Di bonus in peggio

Taglio del cuneo fiscale: non un aumento salariale ma solo una diversa ripartizione delle sue voci e a scapito dei redditi più bassi. Non bisogna quindi rinunciare agli incrementi salariali e alla lotta per i diritti dei lavoratori.


Di bonus in peggio Credits: formiche.net

Nelle ultime settimane, l’argomento più cavalcato negli slogan di Zingaretti e dei suoi accoliti è stato iltaglio del cuneo fiscale, cioè i bonus fiscali che 16 milioni e mezzo di lavoratori italiani si ritroveranno in busta paga dal 1 luglio. Questa è considerata dagli stessi autori la cosa più di sinistra che ha potuto fare questo governo. Figuriamoci il resto. Proviamo a fare un po’ di chiarezza per non far cadere i lavoratori in una delle solite trappole.

Questa vera e propria mancia venne introdotta da Renzi nella forma di una detrazione fiscale di 80 euro in favore di chi aveva un reddito non superiore a 26.600 euro, da evidenziare però in busta paga come voce separata, non come le altre detrazioni, tanto per fare propaganda. Trattandosi di detrazione fiscale, chi aveva un reddito minimo che pagava un’imposta inferiore a 80 euro mensili, vedeva ridursi il beneficio alla misura dell’imposta dovuta, e a zero se il suo reddito era così basso che, al netto delle altre detrazioni, non doveva pagare nessuna imposta.

Il governo Conte bis, ha portato questo bonus a 100 euro ed ha esteso la platea dei beneficiari: il tetto di reddito al di sotto del quale si ha diritto al bonus per intero è stato elevato a 28 mila euro, ma fino a 40mila euro si potrà continuare ad avere un beneficio via via decrescente.

Vediamo cosa viene in tasca alle varie fasce di reddito. Chi non supera i 26.600 euro avrà un aumento di 20 euro mensili (la differenza fra 100 e 80), chi avrà un reddito superiore, compreso fra i 26.600 e i 28 mila avrà un beneficio di 100 euro mensili (la differenza fra 100 e niente), da 28 mila a 35 mila il beneficio sarà di 80 euro e oltre i 35 mila euro, fino ai 40 mila, un beneficio gradualmente decrescente. I nuovi beneficiari, circa 4 milioni di persone, si collocano tutti al di sopra del reddito di 26.600 euro. Continueranno a non avere nessun beneficio i redditi bassi e i pensionati, compresi quelli al minimo. Quindi la misura “di sinistra” si risolve nell’avvantaggiare prevalentemente i redditi medi e non darà niente ai redditi più bassi. Naturalmente non ce l’abbiamo con i lavoratori che vengono pagati decentemente e siamo lieti che possano trovarsi qualche euro in più in busta paga. Ma l’ingiustizia verso chi sta anche peggio, introdotta da Renzi, aumenta. Questo se si guarda solo al salario diretto, quello netto in busta paga, per capirsi.

Le cose peggiorano invece se si fanno altre considerazioni. Poiché di rendere più progressive le aliquote Irpef, che nel tempo si sono andate appiattendo drasticamente, o di introdurre un’imposta sui grandi patrimoni, nei programmi del governo non se ne parla nemmeno, queste mance andranno a ridurre il gettito fiscale di circa 3 miliardi. La diminuzione dovrà quindi essere compensata o da tagli delle pensioni e dei servizi o da aumento delle tariffe di quest’ultimi, o da altri balzelli che di solito non tengono minimamente di conto del reddito percepito (e quindi pesano di più sulla povera gente) o, più probabilmente, da un mix di tutto ciò.

Chi avrà qualche euro in più in busta paga avrà per contropartita queste perdite e il bilancio spesso potrebbe essere in perdita. Chi non avrà niente o avrà pochissimo avrà solo le perdite. I grandi redditieri se ne fregheranno altamente perché fanno a meno dei servizi pubblici, che anzi vanno sempre più privatizzandosi. I padroni non spenderanno un euro in più per pagare i lavoratori.

Finisce qui il bilancio? No, c’è altro. La Fondazione Di Vittorio, l’anno scorso, denunciava la perdita di potere di acquisto dei salari e delle pensioni. Dal 2011 al 2019 la perdita sarebbe stata, secondo le sue stime, di oltre 1.000 euro. In ciò l’Italia si differenzia dalla Francia e dalla Germania, dove, secondo i dati Ocse, i salari sono cresciuti (di 2 mila euro in Francia e di 3.800 in Germania). Per quanto riguarda i contratti a part-time la perdita salariale in Italia è ancora maggiore.

Tredici milioni di lavoratori e lavoratrici nel nostro paese attendono il rinnovo dei loro contratti nazionali; il taglio del cuneo fiscale, che illusoriamente fa crescere i salari, potrebbe indurre i sindacati ad accontentarsi di minori aumenti contrattuali. La dice lunga il commento di Landini che canta “vittoria” per questa concessione e afferma che “la lotta [inesistente, n.d.r.] paga”! Che sia già appagato? Il rischio è quello di accettare una sorta di scambio diseguale: accettare nuovi contratti da fame che alla fine ci faranno perdere potere di acquisto e di contrattazione, facendo credere che tale perdita è stata già compensata dalla manovra fiscale del Governo.

Landini, da dopo che è diventato segretario generale della Cgil e che al governo ci sono le autoproclamate sinistre, si dimentica che per il tenore di vita dei lavoratori non conta solo il salario diretto, ma anche quello indiretto (i servizi essenziali assicurati) e differito (le pensioni) e che il taglio del cuneo fiscale non comporta quindi un aumento del salario sociale complessivo ma solo la riduzione delle imposte che, in assenza di una giustizia fiscale (oggi la stragrande maggioranza del gettito proviene dal lavoro dipendente), servono a finanziare le altre voci del salario sociale. Una sorta di partita di giro in cui però ci rimette chi sta peggio.

Anche in un’ottica keynesiana, che pure non ci convince, ammesso e non concesso che la crisi sia superabile attraverso la miracolosa ricetta di aumento dei consumi, sarebbe stato più efficace pensare ai redditi bassi, aventi, per ovvi motivi, una maggiore propensione al consumo, il cui aumento di capacità di spesa avrebbe determinato l’attivazione di un moltiplicatore keynesiano più potente. Se poi queste risorse fossero state destinate ad assicurare servizi più decenti, tutti e tre i miliardi, e non solo una loro parte, si sarebbero tradotti in spesa, con un effetto maggiore sulla domanda.

Il capitalismo italiano da almeno tre decenni si è limitato a precarizzare i lavoratori, adiminuire il valore della forza-lavoro con rapporti di produzione sempre più incivili, a delocalizzare le produzioni dove più gli conveniva e ad esternalizzare alcuni processi produttivi, appaltandoli a imprese che possono far risparmiare trattando peggio i lavoratori. Quello che invece si è guardato dal fare è l’innovazione tecnologica e la formazione del lavoratori. Infatti è cresciuto il peso delle basse qualifiche. Da qui la perdita di competitività del “sistema Italia” e il ritardo nella produttività associato a un aumento sensibile dei carichi di lavoro. Superfluo dire che a perderci sono stati i lavoratori.

Non dovremmo tralasciare neppure la perdita di potere contrattuale e di resistenza da parte del mondo del lavoro grazie alJobs Act e alla legge Fornero. Davvero i tagli delle tasse sono la soluzione migliore? O serve restituire dignità al lavoro e una legislazione maggiormente tutelante?

In una intervista a Il sole 24 Ore, l'economista e senatore PdTommaso Nannicini ha affermato: “Il Jobs Act è un cantiere aperto, va completato, altro che abolito. Alcuni elementi di quella riforma, come le tutele crescenti in caso di licenziamenti illegittimi, non ci sono praticamente più, dopo la pronuncia del 2018 della Corte costituzionale, adesso c’è un semplice meccanismo risarcitorio tornato alla discrezionalità del giudice. Altri elementi dobbiamo completarli senza tornare indietro, come nel caso degli ammortizzatori sociali, che vanno sì rafforzati ma col taglio universalistico del Jobs Act, evitando quindi di ripristinare una cassa integrazione discrezionale, senza limiti temporali e solo per pochi”.

Il messaggio sembra chiaro e Nannicini non è certo isolato nel Pd. In questa situazione la Cgil canta vittoria per il fatto che la legge di bilancio presenta “molte cose giuste” (Landini dixit), che si sta ritornando alle politiche concertative, in cui i sindacati “discutono” (non contrattano, né tantomeno lottano) con il governo di ammortizzatori sociali, di rappresentanza sindacale, di pensioni e appunto e di Jobs Act. Ma senza mai rimettere in discussione l'impianto liberista e le leggi in materia di lavoro e previdenza che hanno costruito le basi di una società sempre meno equa e solidale.

Piuttosto che esultare il sindacato e il mondo del lavoro dovrebbero avere chiaro che il taglio delle tasse non può sostituirsi alle dinamiche contrattuali, che l’aumento del netto in busta paga ottenuto facendo pagare Pantalone, senza che il capitale debba perderci un soldo è per quest’ultimo una manna piovuta dal cielo, cheè necessario recuperare effettivamente il potere di acquisto perduto nell'ultimo decennio dai salari e dalle pensioni, recuperare il livello qualitativo e quantitativo dei servizi pubblici, sempre più disastrati, non accettando la logica di qualche euro in più per poi doversi arrangiare individualmente a tamponare le carenze delle prestazioni della pubblica amministrazione. Sono questi obiettivi puramente riformisti, non la rivoluzione, ma certo riformismo è ormai molto al di sotto dei limiti di decenza.

01/02/2020 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
Credits: formiche.net

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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