I commissari dell’ex Ilva di e ArcelorMIttal, la multinazionale dell’acciaio che gestisce in affitto lo stabilimento tarantino nella prospettiva, secondo il contratto originario, di diventarne l’acquirente, hanno firmato una settimana fa un nuovo accordo per superare il contenzioso in corso.
Della situazione delle acciaierie abbiamo già trattato in questo giornale [1]. Riepiloghiamo però, per chi non ne è informato, i tratti salienti della vicenda.
- 1995, l’Italsider, di proprietà pubblica e prima produttrice di acciaio in Europa, viene svenduta per circa la metà del suo valore al gruppo di Emilio Riva, perché ne venga rilanciata la produzione e ridotto l’impatto ecologico.
- 2012, il Tribunale di Taranto, alla luce delle gravissime conseguenze per la salute pubblica - 11.500 casi di morte attribuiti dai periti della Procura alle emissioni - dispone il sequestro dell'acciaieria per “grave violazione ambientale” e il Pubblico Ministero indaga i vertici dell’azienda. Il governo Monti emette uno dei primi decreti salva-Ilva, con cui autorizza il proseguimento della produzione.
- 2016, ArcelorMittal, che ha fabbriche sparse per il mondo, si aggiudica la gara per la gestione dello stabilimento attraverso un contratto di affitto da trasformare in acquisto. La multinazionale pertanto figura tuttora come affittuaria. L’accordo prevede uno scudo penale, cioè la non punibilità del gestore durante il percorso di ambientalizzazione dello stabilimento. Tremila lavoratori vengono licenziati.
- 2017, vengono annunciati altri esuberi e si attiva la cassa integrazione per 1.400 operai, mentre le bonifiche non vanno avanti. Diventa evidente che alla multinazionale non interessa né l’ambiente né la produzione, ma solo accaparrarsi la fetta di mercato delle acciaierie o impedire che se la accaparrino i concorrenti.
- 2019, dopo il sequestro dell’altoforno 2 e della intimazione a spegnerlo, il governo ridimensiona lo scudo penale che nel tempo era stato allargato dal precedente gabinetto. ArcelorMittal ha così il pretesto per attuare il suo originario proposito di ritirarsi da Taranto: annuncia di voler recedere dal contratto e spegnere anche gli altri due altoforni. Si ripete la storia già conosciuta a Piombino, sempre protagonista Arcelor, di chiusura dell’acciaieria. Tutti, anche il segretario della Cgil Landini rivendica il ripristino dello scudo penale, cioè lo scambio fra produzione e salute, e il governo, spalleggiato dai sindacati, anziché ripubblicizzare lo stabilimento al fine di assicurarne la funzione sociale e la salubrità, come prevederebbe la nostra Costituzione, nel disperato tentativo di trattenere la multinazionale, apre una trattativa con essa, che nel frattempo fa istanza al Tribunale di stracciare il contratto.
Ovvio che per trattenere l’impresa, che non ne vorrebbe sapere, bisogna concedere qualcosa. Il qualcosa deve consistere in un peggioramento delle già insufficienti tutele dell’ambiente, della salute e dell’occupazione. E tale ci pare l’accordo con ArcelorMittal, di cui abbiamo potuto leggere la bozza che i commissari hanno sottoposto al governo per ottenere l’autorizzazione alla stipula. Ne indichiamo le condizioni più significative.
1. Revoca della comunicazione di recesso e delle istanze al Tribunale e prosecuzione del rapporto di affitto sulla base di un nuovo piano industriale. Il canone di affitto, però sarà corrisposto solo per metà, perché l’altra metà verrà a confluire nel prezzo di cessione del ramo d’impresa, alla scadenza anticipata di un anno rispetto a quella previgente. Quindi è come se si fosse già concordato una sorta di sconto sul prezzo di cessione.
2. Possibilità dell’ingresso nel capitale sociale di ArcelorMittal di capitali pubblici e privati. Tra essi riteniamo possa figurare la Cassa Depositi e Prestiti, secondo gli auspici di parte governativa e sindacale, sulla base di un apposito accordo di investimento.
3. Possibilità di recesso da parte dell’affittuaria, previa pagamento di una caparra di 500 milioni, qualora entro il 30 novembre 2020 non si raggiunga l’accordo di investimento con il partner pubblico. La caparra potrebbe scendere a 350 milioni a seguito della compensazione con altri debiti del concedente verso l’affittuario.
Il piano industriale prevede un “New Green Deal” [nuovo accordo verde], cioè, più brutalmente, la ridefinizione delle tutele ambientali che in origine la multinazionale avrebbe dovuto attuare. In proposito si parla della realizzazione di un forno elettrico nella prospettiva della decarbonizzazione. Fin qui poco di nuovo. Il nuovo viene invece dalla previsione che le attività per ottenere l’Autorizzazione Integrata Ambientale (AIA) avvengano entro il 2025. Viene cioè nuovamente prorogato di due anni il termine di messa a norma. A suo tempo fu disposto che la messa a norma dell’Ilva sarebbe dovuta avvenire entro il 2015. Il termine fu poi spostato a 2016, poi al 2017, poi al 2023. E ora lo si sposta al 2025. Però questo ulteriore ritardo, che significherà quasi certamente ulteriori morti, fa molto “green”.
La Corte Costituzionale aveva fatto passare, chiudendo un occhio, il primo decreto salva-Ilva a condizione che il bilanciamento fra salute e lavoro sarebbe stato garantito garantito da tempi veloci nell'esecuzione dei lavori di messa a norma. Invece dal 2015 si è passati (per ora) al 2025. Altri 10 anni di malattie e morti! E perfino l’installazione di un filtro per la diossina, cosa ben più modesta dell’elettrificazione degli altoforni, è slittato dal 2016 al (per ora) 2021.
Sul piano produttivo e occupazionale, il piano industriale prevede che si raggiunga a regime il livello di 8 milioni di tonnellate di acciaio e di 10.700 addetti. Quanto agli addetti, però, sono previste possibilità di collocazione alternativa o di esodo anticipato incentivato per i “dipendenti residui” che non possano trovare collocazione nell’acciaieria. Il costo degli incentivi verrà detratto dai canoni di affitto: quindi sarà a carico del concedente, cioè di Pantalone! Non poteva mancare neanche l’impegno a prevedere la cassa integrazione e altre misure di sostegno durante il tempo necessario a raggiungere la piena capacità produttiva. E infatti, in contemporanea alla firma dell’accordo, ArcelorMittal ha comunicato ai sindacati la decisione di chiedere per la terza volta, a partire dal 30 marzo, la proroga per 13 settimane della Cassa integrazione ordinaria per 1.273 dipendenti. Non a caso i sindacati sono insorti per non essere stati fatti intervenire nel negoziato. In un documento sottoscritto dai segretari generali della Cgil, della Fiom, della Cisl, della Uil e della Uilm denunciano come “non chiara la strategia del Governo in merito al risanamento ambientale, alle prospettive industriali e occupazionali del gruppo”. Questa volta giungono anche a giudicare una “incognita” la “volontà dei soggetti investitori, a partire da ArcelorMittal, riguardo il loro impegno finanziario”. Meglio tardi che mai, se si considera che Landini aveva inveito contro il ridimensionamento dello scudo fiscale e non vedeva alternative al trattenimento a Taranto del colosso dell’acciaio.
Gli investimenti per l’ambientalizzazione dovrebbero essere per la metà a carico di Arcelor e per l’altra metà a carico del pubblico.
Altre indicazioni riguardano il contenuto del “Nuovo Contratto di Investimento”, cioè le regole da seguire per la sottoscrizione di nuovo capitale da parte dei partner pubblici. Una minuzia di dettagli, dietro cui, come è noto, si potrebbe nascondere il Diavolo. Infatti la via di fuga di ArcelorMittal è già tracciata, come si è visto, nell’ipotesi che questo accordo salti e, c’è da scommettere, il pretesto per non accordarsi non sarà difficile da trovare nelle ingarbugliate clausole congegnate. Il pagamento della caparra di 500, o peggio di 350, milioni non sarà sufficiente a saldare i debiti con le banche né tanto meno a effettuare gli investimenti richiesti dal piano industriale.
La ratio di tutto questo è stata ben individuata da Alessandro Marescotti, Presidente di Peacelink: “Il vero scopo del nuovo piano è quello di dare altri due anni di tempo per la messa a norma degli impianti. Intanto la gente muore”. Peacelink afferma che si tratta di un “copione” già abbondantemente recitato: promesse di miglioramenti per rimandare il risanamento.
Riguardo ad Arcelor, la cosa più probabile è che pratichi la via di uscita segnata dall’accordo, pagando la caparra per accaparrarsi (assonanza non casuale) il portafoglio clienti Ilva.
Il cerino, in tale probabile caso, resterebbe in mano al governo che pare non avere la minima idea di cosa fare di questo stabilimento. In tempi di liberismo imperante, attuare quello che prescriverebbe la Costituzione, cioè l’intervento dello Stato, appare fuori moda. Forse si cercherà, mettendoci un gruzzoletto della Cassa Depositi e Prestiti e allentando ancora i vincoli ambientali, di allettare nuovo partner privato. Ma in questo modo, posto che tale partner lo si trovi, è assai probabile che quest'ultimo sarà attratto più dalle agevolazioni che gli verranno offerte che da una seria intenzione di risanare l’ambiente e rilanciare la produzione. Tanto più che la clientela ormai è roba di Arcelor.
Così finisce spesso il cosiddetto marketing territoriale. Si stendono tappeti di velluto, svendendo l’ambiente e il territorio, che attraggono il peggio delle imprese, le quali prendono armi e bagagli quando, ottenuti i loro scopi, viene meno la convenienza a restare.
Questo conferma che una seria politica industriale è impossibile senza averne gli strumenti, cioè il controllo pubblico di alcuni settori strategici ed evidenzia il crimine di avere smantellato il meglio dell’industria italiana pubblica o a partecipazione statale.
L’altra lezione da trarne è l’incompatibilità fra il modo di produzione capitalistico e l’ambiente. Su pesto rinviamo agli articoli già usciti su questo giornale [2].
Note:
[1] Ecco alcuni altri articoli sull’argomento apparsi su questo giornale:
Emanuele Salvati, Siderurgia: una proposta comunista, 13/05/2016;
Carmine Tomeo, Ripensare l’Ilva, 15/9/2018;
Alessandro Bartoloni, Le scuse di ArcelorMittal e le complicità dello Stato, 24/11/2019;
Federico Giusti, ArcelorMittal alza la posta: subito cassa integrazione per 3.500 operai, 15/12/2019;
Eliana Como, Venticinque anni di Ilva. Il prezzo della privatizzazione, 25/01/2020.
[2] Eccome alcuni:
Marco Paciotti, I presupposti teorici del mito della “decrescita felice”; 27/05/2017
Elena Galli, L’urbanizzazione che tiene in vita il capitalismo: il caso della rendita fondiaria urbana, 19/01/1919;
Renato Caputo, Global strike for future: una manifestazione post-ideologica?, 30/03/2019;
Alessandro Bartoloni, Se non sei seduto a tavola, sei sul menù, 13/04/2019;
Il Barbuto, La trasformazione dell’agricoltura fra capitalismo ed ecomafie, 04/05/2019;
Il Barbuto, Xylella: la scienza falsa al servizio del capitale, 20/05/2019;
Alessandro Bartoloni,Svolta classista nel movimento ambientalista, 21/07/2019;
Ascanio Bernardeschi,L’ingombrante presenza della Solvay, 28/07/2019;
Angelo Caputo, Estinzioni di massa, 28/09/2019;
Il Barbuto, Chi crede ad un capitalismo dal cuore umano o è ingenuo o è in malafede, 13/10/2019;
Carla Filosa, Il cosiddetto problema ambientale, 24/11/2019;
Bruno Buonomo, Ecosocialismo o barbarie, 08/12/2019
Domenico Laise, Il Mito dello sviluppo capitalistico sostenibile, 04/01/2020;
Ascanio Bernardeschi, C’è un brutto clima sotto il capitalismo!, 23/02/2020;
Angelo Baracca, Scienza, guerra, ambiente: via il sistema capitalistico!, 08/03/2020;