’accumulazione del capitale, si sta procedendo infatti a privatizzare quasi tutto ciò che è privatizzabile facendo aumentare tariffe e costi sociali per la scuola, i trasporti la sanità ecc... tutto quello che una volta veniva chiamato salario indiretto, ossia il cosiddetto welfare.
Prendendo atto di questi fatti assolutamente indiscutibili, risulta evidente che la ricetta padronale per uscire dalla crisi è “meno salario e più lavoro e, di conseguenza, più disoccupazione”. Chiaramente, i vari comparti lavorativi subiranno l'effetto di queste scelte in modo differente, sia sul piano economico che sul piano sociale; i padroni cercheranno di marcare e far leva sulle differenze per mantenere lo stato di profonda divisione, confusione e inconsapevolezza che vive nella classe dei salariati. Ma non possiamo commettere l’errore di non cogliere la questione del salario e del tempo di lavoro come elemento di riunificazione dei lavoratori e delle lavoratrici all'interno di un piano comune di rivendicazione perché questi 2 aspetti, in maniera e forma differenti, aggravano le condizioni di tutti e tutte, rendendoci nel complesso più precari.
Rivendicare un minimo salariale dignitoso, capace cioè di soddisfare appieno i bisogni materiali dei lavoratori, e contestualmente imporre una forte riduzione dell’orario di lavoro che aprirebbe di nuovo le fabbriche, le aziende, gli uffici, alle centinaia di migliaia di disoccupati, intermittenti e cassintegrati che la crisi ha prodotto e continuerà a produrre, mette in comune l’interesse collettivo di classe e contemporaneamente pone le basi del rilancio della crescita economica e sociale.
Meno disoccupazione e più soldi nelle tasche dei lavoratori e delle lavoratrici riattiverebbero un mercato ormai stantio, fattore che a sua volta farebbe crescere la necessità di forza lavoro per soddisfare l’aumento della domanda di beni e servizi.
Inoltre, come dicevamo, la crisi ha fortemente abbassato il tenore di vita di milioni di persone, troppe ancora le pensioni al minimo. Forse è l’ora di discutere di salari minimi e di assegni di povertà, i cui beneficiari sarebbero sia i senza lavoro, sia i milioni di precari, spesso giovani, i cui redditi sono a livello di sussistenza.
Ebbene, ora la questione salariale deve entrare a pieno titolo nell’agenda politica e sindacale. Creare un sistema automatico di adeguamento di salari e pensioni a costo della vita.
L’obiezione a tali proposte rivendicative sarà sicuramente: “dove si prendono i soldi?”.
Innanzitutto, per decenni l’introduzione di nuove tecnologie nei processi lavorativi e l’aumento dei ritmi di lavoro (le metriche) hanno aumentato a dismisura la velocità di produzione di beni e di servizi senza che questo abbia provocato una liberazione di una parte del tempo di lavoro dei dipendenti, significando invece solamente un incremento di profitti per le aziende. E’ ora, quindi, di tentare di ricomporre i segmenti del frastagliato mondo del lavoro sulla rivendicazione del recupero di parte di questa produttività a loro vantaggio, visto che un posto di lavoro dignitoso ed un salario adeguato per tutte e tutti sono gli unici veri “ombrelli” contro la crisi per le classi subalterne.
Inoltre la destinazione delle risorse di un Paese sono una questione di scelte politiche, non una questione semplicemente economica. A causa dell'introduzione del pareggio di bilancio in Costituzione, con l’applicazione del Fiscal Compact, i futuri governi ci imporranno tagli alla spesa per circa 45-47 miliardi di euro l'anno per i prossimi vent'anni almeno. Tutti questi soldi verranno prelevati dalle nostre tasche e tolti ai servizi e verranno destinati a risanare il debito italiano detenuto, per lo più, da grandi banche e gruppi finanziari italiani ed esteri. Queste risorse potrebbero invece finanziare una redistribuzione del lavoro esistente con la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario e di diritti. Così come i miliardi di euro destinati agli F35, alle missioni e, più in generale, a tutte le spese militari, potrebbero servire a finanziare istruzione, trasporti e servizi pubblici in generale per tutti i lavoratori e le loro famiglie. Solo a titolo di esempio.
I soldi ci sono, il problema è che sono tutti nelle tasche di una piccolissima percentuale di industriali e banchieri che si appropriano della maggior parte della ricchezza prodotta dal lavoro degli uomini e delle donne. È assolutamente chiaro che tale percorso di redistribuzione della ricchezza verso chi la ricchezza la produce va necessariamente a discapito del becero interesse di accumulazione dei capitalisti del nostro Paese e del resto del mondo.
Rivendicare la redistribuzione del lavoro che c'è con una riduzione generalizzata dell'orario, un salario minimo adeguato ed un lavoro dignitoso per tutti e tutte è la strada per riunire i lavoratori e le lavoratrici e salvare il nostro Paese e il mondo intero dalla barbarie del capitalismo.