Quali sono le conseguenze teoriche e politiche dell’impiego della nozione di ideologia e di quella di cultura? Non è contraddittorio richiamarsi ai “fatti” per liquidare le visioni ideologiche e al contempo appellarsi al relativismo culturale per legittimare la propria opinione, qualsiasi essa sia?
di Alessandra Ciattini
Ascoltando con atteggiamento critico il linguaggio politico e quello massmediatico, assai spesso coincidenti, si può cogliere questa paradossale contraddizione: da un lato, le ideologie sono finite ed è quindi opportuno fare costantemente riferimento ai “fatti”; dall’altro, formulando qualche considerazione, ci si appresta a sottolineare che essa è esclusivamente frutto della propria personale opinione, ovviamente sempre rispettabile perché viviamo in un “sistema democratico”.
Sembrerebbe, quindi, che per un verso, si è del tutto convinti che esistano “fatti” osservabili e identificabili indipendentemente dal punto di vista di chi esprime una valutazione; e, infatti, a proposito ad esempio di una certa misura economica da prendere, si ripete ciò non è né di destra né di sinistra, perché sta nelle cose. Per l’altro verso, con una vena relativistica, assai antipatica alla Chiesa cattolica, si ribadisce che ognuno ha legittimamente le proprie opinioni, in cui si esprimono scelte culturali differenti, tutte accettabili.
Nel primo caso si identifica l’ideologia con un insieme di preconcetti, appartenenti ad un passato ormai superato, e applicati in maniera dottrinaria e semplificatoria. Nel secondo caso il richiamo implicito è, invece, alla nozione di cultura, che a sua volta rimanda alla convinzione che l’uomo contemporaneo abbia di fronte a sé una miriade di opzioni culturali, tra le quali potrà individuare quella che gli consentirà una più piena realizzazione di sé. Per verificare il carattere mistificante di quest’ultima affermazione, basta fare un’operazione assai semplice: esaminare i diversi programmi televisivi, offerti dai numerosissimi canali che abbiamo a disposizione, cercando di cogliere punti di vista differenti a proposito di questioni che non siano la scelta tra mode effimere ed evanescenti. Insomma, sostanzialmente ci viene servita sempre la stessa salsa, anche se si cerca di presentarla come innovatrice o addirittura trasgressiva. Quindi, contraddittoriamente, talvolta, ci si richiama alla “positività immutabile dei fatti”, talaltra, invece si mette in luce la possibilità del pluralismo culturale, in realtà praticato assai superficialmente e certamente non in ambiti di cruciale rilevanza (come per esempio il carattere effettivamente democratico dei nostri sistemi politici). Pluralismo culturale che ha anche prodotto la bizzarra equiparazione tra cultura quotidiana e cultura alta, concepite come forme semplicemente diverse, ma ugualmente profonde, di attribuire significati al momento storico, cui appartengono.
Nonostante le due posizioni illustrate siano tra loro contraddittorie, convergono su un punto significativo: il rigetto della nozione di ideologia, le cui implicazioni teoriche e politiche vengono taciute. Nel secondo caso essa viene sostituita dalla nozione di cultura, scaturita dalla riflessione romantica sulla peculiarità spirituale propria di un certo gruppo umano e utilizzata per evitare di stabilire una qualche forma di relazione tra quest’ultimo e le sue condizioni materiali (in senso lato) di esistenza. L’antiriduzionismo culturalista può arrivare a posizioni estreme che mettono in crisi lo stesso procedimento esplicativo, come nel caso in cui si sostiene che possiamo spiegare e comprendere una certa forma religiosa e le sue caratteristiche solo in termini religiosi, evitando il richiamo a tematiche psicologiche, politiche, sociali, ad essa esterne. Questa strada a porta alla costruzione di un’entità transtorica l’homo religious, che si nasconderebbe in ognuno di noi e che venererebbe il divino nelle sue varie epifanie.
L’egemonia della nozione di cultura si consolida con lo sviluppo dell’antropologia culturale di origine statunitense e introdotta in Italia sul finire degli anni ’50 da un gruppo di studiosi, tra i quali mi limito a menzionare Tullio Tentori. Tale disciplina, il cui primordio risale alla seconda metà dell’Ottocento, è senza dubbio collegata al processo di decolonizzazione, che rendeva impossibile continuare a sbandierare l’indiscussa superiorità occidentale, e nello stesso tempo permetteva di offuscare le forti asimmetrie socio-economiche, riconducendole tout court a stili di vita differenti. In particolare, essa si ispira alla definizione proposta da Edward Burnett Tylor nel suo importante libro Primitive Culture (1871), nel quale afferma che la cultura comprende il complesso di credenze, di conoscenze, di pratiche, abitudini che l’uomo acquisisce in quanto membro di una società. Definizione che, del resto, è stata rielaborata in forme assai differenti dai successivi antropologi.
Quanto alla nozione di ideologia, come è noto essa è oggetto di inteso dibattito in ambito marxista e non, che è impensabile anche solo sfiorare in questa sede e d’altra parte non è necessario alla finalità di questo breve intervento, volto a sottolineare la sua “pericolosità”, nella misura in cui mette in risalto la relazione tra un certo modo di rappresentare il mondo e certi specifici interessi, non intesi in senso grettamente materialistico.
Il suo accantonamento è stato evidenziato da Terry Eagleton in un libro dedicato all’ideologia e intitolato appunto Ideologia. Storia e critica di un’idea pericolosa (Fazi Editore 2007), nel quale descrive il paradosso che vuole il concetto di ideologia fuori moda tra gli intellettuali proprio nel momento in cui prospera nella realtà. Ed individua questo “ritorno dell’ideologia” non tanto nel fondamentalismo islamico, non ancora minaccioso quando è uscita l’edizione inglese del suo libro, ma nella visione neoimperiale statunitense impostasi con l’arrivo di George W. Bush alla Casa Bianca scortato da un gruppo deviato di politici e intellettuali americani di estrema destra; questi ultimi avevano elaborato un piano per la realizzazione di una rinnovata egemonia statunitense a livello mondiale, presentandola come una fase di zucchero e miele da donare alle regioni più oscure del pianeta. E ciò non in risposta al terrorismo islamico, ma al declino degli Stati Uniti come potenza globale (2007: X-XI). Con questa operazione si imponeva al mondo una visione squisitamente ideologica, vigorosamente supportata da tutti quegli autori che proclamavano contemporaneamente la fine delle ideologie e della storia, facendoci capire amaramente che non c’era possibilità di fuoriuscita dal capitalismo.
Ma qual è la differenza tra i percorsi interpretativi ed esplicativi inerenti alle due diverse nozioni qui rapidamente analizzate? Direi che la differenza essenziale sta nel fatto che con la nozione di cultura, utilizzabile con la coscienza piena del suo senso, si intende mettere in opera una visione olistica della società, evitando non solo di stabilire una certa specifica gerarchia tra le varie istanze sociali, ma anche di individuare il loro specifico nucleo costitutivo. Tutto (politica, economia, religione, ambiente umanizzato) è permeato da un’unica dimensione, dai contorni non agilmente definibili, che, nelle forme relativistiche più estreme, non costituisce più una rappresentazione del mondo, ma essa stessa diventa il mezzo tramite il quale quest’ultimo si costituisce e si consolida dinanzi ai nostri occhi. Tale atteggiamento, per il quale tutto è modificabile attraverso il mutamento dei modi di pensare, non tiene conto che in essi si esprimono certi interessi, a loro volta intrecciati a determinati rapporti di potere. In questo senso, anche l’Europa è un’entità culturale, portatrice di certi valori (diritti umani, competizione volta alla valorizzazione del migliore, enfasi sull’individuo), che con un salto acrobatico diventano universali e per questo destinati ad essere imposti anche ai paesi recalcitranti. Del resto, tali valori non sono recepiti nemmeno dagli stessi cittadini europei, che nonostante i ripetuti appelli alla coesione contro il nemico comune, mostrano in vari modi segni profondi di disaffezione verso il progetto europeo, che avrebbe salvato il continente da possibili scontri bellici.
Questi aspetti fanno dell’approccio culturalistico una visione del tutto irrealistica del mondo contemporaneo, nel cui contesto le diverse “culture” confliggerebbero solo perché non hanno ancora imparato a rispettarsi e a dialogare tra loro. Allora il problema dei suoi fautori, reso più eclatante dalle migrazioni di massa, suscitate dalla politica del “caos creativo” sull’altra sponda del Mediterraneo, è rendere tutti capaci di accettare il “diverso” sulla base di una tolleranza generalizzata; la quale però viene abbandonata quando la diversità altrui mette a rischio la nostra “identità” (vedasi il caso dell’abbigliamento femminile islamico).
Tale irrealismo partorisce un generico umanesimo adottato anche dalla Chiesa cattolica e bersaglio della critica althusseriana, che è spesso accompagnato dall’autocelebrazione della figura dell’antropologo, l’unico in grado di guardare in maniera radicalmente critica all’Occidente (sempre inteso come “cultura”) e di tessere i fili di relazioni culturali paritetiche. Date queste premesse, non è bizzarro che si ci richiami spesso alla categoria del sogno (si pensi al discorso di Martin Luther King depotenziato dei suoi aspetti più critici), che sarebbe l’unico mezzo, con il quale possiamo delineare il volto di una forma di vita sociale profondamente dissimile da quella attuale e più rispettosa dei nostri bisogni.