Fra tutti gli effetti tremendi che ha avuto la pandemia e il suo uso capitalistico vi è certamente, oltre al netto aumento di morti sul lavoro, il divieto di sciopero, di assemblea e l’imposizione su larga scala del lavoro a cottimo. D’altra parte la quarantena forzata ha avuto almeno un aspetto positivo, ci ha portato a utilizzare piattaforme per video-assemblee che ci hanno consentito di poter discutere e confrontarci con lavoratori di tutto il paese. Questa possibilità ha avuto come più significativo risultato quello di rilanciare a livello locale e nazionale il decisivo movimento dei lavoratori autoconvocati.
Si tratta di un movimento che nasce dal basso e che è trasversale alle molteplici sigle sindacali che hanno l’effetto negativo di dividere e, talvolta, addirittura contrapporre i proletari con il risultato di renderli incapaci di reggere il conflitto di classe con il padronato. I lavoratori autoconvocati sono anche trasversali alla miriade di sigle, tutte sostanzialmente incapaci di incidere nel conflitto sociale, in cui si è spappolata la sinistra di classe. Così nelle assemblee autoconvocate si confrontano, sulle decisive tematiche del conflitto sociale, lavoratori appartenenti alle più diverse sigle e aree sindacali, con lavoratori non iscritti a nessun sindacato, lavoratori che sono parte di un po’ tutte le principali organizzazioni della sinistra di classe e lavoratori che non hanno ancora trovato una organizzazione politica di riferimento.
Il risultato più significativo è che non si perde più tempo in sfiancanti e del tutto controproducenti lotte fratricide fra sindacati e organizzazioni politiche, tutte di fatto incapaci da anni a tener testa all’offensiva padronale nel conflitto sociale. Inoltre, tali incontri sono avvertiti, a ragione, come un pericolo da tutte le burocrazie sindacali, consentendo ai lavoratori che sono ogni giorno in prima linea nel conflitto sociale e di classe di confrontarsi direttamente, senza intermediazioni e rappresentanti cui delegare la propria partecipazione attiva e costruttiva al conflitto di classe.
Aspetto ancora più significativo è che sono emerse diverse forme di aggregazione dei lavoratori sulla base del comune principio dell’autoconvocazione, sia a livello locale, che di categoria e anche nazionale. Realtà che, pur condividendo buona parte dell’impostazione, sino a ora si conoscevano poco o per niente. In effetti, alla base di tutte queste esperienze, sorte spontaneamente, vi è in modo più o meno consapevole la presa di coscienza dei limiti non solo dei sindacati italiani e delle loro burocrazie, ma dei limiti dello strumento sindacale in quanto tale, per sua natura fondamentalmente riformista e tendenzialmente opportunista, dal momento che ha come scopo principale cercare di vendere al prezzo più alto possibile la forza lavoro e contrattare il suo utilizzo da parte del padronato che la ha comprata.
Per altro, in una situazione di crisi come quella che viviamo da anni, con un numero molto elevato di disoccupati e di sottoccupati, i margini di contrattazione del sindacato si sono anche, oggettivamente, ridotti al lumicino. Anche perché la caduta tendenziale del tasso del profitto lascia sempre meno margini al padronato per corrompere il proletariato – il suo potenziale becchino – con riforme e piccole concessioni salariali.
Per cui, se da una parte è sorta spontaneamente la necessità di coordinare le indispensabili lotte all’interno del sindacato contro le burocrazie e le tendenze a procedere in ordine sparso, dall’altra è emerso chiaramente che solo rilanciando e sviluppando dal basso forme di autoconvocazione sarà possibile costringere i vertici sindacali a ritrovare l’unità nelle lotte. Inoltre il coinvolgimento diretto dei lavoratori nei coordinamenti autoconvocati significa, in primo luogo, il superamento del pensiero unico neoliberista tutto teso a passivizzare le masse popolari e gli stessi intellettuali anticonformisti in nome del principio antidemocratico della delega.
Da queste assemblee nazionali è emersa l’esigenza di sviluppare forme di autoconvocazione in ogni territorio, settore e, possibilmente, luogo di lavoro, insieme alla necessità di trovare una forma di coordinamento nazionale di tutte queste importantissime esperienze sviluppatesi finora in modo sostanzialmente indipendente le une dalle altre. Anche perché, se non si supera la logica conservatrice della difesa del proprio orticello, non si sarà mai in grado di uscire dalla funzione di mera testimonianza, tornando a essere protagonisti del conflitto sociale.
A tale scopo è sorta e si è sviluppata da un’assemblea all’altra la necessità di lavorare insieme alla costruzione di un programma minimo di classe necessario, in questa fase, per poter operare ognuno nel suo luogo di lavoro, nel suo sindacato, all’interno della propria organizzazione con degli obiettivi comuni, in modo da poter colpire uniti pur dovendo ancora procedere separati.
In questa prospettiva la prima esigenza comune è quella, in questa fase in particolare, di garantire la sicurezza nei luoghi di lavoro, puntando a coinvolgere i lavoratori in prima persona a svolgere l’essenziale funzione di controllo sulle modalità di utilizzo della forza-lavoro da parte del padronato che l’ha acquisita e che tenderà a impiegarla per massimizzare lo sfruttamento, disinteressandosi della necessità dei lavoratori di operare in sicurezza. Esigenza comune, che andrà poi declinata a seconda del settore in cui si opera e che, ad esempio, per i lavoratori della scuola significa porre fine alle classi pollaio, assumendo i precari e investendo per adibire a luoghi di insegnamento in primo luogo la parte del patrimonio pubblico in disuso.
In secondo luogo, è emersa la necessità di riprendere la lotta fondamentale del proletariato moderno, ovvero la lotta per la riduzione generalizzata dell’orario di lavoro a parità di salario e di ritmi di sfruttamento – da garantire mediante forme di controllo dei salariati sulla produzione. Si tratta di una battaglia decisiva in primo luogo perché è l’unica capace di unificare l’intera classe proletaria, unendo i lavoratori a tempo indeterminato, i precari e/o sottoccupati e i disoccupati nel comune obiettivo di lavorare meno, per lavorare tutti e meglio. Per altro, tale battaglia è di primaria importanza in quanto mentre il salario sociale è grosso modo destinato a rimanere costante, in quanto legato al prezzo, ovvero al valore di scambio della forza-lavoro, equivalente come tutte le altre merci al tempo di lavoro astratto medio, dato un certo sviluppo delle forze produttive, necessario a riprodurla. Mentre, al contrario, il tempo e le modalità di sfruttamento della forza-lavoro dipendono essenzialmente dal conflitto sociale, non essendoci un prezzo o un valore di riferimento. Anzi, in mancanza di una efficace lotta di classe dal basso da parte dei lavoratori, il padronato avendo acquistato la forza-lavoro avrebbe la possibilità di consumarla come meglio crede, essendo una merce in suo possesso.
Inoltre, solo con una significativa lotta per la riduzione dell’orario di lavoro, che porti a dei risultati significativi, sarà possibile riconquistare il tempo necessario e indispensabile al proletariato affinché riacquisti la decisiva coscienza di classe e riprenda a partecipare in modo attivo e da protagonista alla vita sociale e politica. Non per niente è bastato che qualche giornalista formulasse, del tutto a sproposito, la prospettiva di un ritorno della riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, a far perdere le staffe ai rappresentanti del padronato, che l’hanno bollata come una vera e propria provocazione, costringendo l’attuale comitato d’affari delle borghesia al governo a smentire immediatamente qualsiasi intenzione di riaprire anche solo il dibattito su una questione sociale in grado di far tremare i polsi al padronato, con il solo essere enunciata.
D’altra parte è apparso evidente in diversi interventi nelle assemblee autoconvocate come tale prospettiva, di riaprire il conflitto dal basso su questa decisiva questione, implica al contempo una lotta senza quartiere a ogni forma di cottimo, più o meno mascherata, che comporta la scomparsa dello stesso orario di lavoro. In secondo luogo tale prospettiva rende altrettanto indispensabile la lotta senza tregua alla modalità di riduzione dell’orario di lavoro senza parità di salario, ovvero le forme di lavoro precarie, flessibili o part-time, che non consentono al lavoratore di ottenere nemmeno il salario minimo indispensabile alla propria riproduzione come forza-lavoro. Al contempo, per riprendere la lotta per la riduzione dell’orario di lavoro, bisognerebbe partire dal prerequisito del blocco di ogni forma di straordinario, che consente di sforare sempre di più i limiti allo sfruttamento della forza-lavoro conquistati dopo lunghe e terribili lotte dai salariati.
Dunque, un altro elemento programmatico necessario è la lotta per il salario sociale di classe nelle sue tre componenti, ossia la busta paga, i servizi sociali a prezzi calmierati o gratuiti e la pensione. Senza un recupero della quota di salario sociale persa negli ultimi anni sarà impossibile convincere i lavoratori a rinunciare agli straordinari. Tanto più che il sistema toyotista in via di espansione su scala globale, mira a portare il salario sotto la soglia di sussistenza, per costringere il lavoratore a implorare di poter fare gli straordinari, di modo che questi ultimi non gli siano pagati e riconosciuti come tali.
A tale scopo diviene necessario rimettere in questione il terribile meccanismo del debito, che porta lo Stato, per pagare interessi sempre più salati, a tagliare il salario indiretto e differito, sostenendo che non si può far altro, in ciò spalleggiato dai poteri forti dell’Unione europea che pretendono che qualsiasi governo porti avanti le misure liberiste che ha sottoscritto con i suoi trattati istitutivi. È evidente che si tratta di due meccanismi che mirano a mantenere sempre il salario al minimo, impedendo così al proletariato di battersi per la riduzione dell’orario.
Per uscire da questa trappola non ci sono che due strade, che andrebbero percorse simultaneamente. Da un lato disinnescare la trappola del debito mediante un processo di audit che sia in grado di coinvolgere le masse popolari per una radicale diminuzione del debito. Al contempo occorre battersi contro le misure di austerità imposte dall’Unione europea. Bisogna, inoltre, far sì che i salatissimi conti di questi due micidiali meccanismi li cominci a pagare chi li ha voluti, ovvero le classi dominanti, attraverso in primo luogo una seria patrimoniale, in secondo luogo la lotta all’evasione fiscale e, in terzo luogo, una forte tassazione delle eredità.
Per recuperare il salario indiretto bisognerebbe riuscire a imporre ai governi la drastica riduzione delle spese militari a favore della spesa sociale. Allo stesso tempo occorrerà far sì che governo e Stato smettano di finanziare con le risorse pubbliche imprese e banche private. I soldi pubblici devono essere utilizzati solo per rilanciare i servizi pubblici e così recuperare le quote di salario indiretto perse negli ultimi decenni. Si deve, dunque, imporre che, se soldi pubblici debbano essere investiti nel privato, devono essere utilizzati solo per riconquistare quelle proprietà dello Stato che sono state svendute negli ultimi decenni. D’altra parte, per far sì che non si tratti di una socializzazione delle perdite dei privati – acquistandone proprietà sull’orlo del fallimento, per restituirle ai proprietari privati dopo averle risanate – i lavoratori debbono imporre forme di controllo popolare sui beni pubblici, affinché non siano continuati a utilizzare a beneficio dei privati.