Il movimento delle scuole è finalmente ripartito dopo essere stato passivizzato dalla rivoluzione passiva portata avanti dai governi post-renziani che hanno, dall’alto, messo da parte gli aspetti più indigeribili della “buona scuola”. Per riportare finalmente le scuole nelle piazze, strappandole alle forze della destra economica e sociale che hanno, a livello internazionale, sfruttato per i propri loschi fini la pandemia. C’è voluto un governo che ha riaperto tutto ciò che consente di garantire il profitto ai privati e che ha, al contempo, condannato la scuola alla chiusura fino a dicembre – pur di non ridurre le classi pollaio, sebbene l’opposizione a queste ultime ha fatto la fortuna dell’attuale ministro dell’istruzione – per riportare le scuole a occupare le piazze delle principali città italiane. Realizzando, così, la prima mobilitazione nazionale dopo la pandemia, grazie a un movimento nato dal basso, in grado di autoconvocare in piazza l’intero mondo della scuola: insegnanti, genitori, studenti e personale Ata.
Il primo dato estremamente significativo delle manifestazioni è stato il protagonismo dei genitori, in primo luogo proletari, e in particolare delle donne in prima fila contro il tentativo di governo e sindacati complici di rendere permanente la didattica d’emergenza pur di non investire nella scuola pubblica per ridurre quelle classi pollaio, che hanno fatto dell’Italia il paese nel mondo in cui per più tempo le scuole sono state condannate alla chiusura. Una nuova vergona a livello internazionale, dal momento che praticamente tutti gli altri paesi si sono impegnati, in un modo o nell’altro, a far riaprire, non appena possibile, le scuole in sicurezza.
Il secondo aspetto decisamente significativo di questa prima manifestazione nazionale post lockdown è stato quello di unificare nella lotta alle classi pollaio – che impediscono la riapertura in sicurezza delle scuola – il movimento della scuola e uno dei più significativi movimenti di lotta, protagonista negli ultimi anni, ovvero il movimento delle donne. Dal momento che il peso maggiore di questo perpetuarsi della didattica d’emergenza – completamente scaricato dal governo su lavoratori e famiglie – ha, come di consueto, pesato soprattutto sulle donne, aggravando ulteriormente la schiavitù domestica, contro la quale stanno conducendo una essenziale battaglia di civiltà.
Il terzo aspetto che ha reso estremamente significativo questo importante rilancio del movimento della scuola è la sua eccezionale capacità di autonomia dalle burocrazie dei sindacati e dei partiti che hanno ancora una volta dimostrato la loro completa incapacità a rappresentare i reali interessi dei lavoratori e delle masse popolari. Così, ancora una volta, come in tutte le più significative ultime lotte contro la dequalificazione della scuola statale la mobilitazione è sorta e si è sviluppata grazie alla capacità di autoconvocarsi delle diverse componenti del mondo della scuola, di nuovo riunite nelle piazze.
Come di consueto solo la lotta paga, in quanto solo il conflitto sociale è in grado di imporre un nuovo equilibrio nei rapporti di forza con la controparte, sostanzialmente rappresentata dall’intero arco parlamentare, complice, chi più chi meno, di questo processo decennale di dequalificazione della scuola pubblica. Tanto che il governo – che aveva tirato fuori i piani più strambi, pur di non investire nulla per riaprire nemmeno nel prossimo autunno le scuole in sicurezza – è stato costretto a una repentina marcia indietro. Troppo forte è ancora lo scotto subito dall’ultimo governo che si è posto in uno scontro frontale con il movimento della scuola, che ha sostanzialmente rottamato il rottamatore di quanto di democratico restava in questo paese. Tanto che governo e ministro si sono subito precipitati ad assicurare che una ripresa della didattica in presenza a settembre non può che rappresentare una priorità per il governo.
Naturalmente, come tutte le riforme strappate da un movimento di lotta radicale – che non intende riconoscere in nessun modo la didattica a distanza, se non come una didattica d’emergenza – l’attuale promessa di riapertura ha una duplice funzione, essendo in sé necessariamente contraddittoria. Da una parte il governo si affretta a “concedere” dall’alto qualcosa di significativo che i subalterni rivendicavano dal basso, ma lo fa con il preciso obiettivo di spaccare il movimento e di isolare le componenti più radicali. Dunque, come al solito, la riforma subito assicurata dal governo dà soddisfazione ha chi si è speso nella mobilitazione dal basso, ma gli lancia al contempo la consueta polpetta avvelenata, nella speranza che la componente meno radicale del movimento abbocchi.
L’espediente utilizzato per dividere la pericolosissima unità dal basso di lavoratori della scuola e genitori – in buona parte espressione dei ceti subalterni – mira a sanare l’aspetto più impopolare della strategia dei poteri forti, che puntano a rendere permanente la didattica d’emergenza, per ridurre nel modo più drastico il personale della scuola e imporre un indottrinamento di regime. Si assicura che la “scuola parcheggio” dell’infanzia – indispensabile ai genitori per potersi recare sul posto di lavoro, con la speranza di riuscire a riprodursi come classe subalterna – verrà in un modo o nell’altro assicurata. Mentre per l’istruzione di secondo grado e per l’università si continuerà a sfruttare la situazione d’emergenza – artificiosamente creata dalla volontà politica di non toccare le classi pollaio – per continuare a sperimentare il modello toyotista di sfruttamento del lavoro mediante il cottimo, scaricando sui lavoratori l’incombenza di autosfruttarsi nel modo più efficace possibile.
Con il segreto intento di meccanizzare l’intero settore dell’istruzione, a partire dal livello medio-alto, sostituendo i docenti con lezioni videoregistrate uguali per tutti, per assicurare la più efficace forma di indottrinamento. Dequalificando così i pochi docenti che non saranno sostituiti dalle macchine, riducendoli a meri guardiani degli studenti parcheggiati nella scuola statale o ad assistenti delle macchine che impartiranno l’indottrinamento di regime. Purtroppo non si tratta di una mera distopia, in quanto questo sistema è già stato imposto – a un livello più o meno avanzato – in alcuni paesi del mondo, in cui i rapporti di forza sono ancora più sfavorevoli che da noi per le masse popolari.
Il rischio è che il grosso del movimento dei genitori – al momento determinante – si ritiri dalla lotta, con la promessa di aver assicurato un posto dove riprendere a parcheggiare i propri figli durante l’orario di lavoro, mentre le restanti componenti del movimento della scuola riprenderanno ad auto-ghettizzarsi in rivendicazioni corporative necessariamente perdenti. In altri termini il rischio è che questo imponente movimento unitario torni a dividersi per meglio difendere ognuno il proprio “particulare”, come direbbe Gramsci in riferimento a Guicciardini.
Così, dopo la spontanea manifestazione unitaria del 23 maggio, un’ampia fetta del movimento dei genitori rischia di rifluire nel privato, mentre le restanti componenti, anche quelle più genuinamente autoconvocate, rischiano di riprendere la lotta nel modo più suicida, ossia procedendo in ordine sparso. Ecco così che diversi studenti – che unendosi con i lavoratori delle scuole superiori e delle università potrebbero davvero impedire il tentativo di rendere permanente la didattica d’emergenza e il distanziamento asociale – ripartono lanciando una mobilitazione meramente studentesca. Dall’altra parte, diversi lavoratori precari, quelli al solito più esposti agli attacchi condotti dall’alto dalle classi dominanti, rischiano nuovamente di cadere nella trappola di una mobilitazione, per quanto radicale, sostanzialmente corporativa, impossibilitata ad andare al di là della mera testimonianza, in quanto destinata a rimanere quasi completamente isolata. Anche in questo caso si perderebbe l’occasione di portare avanti l’unica lotta che avrebbe la possibilità di essere vincente, ovvero la lotta in grado di unire davvero tutte le componenti del mondo della scuola, cioè la lotta continua e unitaria contro le classi pollaio.
Quest’ultima problematica, oltre a essere il punto debole dei poteri forti – che intendono al solito sfruttare la crisi per dequalificare ulteriormente l’istruzione pubblica a vantaggio della privata – è anche la principale responsabile della mancata assunzione dei precari, dell’autosfruttamento dei lavoratori, condannati dal perpetrarsi della didattica d’emergenza al lavoro a cottimo, e del distanziamento a-sociale degli studenti e della loro riduzione a meri oggetti del processo di trasmissione dell’ideologia dominante.
Eliminare le classi pollaio renderebbe necessaria l’assunzione dei precari, la fine della didattica d’emergenza e del lavoro a cottimo, la possibilità di socializzare da parte degli studenti – che potrebbero al contempo fruire di una didattica più attenta ai loro bisogni ed esigenze reali, cosa che non potrebbe che rendere felici tutti genitori, o quanto meno tutti i genitori delle classi subalterne.
D’altra parte lo spontaneismo – che ha caratterizzato, essenzialmente, nel bene e nel male questo significativo rilancio del movimento per una scuola statale di qualità e gratuita – in mancanza di una direzione consapevole non può che rinchiudersi in un’ottica tradeunionista necessariamente perdente. Ora, come mai, ci sarebbe bisogno di avanguardie, di intellettuali organici, adeguatamente formati sulla base del socialismo scientifico, in grado di dare una direzione consapevole e vincente a questi generosi, ma necessariamente miopi, slanci spontaneisti.
In altri termini, lo spontaneismo autoconvocato, che è stato il principale protagonista di questo movimento – vista la sostanziale assenza di un sindacato e di un partito in grado di organizzare e di esprimere nel conflitto sociale, la sofferenza e la voglia di riscatto delle masse subalterne – avrebbe bisogno di un intellettuale collettivo in grado di dargli una direzione consapevole. Quest’ultima comporta l’esigenza di riorganizzare quelle strutture consiliari capaci di costituire il decisivo dualismo di potere, indispensabile per innescare una situazione potenzialmente propizia per la rivoluzione in occidente. I consigli dei lavoratori e della forza lavoro in formazione sarebbero, al contempo, delle cellule in grado di sperimentare e di dimostrare nei fatti la superiorità della democrazia popolare e proletaria dinanzi a ogni forma di pseudo-democrazia oligarchica borghese.
Infine, le stesse strutture consiliari non sarebbero in grado di realizzare da sole un reale rivolgimento sociale, in grado di emancipare l’umanità dalle sempre più ampia tragica crisi del modo di produzione capitalistico, senza il decisivo supporto di un moderno principe, che sia in grado di dirigere il movimento spontaneo che aspira, in modo più o meno consapevole, a realizzare un mondo più razionale e giusto dell’esistente.