Sul suo blog ospitato dalla versione online de Il Fatto Quotidiano, il segretario del Partito della Rifondazione Comunista risponde al segretario del Pd, nonché Primo Ministro, il quale, rivolgendosi all’Anpi, si dice convinto che chiedendo “più sinistra” si aprano le porte alle destre. Paolo Ferrero, ovviamente, non è d’accordo e ribatte ricordando quanto avvenne durante il primo governo Prodi (1996-1998), quando Rifondazione era viva e vegeta e non aveva ancora pienamente intrapreso la via suicida che la portò a partecipare direttamente al governo. Ci ricorda, il segretario, che a quel tempo esisteva un accordo per la limitazione dell’orario di lavoro (le cosiddette 35 ore). Una misura che stava trovando un suo riconoscimento addirittura in Francia, per via legislativa, ed in Germania, per via contrattuale.
Che a spianare la strada ai governi formalmente, oltre che sostanzialmente, di destra, non sia la ricerca di “più sinistra”, come sostiene Renzi, non ci piove. Su questo il segretario Ferrero fa benissimo a ribadire che a facilitare il compito a Berlusconi furono gli “sfracelli” (guerra e privatizzazioni) compiuti dai governi di centro-sinistra che seguirono il passaggio del Prc all’opposizione (d’Alema e Amato). E bene fa a ricordare il voltafaccia sulla legge delle 35 ore, un provvedimento che era tra i motivi che giustificavano di fronte a lavoratori e militanti il sostegno esterno che Rifondazione dava a Prodi. A parte i motivi della caduta di quel governo, però, sui quali il segretario forse è un po’ troppo semplicistico, il discorso sulle 35 ore proprio non convince.
Intanto, quel che successe in quei mesi non sembra argomento convincente per rispondere a Renzi. Ma soprattutto, la tesi di Ferrero sulla questione della riduzione del tempo di lavoro lascia a dir poco perplessi. Scrive il segretario: “La scelta di Prodi di non fare le 35 ore in Italia è all’origine della sconfitta delle 35 ore in Europa e della conseguente vittoria della strada opposta, quella basata sulla compressione dei diritti del lavoro e dell’occupazione e dello strapotere della finanza nella logica della massima concorrenza”. Quindi, stando a Ferrero, se in Italia avessimo approvato anche noi una legge analoga a quella d’Oltralpe, si sarebbe salvata quella impostazione politico-sindacale che metteva al centro il tema dell’occupazione e della riduzione dell’orario di lavoro… Niente di più sbagliato! Ridurre il movimento per la diminuzione dell’orario di lavoro alla legge sulle 35 ore e derubricare la sconfitta di quest’ultima a questione squisitamente politica sono due errori che non possiamo permetterci di fare.
Giova ricordare che quanto venne discusso (in Italia) o approvato (in altri paesi) non rappresentava un fronte della lotta per una diversa organizzazione del tempo di lavoro dell’intera classe dei salariati, bensì il riconoscimento di una lotta sindacale condotta coerentemente con la deriva neo-corporativa delle maggiori rappresentanze dei lavoratori. Accorciare la settimana lavorativa, sovratassando il lavoro straordinario e mantenendo inalterata la busta paga, per quanto allettante possa sembrare a prima vista, non basta ad aumentare l’occupazione, a garantire il salario e la qualità della vita lavorativa, se per ottenerlo bisogna pagare le imprese utilizzando soldi pubblici (li chiamano incentivi) e se l’applicazione della legge è rimandata alla contrattazione, lasciando così, a chi ha il coltello dalla parte del manico, la possibilità di recuperare attraverso l’intensità, la porosità, i riposi, i permessi, le festività, l’automazione dei processi lavorativi, le mansioni, fino al... salario! (Jospin, ricordiamocelo, auspicava che la legge fosse accompagnata da moderazione salariale).
Già solo questo basterebbe a qualificare il portato, assai limitato, di quell’esperienza e del governo che la propose. A ciò si aggiunga la possibilità di vanificare tale riforma con l’aumento dell’età pensionabile (si lavora meno durante la settimana, ma per un arco temporale più lungo) e il ricorso al cottimo (lavoratori che vengono pagati in tutto o in parte in base ai risultati e non al tempo di permanenza in fabbrica o in ufficio). Infine, se da tale battaglia si escludono una parte dei lavoratori (precari, flessibili, autonomi, ecc.) o addirittura alcune fattispecie di aziende (ad esempio, in Italia, oltre il pubblico impiego, anche le aziende con meno di 15 dipendenti), alla fine tale provvedimento non serve neanche ad alleviare la disoccupazione, la sotto e cattiva occupazione o anche solo la concorrenza tra lavoratori. Con questo non si vuole liquidare la battaglia per le 35 ore, ma sottolinearne i limiti, le contraddizioni e le controindicazioni per la classe lavoratrice, per non illudersi più in futuro.
Per quanto riguarda il secondo errore commesso da Ferrero, quello riguardante il motivo della sconfitta di tale battaglia, sarebbe opportuno che il segretario specificasse perché, secondo lui, la mancata approvazione di tale legge in Italia avrebbe condotto all’irrilevanza della riforma varata dal governo Jospin in Francia e l’isolamento della IG Metal in Germania. La semplice affermazione non basta. In attesa, chiarisco perché, secondo me, la motivazione del fallimento vada ricercata nell’andamento di quella che gli economisti borghesi chiamano “congiuntura economica”. È la crisi da sovrapproduzione e la ristrutturazione dei cicli produttivi sull’onda della seconda rivoluzione industriale, quella dell’automazione del controllo (fenomeni iniziati entrambi a cavallo tra fine anni sessanta ed inizio anni settanta) che impongono l’aumento della disoccupazione, del part-time, della precarietà, ma anche l’allontamento dell’età pensionabile e, ovviamente, la riduzione delle diverse voci che compongono il salario (diretto, indiretto e differito). E per chi ha la fortuna di rimanere occupato vi è l’aumento del tempo di lavoro, dell’auto-sfruttamento e auto-controllo attraverso forme più o meno smart.
Alla crisi, che a seguito del venir meno dell’ossigeno speculativo di quella che allora si chiamava new-economy minacciava di colpire duramente e direttamente gli Stati Uniti d’America (la cui economia entrò in recessione proprio nella primavera del 2001), si univa il timore che la neonata moneta unica europea potesse effettivamente contribuire a minare la supremazia economica Usa, erodendo importanti quote di mercato al biglietto verde, moneta mondiale per eccellenza. Una situazione, dunque, di scarsi guadagni e alta conflittualità inter-imperialistica. Un mix esplosivo che, infatti, venne fatto opportunamente deflagrare poco dopo, nella speranza (poi rivelatasi vana) che il caos globale permanente fosse sufficiente a sedare le velleità del capitale della “vecchia Europa”, frenare la penetrazione degli investimenti cinesi e riannodare i fili dell’accumulazione perduta. Il mancato sostegno del governo Italiano alle 35 ore, dunque, per quanto importante, non è evento che si possa ragionevolmente paragonare a tutto ciò.