In questa insolita e drammatica situazione, conseguentemente alla ricerca delle cause del disastro pandemico e alla ricerca di adeguate soluzioni, riemerge la necessità e volontà di ripensare un “nuovo modello” sociale, di ipotizzare una “nuova società” dove siano eliminati cause ed effetti dello sfrenato liberismo capitalistico.
Tale ripensamento, più o meno “radicale”, tocca sia i vari aspetti economici, sia gli aspetti sociali, politici, etici ed esistenziali e viene portato avanti in diversi ambiti sociali, politici e intellettuali, ambiti che vanno dai settori più liberal della borghesia capitalistica, ai settori del cattolicesimo sociale, alla galassia dei movimenti verdi ed ecologisti. Tale ripensamento tocca ovviamente anche quella componente intellettuale/politica che fa riferimento alla “sinistra” più o meno di classe, anticapitalistica, radicale e comunista.
Non è un caso che, in buona parte, proprio in questa asfittica e risicata area dei comunisti sopravvissuti (non tanto alla pandemia, ma alla loro crisi ormai più che ventennale, area in cui anche noi ci siamo, quasi annegati dentro, con l’acqua, per non dire di peggio, alla gola), ci si sia subito lanciati a dire, con malcelato sollievo (per non essere finalmente più i soli né i primi soliti menagrami), che “non sarà più come una volta!” e “non si potrà tornare a come eravamo prima!”, “che questa pandemia è una pietra tombale per questo capitalismo!”, che “le ricette economiche del passato non possono bastare e funzionare questa volta!”. Quasi ringraziando inconsciamente, sotto sotto, il coronavirus e la pandemia per aver prepotentemente riproposto la necessità di un cambiamento sociale, magari rivoluzionario (e la ripresa del dibattito su pianificazione e nazionalizzazione ne è un sintomo positivo), e al contempo delineando, e in parte accettando, una visione illusoria, oltre che errata, di tendenza all’implosione del capitalismo, ad una sua incapacità di uscire dal vicolo cieco in cui il (neo)liberismo finanziario e speculativo l’aveva costretto, ad una accettazione della “morte certa” se non fosse cambiato in altro da sé, dimenticandosi del fatto che per il capitalismo le crisi sono oggettivamente lo strumento/modalità per storicamente salvarsi e andare avanti.
Tutti discorsi (poco materialisti e poco storico-dialettici) che sottacevano e sottacciono la necessità della “soggettività rivoluzionaria”, unica garanzia affinchè si possa uscire dal coacervo delle contraddizioni cambiando socialmente e umanamente in meglio e non invece peggiorando ancora una volta le condizioni sociali della maggioranza della società pur di non toccare, in pieno spirito di liberismo sfrenato, l’assetto sociale capitalistico di accumulazione del profitto, aggravando cinicamente il grado di sfruttamento e reazione, (ben sapendo che al “peggio non c’è mai fine” o per dirla con Mao “lo squilibrio è assoluto l’equilibrio è relativo”), tacitando “neocorporativamente” ogni cosciente spirito critico della classe “potenzialmente” antagonista.
Con ciò rimarcando per l’ennesima volta, l’inconsistenza e l’inadeguatezza, dopo più di un trentennio di indiscusso strapotere, nella lotta di classe, dell’imperialismo transnazionale mondializzato, non solo di un progetto politico di cambiamento sociale, ma della stessa strategica ipotesi socialista di transizione che ormai da tempo aspetta di essere “ripensata” dopo le traversie e/o fallimenti dei processi di transizione e, soprattutto nei paesi “occidentali”, dei processi tattico-strategici di avvicinamento alla rivoluzione socialista e all’inizio di una fase di transizione. Per inciso questi sono i problemi che hanno determinato da anni, e lo vedremo meglio in seguito, la crisi del nostro patrimonio teorico conoscitivo e del nostro patrimonio politico-ideologico di trasformazione sociale, con le conseguenze pratico-politiche che ben conosciamo.
In questi decenni, da un lato, da quello della lotta di classe, si consolidava una ormai storica incapacità di analizzare e capire (e poi contrastare) quei processi che, sia in campo economico-strutturale che politico-ideologico e culturale, determinavano questa fase storica di avanzamento e vittoria della classe capitalistica mondiale e il conseguente arretramento della classe proletaria e delle classi dei lavoratori subalterni in generale.
Dall’altro lato, da quello più soggettivo, politico-organizzativo, maturato sovrastrutturalmente appunto anche nella sconfitta, disgregazione e “mutazione” della nostra classe di riferimento, l’incapacità di predisporre un progetto politico di fase che quantomeno fosse funzionale (almeno) ad una ritirata organizzata, a mantenere un minimo di centralizzazione dei militanti e un minimo di radicamento sociale nella classe. Ciò che invece non è stato, tanto che i “comunisti” (quantomeno qui in Italia, ma a livello europeo, forse un po’ meno a livello mondiale, poco cambia) sono ormai al lumicino, minoritari nella classe, estromessi dalle istituzioni rappresentative e parlamentari, frammentati e divisi da far paura, quasi “predestinati”, nei tentativi di “resistenza e rinnovamento”, ad una inconscia coazione ad errare e ad una ripetizione delle esperienze negative della nostra storia degli ultimi decenni: dalle continue microscissioni alle unità puramente elettoralistiche, dal cretinismo parlamentare all’estremismo massimalista, dal movimentismo “colorato” al settarismo e dogmatismo da Partito, dal leaderismo personalista e carrierista al correntismo inconcludente.
Ma quello che è più grave è che la frammentarietà e diversità dei loro riferimenti teorici e ideologico-politici è talmente accentuata che si fatica a cogliere gli stessi elementi identitari. La situazione è talmente incancrenita che parlare dei “comunisti” e della loro situazione è sempre più problematico, anche appunto per la sempre maggior indeterminatezza del termine stesso, sorte che lo accomuna ormai a quella che ha subìto da tempo il termine “sinistra”. Ecco perché, per connotare bene, in modo “lapidario”, la caratteristica della fase in cui si trovano i comunisti ora, va bene porre, accanto a comunisti, siano essi residuali o i nuovi pochi e benvenuti neofiti, l’aggettivo “sopravvissuti”.
Ciò non di meno, pur in questa situazione al limite della sopravvivenza, è necessario parlare della situazione dei “comunisti”, della loro progettualità e dello stallo in cui si trova. Quindi non solo della classe e di come sta o non sta reagendo al suo antagonista storico in questa nuova fase di crisi che, ricordiamocelo, a livello economico era già precedentemente maturata prima del Covid-19, ma anche di come stanno rispondendo i “comunisti”, di come, in questa fase storica, si stia concretizzando più o meno un loro progetto politico di inversione della tendenza sopra delineata.
Comunisti sopravvissuti
Innanzitutto, almeno qui in Italia, quando parliamo di “noi”, di “compagni”, di “nostra comunità”, di “comunisti”, di “sinistra radicale”, a chi ci riferiamo? La difficoltà a rispondere a questa domanda è già sintomo (all’interno del minoritarismo politico, ai limiti dell’ininfluenza, proprio dei comunisti), della disgregazione e frantumazione non solo e non tanto organizzativa, ma teorica, ideologica e politica di coloro che in varie maniere si ricollegano alle esperienze storiche otto/novecentesche del socialismo e comunismo e al “pensiero” dei grandi che lo hanno storicamente concretizzato e sostanziato da Marx in poi. Ci sono più forze politiche che si dichiarano “partiti comunisti” o precursori o promotori di partiti comunisti che le dita delle due mani, evidenza del fatto di quanto il “Partito”, spesso in una visione ideologica deformata del comunismo novecentesco, sia visto, sentito, vissuto come, da nostra tradizione storica, la necessaria condizione per il superamento sia, in generale, dello stato di cose politico sociale, sia, in particolare e più banalmente, della frammentazione politico-organizzativa dei comunisti.
Da qui una “storica” e pressante richiesta di unità che accomuna tutti, salvo però il dover fare i conti con lo “spirito di separazione” per cui “prima di unirsi è necessario differenziarsi e dividersi” e purtroppo, facendo salvo il buon Lenin e la dialettica, questo atteggiamento (perché non si tratta solo di una battuta ironica), si è concretizzato nel fatto storico che ci si è spesso fermati alla prima fase, quella della separazione e (quasi) mai si è proceduto alla seconda, quella dell’unità!
Inoltre, è bene ricordare che la chiusura di un ciclo storico per i comunisti italiani, quello che per la maggior parte dei comunisti delle varie forze iniziò negli anni ’60/70, non è di per sé garanzia che si procederà nel modo migliore. Se non si risolvono i problemi, i limiti e gli errori di quella esperienza, non è assolutamente scontato che non li si ricommetta, anche se dovessimo, senza indugiare in un atteggiamento nuovista e a volte giovanilistico, puntare su un rinnovato ottimismo espresso dalle nuove generazioni di militanti. E a maggior ragione questo vale anche per le eventuali organizzazioni che sono nate (o dovessero nascere) perseguendo, anche inconsciamente, la vecchia strada “gruppettara” del pensarsi quale componente (magmatica) iniziale del “Partito”, identificando e circoscrivendo il progetto politico dei comunisti nella propria progettualità da organizzazione, confidando nel progressivo rafforzamento della stessa e, sulla scorta della riaffermazione della propria identità comunista, della propria diversità da altri.
Una domanda spesso (ci) si impone: In questa fase, in queste condizioni, è possibile pensare e pervenire ad un “Partito Comunista” coeso teoricamente e ideologicamente, così come la tradizione del movimento comunista del secolo scorso ci ha “consegnato” e a cui spesso implicitamente ci riferiamo? La risposta, materialisticamente e non volontaristicamente, è negativa. In questa fase, come scrivemmo poco più di tre anni fa (Partito, movimento politico organizzato, programma minimo. Sul progetto politico dei comunisti. La Contraddizione.) non ci sono le condizioni (quantomeno per ora) per pervenire ad un Partito Comunista Unitario. E il motivo è semplice, quasi tautologico: non c’è “unitarietà” e “omogeneità” nel rapportarsi al “nostro” patrimonio teorico conoscitivo e politico-ideologico, e questo, per un partito unitario è determinante, ancor prima del fatto che non si abbia una presenza degno di questo nome nella nostra classe di riferimento (fatto imprescindibile). Ciò si verifica proprio perché tale patrimonio (sempre più negli ultimi trent’anni), nella sua articolazione, ancorché mai pienamente compreso, si è sfilacciato, perso, disgregato, edulcorato, compromesso e revisionato, tanto che non funziona più come base di riferimento unitario, e non funziona a tal punto che sembra inservibile a comprendere la realtà sociale per proporne un suo cambiamento. Non solo viene meno una unitaria capacità di analisi e proposta politica e organizzativa nell’immediato, ma lo stesso “programma massimo” della transizione socialista, delle possibili modalità di un suo storico concretizzarsi e delle fasi di avvicinamento ad esso divengono sempre più nebulose.
Quindi se appare scontato che non ci può essere il “Partito”, e a maggior ragione non lo è in una condizione in cui non abbiamo un rapporto sostanziale con le “avanguardie” della classe, diventa necessario affrontare e capire sia come si riattiva il nostro patrimonio e sia come (ri)stabiliamo un rapporto con le avanguardie della classe. Il progetto politico dei comunisti verte su questo, sul come superare i limiti sia a livello economico-sociale sia a livello teorico-politico e proprio rispetto a questi parametri l’avevamo cominciato a delineare da qualche anno a questa parte.
Il progetto politico dei comunisti
Questo è quanto scrivevamo quando si costituì Potere al popolo: “Il progetto politico dei comunisti, in una fase non rivoluzionaria come questa, che tale è, al di là della sua potenzialità storica, [...] deve rapportarsi alle modalità con le quali sia possibile il superamento di tali limiti. Diventa fondamentale attuare una tattica che consenta di accumulare le forze, riconquistando la maggioranza della classe al progetto di cambiamento sociale e stabilire alleanze sociali e politiche con settori popolari in crisi non immediatamente riconducibili al proletariato, al lavoro salariato e al lavoro subordinato al capitale in genere (si pensi per esempio al cosiddetto “popolo delle partite IVA”), ma che, in forza dei processi di oppressione sociale, espropriazione economica e subalternità al comando capitalistico connaturate alla fase attuale dell’imperialismo finanziario transnazionale, possono rendersi disponibili ad una lotta per il cambiamento (tali processi di proletarizzazione e di pauperizzazione, se non ricondotti all’interno del nostro progetto di cambiamento sociale, purtroppo diventano facilmente terreno di coltura per derive populiste, fasciste e razziste).
In questo contesto non rivoluzionario, che esclude a priori la praticabilità di obiettivi di transizione socialista, si pone la necessità di ricostruire l’unità della classe e le sue alleanze attorno ad un “programma minimo” che (in riferimento strategico ad una prima fase di transizione dopo la rottura rivoluzionaria) deve assumere in questa fase un carattere popolare, democratico e di resistenza sociale di massa; un programma che sia capace, agendo sugli elementi di crisi del capitale e sulle contraddizioni e divisioni del fronte avversario, non solo di ricompattare il potenziale blocco sociale anticapitalistico, ma anche di strappare quegli obiettivi che di volta in volta si rendano praticabili in base ai reali rapporti di forza.
È sulla scorta di questa impostazione tattica (che trova i suoi riferimenti in quella che fu denominata di Fronte Unico e di Fronte Unito) che possiamo delineare le forme e le discriminanti che, sul piano politico della lotta di classe, assumono il “fronte”, la sua struttura, e il suo programma: quello di un movimento politico organizzato (e non quella di un partito ideologicamente comunista che tra l’altro non c’è e non potrà esserci per molto, come abbiamo visto), un soggetto politico unitario connotato politicamente (dalle discriminanti anticapitaliste, antiliberiste, democratiche ecc.), “largo”, espressione diretta della classe e delle sue “avanguardie”, un organismo di “fronte” che sappia essere coagulo e organizzazione dal basso dei diversi movimenti e lotte che, appunto sulla base del programma minimo e della sua articolazione, devono sorgere nel paese ai vari livelli, da quello economico sindacale (fondamentale), a quello politico e democratico, fino a quello culturale e strutturarsi come organismi di massa e di base (come provarono a essere per un certo periodo oltre ai consigli di fabbrica anche i consigli di zona).
Quindi un movimento politico organizzato e centralizzato su un progetto di cambiamento politico, che si dovrà dotare di strutture consiliari, territoriali, democratiche (una testa un voto), fino ad essere un soggetto politico unitario che agisce anche sul piano istituzionale ed elettorale (con un nome e un simbolo che ne evidenzi i caratteri di “fronte unitario proletario e popolare” nella prospettiva socialista). Strutture/comitati che possano esercitare minimi rapporti di forza e di controllo popolare in contrapposizione all’avversario di classe, la grande borghesia sovranazionale e i suoi subalterni alleati, al suo stato, al suo governo e alle sue politiche liberiste, antipopolari e antidemocratiche.
I comunisti, quelli che siano, devono porsi il problema di far crescere questo “movimento politico organizzato”, strutturato su organismi di base che potremmo definire di “unità popolare”, che come discriminante politica (quindi non ideologica) ha il “programma minimo” e devono porsi il compito di sostanziarlo in termini di analisi, di indicazioni politiche, di obiettivi e di lotte, di presenza di compagni che ai vari livelli il movimento selezionerà come quadri dirigenti.
In questa fase l’obiettivo della costruzione di un “movimento politico organizzato” rappresenta l’obiettivo e l’ambito in cui i comunisti operano politicamente in prima persona fin da subito, misurandosi con i reali problemi politici di un processo di alternativa sociale, affrontando i problemi teorici sottesi alla formulazione del “programma minimo”, ristabilendo il rapporto con le avanguardie di classe e innescando un generale processo di crescita politico-sociale che le sappia centralizzare. Questo è il “progetto politico” dei comunisti in questa fase”. (Programma Minimo e Potere al Popolo. Una possibile articolazione del progetto e dei compiti dei comunistI).
Il progetto politico, così come veniva impostato, era in grado di dare una risposta unitaria ai due problemi che impedivano la formazione del partito: quello relativo al patrimonio teorico e ideologico-politico e quello del “radicamento” nella classe. Che la risposta fosse unitaria non era di poco conto o di scarsa importanza perché per decenni i comunisti avevano affrontato i due problemi in modo e con progetti diversi ed escludentesi l’un con l’altro, nel migliore dei casi privilegiando l’uno a scapito dell’altro, nel peggiore cadendo invece in vere e proprie errate impostazioni teoriciste o movimentiste. Soprattutto il progetto politico così configurato rimetteva sui piedi la corretta impostazione dell’elaborazione teorica che, memore dell’insegnamento materialistico dialettico di pensatori come L. Geymonat o dello stesso S. Garroni, individuava il suo “oggetto” di riflessione teorica e scientifica nelle problematiche politiche della prassi della lotta di classe di questa fase storica, problematiche spesso relegate in una visione ideologica di “falsa coscienza”.
Così, infatti, scrivevamo nell’articolo citato: “In quanto scienza sociale [il patrimonio teorico] esso non si auto sviluppa categorialmente (dalla teoria alla teoria come ritenevano i teoricisti), né si sviluppa nella sommatoria meccanica di spezzoni di altre scienze e ideologie sociali (con le quali ci si rapporta in maniera dialettica sulla base della propria teoria). Esso si approfondisce nel rapporto dialettico con la prassi sociale, quella prassi, sociale e politica, che si pone l’obiettivo della trasformazione e che ha valenza storica, oltre che tempi storici. L’approfondimento e lo sviluppo del patrimonio teorico comunista quindi non può che essere pensato quale risultato di una fase storica, in relazione dialettica col patrimonio ideologico/politico di conoscenza e trasformazione della realtà sociale di cui è parte integrante e, conseguentemente, con le avanguardie rivoluzionarie che questo patrimonio lo “praticano”, sulla base del fatto che nella sua contraddittorietà esso mantiene elementi di “verità” e di “certezza” che lo rendono comunque in parte usabile e praticabile. Ecco perché un progetto politico dei comunisti in questa fase dovrà essere un progetto che possa contemporaneamente far ripartire il processo rivoluzionario di classe nel nostro paese e la centralizzazione delle avanguardie, processo quest’ultimo che potrà portare alla formazione del gruppo dirigente di un futuro partito. Il tentare di saltare o ovviare a queste modalità e a questi tempi perseguendo altre strade porta (come dimostrato da questi ultimi trent’anni) al fallimento, come è dimostrato dalla creazione, nel frattempo, di diversi partitini e/o organizzazioni di comunisti. Dobbiamo materialisticamente essere consapevoli che rimarremo per anni con le diversità e contraddizioni all’interno del nostro patrimonio (e conseguentemente con i diversi gruppi, forze e partitini, ognuno con i loro piccoli gruppi dirigenti). Tali diversità e contraddizioni saranno risolte in parte, di volta in volta, solo quando il processo rivoluzionario procederà sia in generale che in particolare nel nostro paese.” (Programma Minimo e Potere al Popolo. Una possibile articolazione del progetto e dei compiti dei comunisti).
Inoltre, nel progetto politico che delineavamo, non solo esisteva un nesso essenziale tra la necessaria elaborazione del programma minimo e la ripresa/sviluppo del patrimonio teorico e politico, ma c’era al contempo un nesso necessario e fondamentale tra lo stesso programma minimo e quello che definivamo “Movimento Politico Organizzato” (MPO). Quest’ultimo era l’individuazione sul piano politico di chi potesse “agire” il programma minimo, cioè un programma politico di difesa e ripresa popolare. Il MPO individuava la “forma strutturante” con cui, a livello politico, poteva manifestarsi ed esserci la ripresa del movimento di classe, evitando quantomeno di ricadere nuovamente sia nell’errore movimentista del “movimento dei movimenti”, della “centralizzazione” di movimenti sviluppatesi “spontaneamente” in ambiti politico-sociali e territoriali diversi, sia di una impostazione settaria insita in un “movimento di comunisti”, un “movimento espressione di partito”.
La situazione di stallo e gli errori intervenuti
In questo ultimo periodo sembra affermarsi una maggior consapevolezza della situazione critica dei comunisti e conseguentemente la richiesta di unità. Nel contempo però, proprio sui due fondanti aspetti del progetto politico, il Programma minimo e il Movimento Politico Organizzato, si evidenziano limiti e arretramenti e in generale assistiamo ad una situazione di stallo.
Per quanto riguarda il MPO, dobbiamo constatare che l’iniziale positivo momento propulsivo, costituito dalla formazione di PAP, si è via via scemando per l’abbandono del PCI, di Rifondazione Comunista e altri compagni, forze che inizialmente con altre erano presenti nel suo provvisorio organo direttivo nazionale, contribuendo volenti o nolenti, a far assumere a PAP più gli aspetti di una “organizzazione politico-comunista” che di un “movimento politico, organizzato e unitario”, così come lo ipotizzavamo al momento della sua formazione, anche se di quest’ultima impostazione tuttora permangono positivi aspetti nel suo essere, o quantomeno sentirsi, “movimento politico unico nel panorama italiano”.
Questa impostazione da “organizzazione” però, pur con innegabili aspetti nuovi e positivi, ripropone e incorre oggettivamente nei limiti di quella che potremmo definire la mancata progettualità adeguata alla specificità di questa fase, limiti presenti (che abbiamo individuato e delineato) anche nelle altre “organizzazioni/partiti comunisti”, spesso incorrendo negli stessi atteggiamenti volontaristici, massimalisti e settari. Quello che però sembra essere più “problematico” è che, nell’ambito di una impostazione più da “organizzazione” (con una sua caratterizzazione ideologica, un suo progetto politico e una ”comunità” che attorno ad esso si centralizza), inevitabilmente viene a perdere di importanza l’obiettivo/necessità dell’elaborazione e articolazione del Programma minimo, quel Programma minimo che è l’elemento discriminante e fondante su cui si unificano le lotte, che permette la centralizzazione delle avanguardie della classe e dei settori popolari in un movimento che è politico, oltreché organizzato, quello che è in grado di dirti e “certificarti” se sei effettivamente un movimento politico espressione del fronte o altro. Inevitabilmente con questa impostazione, nel rapportarsi al movimento in generale e ai singoli movimenti di lotta e resistenza che nascono, si è portati a far diventare determinante o quantomeno prevalente, nell’ambito del proprio progetto politico, il ribadire la propria identità (e diversità) e il crescere in termini quantitativi come organizzazione/comunità.
A ben vedere si ripropone per l’ennesima volta la difficoltà di ben comprendere la relazione tra organizzazione politico-ideologica (comunista) e un movimento politico che non è comunista anche se, ce lo auguriamo, pieno di comunisti! Tale difficoltà si era ben manifestata anche in RC, subito dopo la nascita di PAP, portando allora ad uno scontro all’interno sia dell’organizzazione stessa sia di PAP. Tale difficoltà però tuttora permane visto il livello di genericità della importante proposta/indicazione del “movimento politico sociale”, e non sembrano riaprirsi spazi, dopo la “negativa” esperienza con PAP, per riconsiderare il proprio ruolo all’interno di quello che riteniamo essere il progetto politico di fase per i comunisti.
Per quanto riguarda il “Programma minimo”, in generale, tranne sporadici e individuali contributi, non si è proceduto nella sua elaborazione e articolazione. Tuttora, nell’eterogenea galassia di sinistra radicale, comunista, anticapitalistica ecc., il massimo che siamo in grado di produrre è un elenco di obiettivi, di varia natura (politici, economico rivendicativi, ecc.), senza una reale organicità, a volte sterminato, a volte incurante dei reali rapporti di forza, a volte espressioni di concezioni piccolo borghesi, a volte con preamboli politici che sembrano essere loro l’obiettivo più che l’obiettivo programmatico stesso. È bene ricordare che la elaborazione del “Programma minimo”, lungi dall’essere la sommatoria e l’elenco di obiettivi “spontanei”, presuppone analisi, inchiesta, dibattito e confronto e non può che coagularsi, soprattutto in occasioni elettorali, in una serie “stringata” di obiettivi. Proprio in riferimento a questi compiti, di problematiche aperte ce ne sono a bizzeffe.
Sull’articolazione di un programma minimo incidono fortemente i livelli di analisi della fase attuale, in riferimento alla crisi economica del capitale, alla sua contraddittoria connotazione transnazionale, alle sue tendenze e contraddizioni interne, alle modalità con cui modifica la forma del lavoro salariato nel suo rapporto con il capitale, alle modalità con cui attacca il salario diretto e tutto il salario sociale di classe, ai suoi risvolti reazionari in campo politico democratico e ideologico-culturale. Proprio i livelli di approfondita conoscenza e analisi su questi temi ci permettono di delineare e definire quelli che sono gli obiettivi, le tappe e la fattibilità di una possibile controtendenza da un punto di vista proletario, sia negli aspetti nazionali che europei e internazionali. Il problema delle contraddizioni tra grande capitale imperialistico transnazionale e il capitale “nazionale”, il problema del rapporto tra nuove forme sovrastrutturali “pseudo statali” sovranazionali e gli stati nazionali, la questione delle forme di controllo e intervento “pubblico” in economia a fronte dell’anarchia liberista del processo economico capitalista, le forme che la tendenza alla reazione e alla guerra assumono in questa fase storico-sociale, sono tutte questioni teorico-politiche che sovra determinano fin da subito gli “obiettivi, le tappe e la fattibilità di una possibile controtendenza da un punto di vista proletario”.
Va inoltre ricordato che il “Programma minimo”, in quanto programma che dal punto di vista proletario e popolare si rapporta in maniera antagonista principalmente con il grande capitale finanziario transnazionale, ha una valenza sovranazionale ed europea (pur avendo una sua articolazione ”italiana”). Come d’altro canto l’articolazione del “Programma minimo” si declina anche a livello “territoriale” e comunale perché lo sviluppo della politica di austerità e contenimento del debito pubblico, portata avanti dal nostro antagonista sociale, significa decurtazione del salario sociale, privatizzazione del pubblico, svendita del patrimonio pubblico.
Una proposta
Qualora dessimo per riconfermato la correttezza e validità (almeno in via di approssimazione) degli elementi essenziali del progetto politico di fase poco prima richiamato, appare evidente che proprio la mancata elaborazione e articolazione del “Programma minimo”, con tutto ciò che ne consegue e con tutto ciò con cui sta in relazione, è una delle principali cause dello stallo del progetto politico dei comunisti e uno dei principali ostacoli da superare per una positiva ripresa. La sua elaborazione e articolazione presuppone però che vi siano quei “particolari comunisti” che, come dicevamo sopra, in sé concretizzino quel legame dialettico tra “patrimonio teorico-politico” di conoscenza e trasformazione sociale e “prassi politico-sociale” della lotta di classe e abbiano fatto proprio le ragioni e le motivazioni che ci spingono a procedere verso l’elaborazione e articolazione del “Programma minimo”, al fine di superare l’attuale stallo del progetto politico dei comunisti.
Quindi è necessario che da subito, tra i compagni che avvertono con più chiarezza l’urgenza del problema, si apra un momento di riflessione e dibattito ampio sull’elaborazione del “Programma minimo”, in termini di iniziativa seminariale, convegno, “rete” di dibattito ecc., con l’obiettivo di arrivare ad una fattiva articolazione e individuazione degli obiettivi del “Programma minimo”.