Per chi come noi lavora da oltre un decennio nella cooperazione sociale, quella che si occupa da oltre un ventennio di sostenere la fine dello stato sociale così come lo hanno conosciuto i nostri genitori e di accompagnarne i residui attraverso il processo di graduale smantellamento del sistema complessivo di tutela dei cittadini più deboli, quello che abbiamo davanti agli occhi oggi è l'ombra di ciò che quella scommessa aveva l'ambizione di raggiungere.
La cooperazione sociale oggi è morta, va detto con forza.
Fatto salvo che per esperienze residuali e comunitarie, ormai le cooperative sociali di sociale conservano ben poco, neppure quella retorica di cui per anni hanno intessuto le loro trame.
Oggi chi lavora nel sociale qualora avesse la presunzione di poter contrastare l'emarginazione e il disagio sociale incontra quotidianamente il baratro di una condizione retributiva e contrattuale tremenda, diremmo grottesca. Paghe orarie al netto che non superano le 9 euro, a Torino come a Palermo, richieste di flessibilità quasi insostenibili e assenza di democrazia partecipativa interna che minano alla radice l'identità stessa della cooperazione sociale.
Quello che oggi abbiamo davanti agli occhi è un sistema privo di fantasia creatrice, di voglia di scommettere sul futuro dei propri lavoratori cosi come dei cittadini ormai definiti utenti.
Utenti di servizi senza né capo né coda, servizi che non generano qualità e quindi benessere ma solo garanzia della copertura del servizio nelle scuole, nelle case, nei centri o comunità, quello che si occupa è il tempo.
Difronte a questo scenario non tutto è pregiudicato.
Il grande assente in campo è l'arbitro, ovvero i cittadini che beneficiano dei servizi e i lavoratori.
Insieme possiamo riscrivere la storia partendo dal presente e rivendicare diritti del lavoro e qualità dei servizi, senza temere di indicare la luna dimenticandosi del dito. Quello che servirebbe oggi è uno slancio di desiderio, ripartire dalle tante ombre per riaccendere la luce riparlare di pubblico anzichè rassegnarsi al privato, sociale o no.
Noi lavoratori sociali abbiamo tante cose da dire, riprendiamo la parola!
L'articolo che vi propongo in questo numero della rivista è una corrispondenza che ci perviene da una operatrice sociale di Roma, che lavora per una cooperativa sociale la quale chiede a lei, così come accade per la stragrande maggioranza dei casi, di prestare opera di assistenza nelle scuole al mattino e, laddove le ore non sono sufficienti, a garantire la copertura e il rispetto di un contratto full time, di trasformare la propria giornata in un mosaico di prestazioni.
Accade quindi, nella normalità dei casi, che chi fa l' AEC (Assistente Educativo Culturale) al mattino diventi poi nel pomeriggio operatrice o operatore di laboratorio, di comunità, di centro diurno, domiciliare etc.. tutto con lo stesso compenso orario, stiamo parlando di 7 euro scarse massimo 9 netti l'ora.
SARA - operatrice sociale
Quando mi è stato chiesto di dare una testimonianza del mio lavoro come A.E.C. ho subito pensato alla complessità di questa operazione.
La prima difficoltà riguarda proprio il fatto di rendere giustizia nel poco spazio disponibile di un blog proprio della complessità della funzione che l'Assistente Educativo Culturale svolge all'interno delle Istituzioni scolastiche.
L'A.E.C., per chi non lo sapesse, è una figura professionale cui spetta il nobile compito della realizzazione delle politiche scolastiche, più moderne e à la page, sull'inclusione ed integrazione degli alunni con disabilità.
L'A.E.C svolge mansioni e gestisce relazioni a più livelli all'interno della scuola:
- gestisce il caso del singolo alunno disabile, la cui unicità e la decodifica di tale unicità rappresenta la prima sfida dell'operatore;
- collabora con gli insegnanti di sostegno, questi ultimi spesso inadeguati nella gestione di veri e propri casi clinici;
- lavora con il gruppo-classe all'interno del quale l'alunno disabile è inserito;
- gestisce le relazioni con gli insegnanti curriculari;
- gestisce le relazioni con la Dirigenza.
Senza contare la gestione dei rapporti con i genitori degli alunni disabili stessi, i rapporti con il proprio datore di lavoro (le Cooperative Sociali) e i rapporti con il Servizio Pubblico.
Per quel che riguarda la mia esperienza posso dire che in ciascuno di questi livelli emergono delle criticità che rendono difficile, spesso vano, il lavoro dell'operatore A.E.C.
Rimando ai prossimi articoli, l'analisi di queste criticità e le ipotesi sulle cause delle stesse.
Mi preme qui dire e partire da una considerazione. A fronte dei più nobili propositi spesso si contrappone in Italia, si sa, un'incapacità di tradurre il proposito in obiettivo, un'incapacità di favorire e realizzare nella realtà condizioni di benessere sociale.
Uno dei sintomi di questa incapacità è, a mio avviso, proprio la mancanza di riconoscimento istituzionale, politico-sociale della figura professionale dell'A.E.C., che si fa anche metro del grado di civiltà nonché indicatore del livello di disuguaglianza nel nostro paese. A dimostrazione di tutto ciò faccio solo un accenno alla situazione contrattuale dei lavoratori A.E.C., condizioni quasi pre-industriali a fronte di un'alta formazione richiesta per la partecipazione ai bandi pubblici.
La svalutazione di questa professione è del tutto ingiustificata, tanto più perché potrebbe rappresentare una figura professionale autonoma che funga direttamente da raccordo tra politiche scolastiche e politiche sociali.
Voi stessi, che leggete, potete avere la prova di quanto sopra e finisco con una suggestione o una provocazione, come volete. Provate a chiedere ora a chi vi sta vicino:" Sai cosa fa un A.E.C?". Vi risponderà:" No, che lavoro è?"