L’intellettuale potrà realmente contribuire all’emancipazione della società da ogni forma di dominio e sfruttamento soltanto se opererà in funzione del superamento di se stesso. In altri termini, unicamente se rinuncerà ai relativi privilegi dovuti alla propria separazione dal lavoro manuale e dalla propria conseguente subalternità alla classe dominante potrà essere realmente autonomo, critico, e svolgere una funzione progressiva.
di Renato Caputo
La primigenia divisione del lavoro fra lavoratori manuali e lavoratori della mente è in qualche modo fondativa della stessa storia della società umana per come la abbiamo sino a ora conosciuta. Tale originaria lacerazione del corpo sociale è alla base della scissione della società in gruppi sociali, caste e poi classi con interessi divergenti e potenzialmente conflittuali.
Tale divisione del lavoro, da cui è sorto l’intellettuale, ha così caratterizzato in profondità la società umana tanto quanto quella altrettanto primigenia fra i sessi. Essa è certamente alla base dell’eccezionale progresso storico del genere umano, genialmente sintetizzato da Stanley Kubrik in una celebre scena di 2001 Odissea nello spazio, in cui il bastone, usato per la prima volta come strumento da un uomo primitivo, in un arco di tempo relativamente limitato si trasforma nell’astronave proiettata alla “conquista” dello spazio. Allo stesso tempo però – e questo costituisce certamente il lato oscuro del progresso, troppo spesso colpevolmente occultato – esso è stato il prodotto di un incessante conflitto sociale. Quest’ultimo – sviluppatosi in seguito a livello internazionale e che ha strumentalizzato la stessa differenza fra i sessi – si è articolato ora in modo aperto, ora in forma latente, nel caso in cui è stato portato avanti in modo sostanzialmente unilaterale dal gruppo sociale dominante, da sempre interessato al mantenimento della “pace sociale” in funzione di una più agevole salvaguardia dei propri privilegi.
Anche le prime forme di comprensione del mondo mitologico-religiose sono il portato di questa primigenia forma di divisione del lavoro. Tanto l’arte, quanto la religione – in tale epoca primigenia ancora strettamente connesse – sono sorte proprio nel momento in cui la comunità primitiva di cacciatori ha demandato agli individui maggiormente riflessivi, magari perché fisicamente meno dotati, di rimanere al villaggio a riflettere sulle attività produttive svolte dal resto della comunità, allo scopo di un loro miglioramento. Sono così sorte le prime pitture rupestri – volte a pianificare le battute di caccia, riflettendo, ad esempio, sulle zone del corpo della preda più vulnerabili – e le prime religioni naturali, indispensabili a una prima comprensione dei fenomeni naturali che li rendesse maggiormente prevedibili e, quindi, controllabili dall’uomo.
In tal modo gli intellettuali hanno svolto un ruolo decisivo per lo sviluppo della civiltà umana, decisamente progressivo, in quanto hanno dato un indispensabile impulso alla prima fase della storia dell’emancipazione del genere umano, quale emancipazione dall’ambiente naturale. Allo stesso modo gli intellettuali hanno dato un contributo decisivo anche al lato oscuro di questa storia, alla lotta per la de-emancipazione del genere umano, svolgendo contraddittoriamente una funzione conservatrice o addirittura reazionaria.
L’emergere della loro funzione, autonomizzata dal resto della società, segna la fine del comunismo originario e i primi intellettuali, artisti e sacerdoti, sono divenuti presto il primo gruppo sociale dirigente e dominante. Non a caso nelle prime forme statuali e, dunque, di oppressione di un gruppo sociale sugli altri – generalmente definite dispotiche – tende a prevalere una forma di potere teocratico. Per stabilizzare il loro dominio, fondato sulla primigenia divisione del lavoro mentale dal lavoro manuale, gli intellettuali hanno elaborato le prime ideologie di natura religiosa che tende a presentarli come una stirpe di origine divina, necessariamente distinta e destinata a dominare sulla massa di origine bestiale, cui è demandato il lavoro subordinato. Sorgono così le prime caste, a difendere le quali non è però sufficiente l’egemonia mediante il monopolio della cultura – dal momento che sapere è potere – ovvero mediante la religione e l’arte in senso lato, ma vi è bisogno anche del monopolio della violenza legale.
Sorgono così gli Stati e la casta dei militari, i cui membri pongono la loro prestanza fisica – si tratta in primis dei figli della casta dei sacerdoti – al servizio della classe dirigente, che li dota degli strumenti tecnici indispensabili (le prime armi) al loro ruolo di guardiani dell’ordine costituito. D’altra parte i giovani militari aspireranno ben presto a prendere, prima del tempo stabilito, il posto del gruppo intellettuale dirigente, creando così i primi attriti all’interno del ceto sociale dominante, che tenderà a svilupparsi in modo bipolare, fra chi ritiene l’egemonia intellettuale il fattore più importante per mantenere il dominio e chi privilegia invece la violenza, esercitata attraverso il controllo dello sviluppo tecnologico.
Inoltre i gruppi dominanti hanno finito per sfruttare la propria rendita di posizione per delegare una parte crescente della loro funzione dirigente a una casta di mandarini, scribi, farisei e chierici, cooptata – anche se in funzione subalterna – nel blocco sociale dominante. In tal modo si sono creati ulteriori attriti fra il ceto dominante, dal momento che i detentori del potere finanziario, mediante il quale si assicurano i servigi dei militari, tendono a impedire alla casta sacerdotale-intellettuale – ossia alla classe dirigente – di poter svolgere in modo autonomo la propria direzione. Nel momento in cui essa prova a emanciparsi dal ruolo di servizio, funzionale agli interessi della classe dominante, viene accusata di essere parassitaria, per i privilegi di cui gode rispetto alla funzione produttiva delle masse lavoratrici.
Tale contrasto può portare una parte della casta intellettuale a tentare di autonomizzarsi dalla casta economicamente dominante, ponendosi alla testa dei subalterni. In tal modo anche la casta sacerdotale e intellettuale tende a scindersi fra chi preferisce la sicurezza garantita dal posto fisso al servizio del potere e chi invece si assume il rischio della precarietà per cercare in qualche modo di emanciparsi.
Tale scontro fra gli intellettuali che coraggiosamente si battono per l’emancipazione del genere umano e che, dunque, tendono a schierarsi dalla parte dei subalterni, e gli intellettuali più pavidi, che preferiscono il loro ruolo di funzionari al servizio del potere, è stata esemplarmente rappresentata dal conflitto fra Gesù e i suoi umili discepoli da una parte e farisei e sommi sacerdoti dall’altra. Non a caso questo giovane e intraprendente intellettuale di Nazareth era figlio di un lavoratore manuale, come un po’ tutti i suoi discepoli.
Tale confronto-scontro ha segnato l’intera storia umana quale storia della lotta per l’emancipazione del genere umano dalle proprie origini bestiali, che proprio per questo ha visto momenti di grande progresso e momenti di stagnazione o addirittura di recessione. Comunque, se apparentemente sembrano sempre avere la meglio i mandarini e chierici al servizio del potere, e gli intellettuali ribelli da Cristo a Che Guevara sembrano destinati ad avere la peggio, alle lunghe sono stati proprio questi ultimi a improntare di sé il corso storico, decisamente più dei loro carnefici, per altro ricordati solo in quanto responsabili della morte di grandi intellettuali rivoluzionari.
Ai giorni nostri, con Stati che hanno sviluppato al loro interno una società civile sempre più ampia, dal momento che il dominio di classe deve passare sempre più attraverso l’egemonia, ossia il consenso dei subalterni, piuttosto che attraverso il solo monopolio della violenza – proprio perché nella storia fino a ora complessivamente le forze del progresso hanno avuto relativamente la meglio – il ruolo degli intellettuali diviene vieppiù decisivo. La società civile è il luogo dello scontro a livello delle strutture socio-economiche e delle sovrastrutture ideologico-culturali fra i gruppi sociali subalterni che mirano, anche se inconsapevolmente, a un ulteriore progresso nel processo di emancipazione dell’umanità e le classi dominanti necessariamente conservatrici se non addirittura reazionarie.
Tale vero e proprio scontro di civiltà è necessariamente guidato da entrambi i fronti da intellettuali, che svolgono la funzione imprescindibile di provare a dare una direzione consapevole ai movimenti necessariamente spontanei delle masse sociali di cui provano a svolgere la funzione di coscienza critica, avanguardia e intellighenzia. Solo attraverso gli intellettuali infatti le classi sociali in sé, possono divenire per sé, ossia prendere coscienza dei propri reali bisogni, dei propri fondamentali problemi, dei propri obiettivi di fondo, dei potenziali amici e degli avversari storici.
Ora evidentemente le classi dominanti dal punto di vista economico e di conseguenza, generalmente, dirigenti anche dal punto di vista politico, hanno una schiera potenzialmente infinita di intellettuali organici – atti a esercitare il proprio dominio nell’ambito strutturale, economico e sociale – e di intellettuali tradizionali, indispensabili a far sì che l’ideologia e la cultura dominante sia quella (in modo diretto o indiretto, consapevole o inconsapevole) funzionale al mantenimento della propria egemonia, indispensabile alla salvaguardia dei propri privilegi. Del resto la classe dominante controlla i principali mezzi di produzione, ossia le leve dell’economia, e dunque gli intellettuali organici – dagli ingegneri ai tecnici più o meno specializzati – sono essenzialmente al suo servizio, non fosse altro perché sono da essa stipendiati.
Anche gli intellettuali che formano l’opinione pubblica a livello ideologico e culturale, come quelli che operano nei mezzi di comunicazione, sono generalmente o direttamente al servizio della classe dominante, in quanto stipendiati direttamente da essa, o in modo indiretto in quanto impiegati di uno Stato che rappresenta sempre più apertamente uno strumento di dominio della classe dominante, dal momento che il dominio economico consente progressivamente di assumere il controllo politico.
È, dunque, indispensabile per le forze progressiste conquistare alla parte dei subalterni – che sono oggettivamente interessati a un’ulteriore emancipazione del genere umano – gli intellettuali tradizionali, in mancanza dei quali difficilmente potranno andare al di là di rivolte, tanto esplosive quanto facilmente domabili, o di lotte di natura corporativa, altrettanto arginabili in modo relativamente semplice dal potere costituito.
Tali intellettuali, però, non solo sono generalmente provenienti dalle classi sociali dominanti o dalle classi media con esse alleate, ma sono altrettanto generalmente formati ai valori dei dominatori, che per difendere i proprio privilegi devono necessariamente perpetuare e radicalizzare la divisione del lavoro fra intellettuali e lavoratori manuali.
In tal modo il pensiero degli intellettuali tradizionali è tendenzialmente idealista e votato al primato della contemplazione, dal momento che l’azione, la prassi è demandata ai subordinati lavoratori manuali. Il loro sapere tende perciò a divenire poco pratico, poco attento ai risvolti storici, politici e sociali del proprio operare e finisce progressivamente per confinarsi o nel tecnicismo specialistico o nella retorica. Inoltre tali intellettuali, nel momento in cui lo scontro si fa duro, tendono generalmente a non seguire la strada del possibile calvario, ma a tornare all’ovile, ossia a ricollocarsi al servizio dell’ordine costituito. Non a caso un Giordano Bruno è un caso eccezionale, un Galileo Galilei un caso particolare, un Don Abbondio un caso fin troppo comune.
Conditio sine qua non del successo della lotta di liberazione dei subalterni e con esso del nuovo avanzamento della storia dell’emancipazione del genere umano è, dunque, la formazione al suo interno di un intellettuale di tipo nuovo, in quanto in sé e per sé organico alle classi sociali oppresse.
Note
* Dalla relazione tenuta il 29/04/2016 all’interno del ciclo di seminari su Intellettuale e società organizzati da Link all’Università “La Sapienza” di Roma.