In occasione del Centenario della Rivoluzione d’Ottobre, si sta opportunamente riaprendo la discussione sul significato e il valore storico di quella straordinaria svolta che ha segnato di sé l’intero XX secolo e che si riflette, per alcuni aspetti, a partire dal mutamento dei rapporti di forza tra aree del mondo, sulla nostra stessa contemporaneità. In questo quadro è essenziale approfondire il significato ma anche i problemi di quella esperienza. Se l’obiettivo della Rivoluzione socialista era quello di sottomettere i meccanismi dell’economia alla volontà cosciente e organizzata delle masse, in vista del benessere collettivo, Lenin fu sempre consapevole della difficoltà di tale sfida, in particolare in un paese arretrato come la Russia del 1917. La consapevolezza di tale difficoltà andò crescendo nei mesi e negli anni successivi alla presa del potere, senza però trasformarsi mai in una diversa valutazione sulla svolta dell’Ottobre, anzi sempre ribadendo la giustezza della scelta fatta, l’opportunità di aver colto il momento, di aver sfruttato al meglio le possibilità offerte da una eccezionale contingenza storica.
All’indomani dell’Ottobre, Lenin individua come “uno dei compiti più importanti” quello di “sviluppare il più largamente possibile questa libera iniziativa degli operai [...] e di tutti gli sfruttati [...] nel campo dell’organizzazione. Bisogna distruggere ad ogni costo – dice – il pregiudizio assurdo [...] secondo il quale soltanto le cosiddette ‘classi superiori’ [...] possono dirigere lo Stato [...]. No, gli operai non dimenticheranno nemmeno per un istante di aver bisogno della forza del sapere. [...] Ma il lavoro di organizzazione è anche alla portata di un comune operaio o contadino che sa leggere e scrivere, conosce gli uomini ed è provvisto di un’esperienza pratica”. E “ciò che precisamente fa la forza [...] della rivoluzione d’Ottobre [...] è che essa suscita queste qualità, abbatte tutte le vecchie barriere [...] fa entrare i lavoratori nella via dove creano essi stessi la nuova vita”, in modo diversificato e vario. “Dopo secoli di lavoro per altri [...] per la prima volta appare la possibilità di lavorare per sé [...] approfittando di tutte le conquiste della tecnica e della cultura moderne”[1].
Per fare questo – Lenin ne è consapevole – occorre risolvere enormi problemi teorici e pratici. Il potere sovietico, infatti, “non eredita rapporti [sociali] già pronti”, e allora “l’organizzazione di un censimento, il controllo delle aziende più importanti, la trasformazione di tutto il meccanismo economico statale in una sola grande macchina” che funzioni sulla base di “un piano unico”, diventano priorità assolute[2]. “La difficoltà principale”, dunque, “è nel campo economico”, ma è soprattutto come “socializzare effettivamente la produzione”. Lenin prova a dare una risposta: “Lo Stato socialista – scrive – può sorgere unicamente sotto forma di una rete di comuni di produzione e di consumo che registrino [...] la loro produzione e il loro consumo, economizzino il lavoro, ne elevino continuamente la produttività, riuscendo così a ridurre la giornata lavorativa a sette, sei ore e anche meno”[3].
Queste frasi fanno riflettere. Nulla è più lontano dal burocratismo, e al tempo stesso la necessità di un enorme apparato che controlli e gestisca la produzione e la distribuzione delle merci è affermata a chiare lettere: ma, appunto, non è un apparato in senso classico, non è un corpo separato di tecnici o funzionari; è un apparato di massa, composto di lavoratori, a loro volta membri dei soviet. E Lenin lo dice chiaramente: “La lotta contro la deformazione burocratica dell’organizzazione sovietica è garantita dalla solidità dei legami che uniscono i Soviet con il ‘popolo’ [...]”. In questo senso, “il carattere socialista della democrazia sovietica” sta nel fatto che “si crea una migliore organizzazione dell’avanguardia dei lavoratori, cioè del proletariato della grande industria, organizzazione che gli permette di assumere la direzione della più larghe masse di sfruttati, di farle partecipare a una vita politica indipendente, di educarle politicamente sulla base della loro stessa esperienza [...] in modo che realmente tutta la popolazione impari a governare”[4]. Questa è la concezione di Lenin e dei bolscevichi, ed è una concezione non solo di democrazia diretta, ma direi di democrazia integrale[5]. In questo senso egli vedeva il sindacato come “cinghia di trasmissione” fra il partito e i lavoratori, non nel senso banale che viene propagandato di un sindacato al servizio del partito, ma di un sindacato che recepisse e trasmettesse gli orientamenti delle masse, collaborasse alla pianificazione economica, organizzasse il controllo dei lavoratori sul partito e sullo Stato, e al tempo stesso fosse una “scuola di comunismo” e una “scuola di amministrazione dell’industria socialista”, formando e promovendo “alle cariche di amministratori gli operai e, in generale, le masse lavoratrici” [6]. Una funzione, quindi, importantissima.
Certo, i bolscevichi non erano degli utopisti. “Vogliamo costruire il socialismo – diceva Lenin – con gli uomini che sono stati educati dal capitalismo, guastati, corrotti dal capitalismo, ma che in compenso il capitalismo ha temprato alla lotta. [...] Per costruire il comunismo non abbiamo che il materiale creato dal capitalismo” [7]. Egli dunque sapeva che occorreva “utilizzare” i tecnici e “gli specialisti borghesi” e al tempo stesso “creare condizioni tali che la borghesia non possa esistere”; che anche avendo instaurato “un tipo superiore di Stato” si era solo “all’inizio del passaggio al socialismo, e sotto questo rapporto l’essenziale non [era] ancora stato realizzato”; e soprattutto che questo processo avrebbe occupato “un’intera epoca storica” [8]. Ma il punto è anche un altro. Quando leggiamo Lenin che parla di “una rete di comuni di produzione e di consumo” che registrino produzione e consumo, elevino la produttività e riducano la giornata lavorativa, non possiamo non pensare quanto ciò sarebbe più facile oggi, con lo sviluppo attuale delle forze produttive e delle tecnologie informatiche: sviluppi che consentono la produzione just in time, che hanno portato la flessibilità e la precarietà del lavoro ma potrebbero favorire la sua liberazione; tecnologie che consentono ai grandi gruppi privati di pianificare la produzione, essendo informati in tempo reale – è il caso della Benetton, dotata di una rete di computer che collega tutti i punti vendita alla casa madre – su quanti e quali prodotti vengono venduti. Strumenti, questi, che renderebbero ben più facile oggi conciliare la pianificazione economica con l’andamento della domanda.
Ancora una volta, a Lenin la cosa era chiara: “Schiacciare il capitalismo non basta. – scriveva – Bisogna prendere tutta la cultura lasciata dal capitalismo e con essa costruire il socialismo. Bisogna prendere tutta la scienza, la tecnica, tutto il sapere, l’arte. Senza questo non possiamo edificare la vita della società comunista” [9]. Il contrario, dunque, di quelle idee di “azzeramento” che pure sono emerse in alcuni settori del movimento comunista novecentesco. Per Lenin, invece, come per Marx ed Engels, “il socialismo è inconcepibile senza la tecnica della grande industria capitalista, organizzata secondo l’ultima parola della scienza moderna” [10]. “La produttività del lavoro è in ultima analisi la cosa più importante [...] per la vittoria del nuovo ordine sociale” – dice enfatizzando “la grande iniziativa” dei “sabati comunisti” di lavoro volontario (un’iniziativa a cui partecipano 40.000 lavoratori nella sola Mosca [11]). “In confronto al capitalismo – aggiunge – il comunismo è la più elevata produttività del lavoro di operai volontari, coscienti e uniti, che si servono della tecnica più progredita”. Non è (solo) una questione quantitativa, dunque. “Il comunismo comincia là dove appare la preoccupazione disinteressata [...] dei semplici operai di aumentare la produttività del lavoro, di salvaguardare ogni pud di grano, di carbone, di ferro” a beneficio della “società nel suo complesso” [12].
È uno sviluppo economico, politico e culturale insieme, quindi, il presupposto fondamentale per il successo della transizione. Ed è uno sviluppo legato strettamente ai problemi della democrazia e della partecipazione delle masse. “Combattere sino in fondo il burocratismo – scrive infatti Lenin – [...] si può unicamente se tutta la popolazione partecipa alla gestione. Nelle repubbliche borghesi [...] la legge stessa lo impedisce. [...] Noi abbiamo fatto sì che tutte queste pastoie non esistano più da noi, ma [...] oltre alla legge, c’è anche il livello di cultura [...]. Questo basso livello di cultura fa sì che i Soviet, i quali, secondo il loro programma, sono gli organi del governo esercitato dai lavoratori, sono in realtà gli organi del governo per i lavoratori, esercitato dallo strato di avanguardia del proletariato, ma non dalle masse lavoratrici. Dinanzi a noi si pone qui un compito che non può essere assolto se non con un lungo lavoro di educazione” [13]. Il carattere problematico di questi scritti di Lenin successivi all’Ottobre è evidente: non una perfida volontà di sostituzione o sopraffazione rischia di svuotare i soviet, ma l’arretratezza stessa delle masse costituisce un problema oggettivo per un loro effettivo esercizio del potere.
Intanto le ipotesi di allargamento dell’ondata rivoluzionaria all’Europa occidentale vanno svanendo, e si pone il problema di costruire una società socialista nella “fortezza assediata” della Russia sovietica. Lenin sa che in vaste zone del Paese vigono “rapporti precapitalistici” e prevale la “piccola produzione”. Proprio per questo promuove la Nuova Politica Economica, afferma che lo Stato proletario deve passare attraverso lo scambio mercantile fra prodotti agricoli e industriali, la “ricostruzione della piccola industria”, le “concessioni” a privati anche stranieri, per poi andare – attraverso la modernizzazione, l’elettrificazione e il capitalismo di Stato – verso il socialismo [14]. La sua è una riflessione autocritica sulle fughe in avanti del “comunismo di guerra”, e in generale più consapevole della complessità della transizione [15].
Trasportati dall’ondata dell’entusiasmo – scrive – [...] ci proponevamo [...] di organizzare, con ordini diretti dello Stato proletario, la produzione statale e la ripartizione statale dei prodotti su base comunista in un paese di piccoli contadini. La vita ci ha rivelato il nostro errore. Occorreva una serie di fasi transitorie: il capitalismo di Stato e il socialismo, per preparare – con un lavoro di una lunga serie d’anni – il passaggio al comunismo. Bisogna “costruire dapprima un solido ponte che [...] attraverso il capitalismo di Stato, conduca verso il socialismo” [16]. Il primo obiettivo è dunque quello di avviare la modernizzazione del Paese, sapendo che dal socialismo la Russia è separata da un abisso ma pure che occorre “gettare un ponte” su questo abisso, ponendo le basi dello sviluppo economico, culturale e politico, a partire dalla creazione di un nuovo “apparato statale” e di partito che possa dirigere questo processo [17]. Né ovviamente questo comporta un diverso giudizio sulla Rivoluzione. A chi ripropone la tesi menscevica secondo cui, mancando le condizioni per il socialismo, i bolscevichi non avrebbero dovuto prendere il potere, Lenin replica: “Per creare il socialismo, voi dite, occorre la civiltà. Benissimo. Perché dunque da noi non avremmo potuto creare innanzitutto quelle premesse della civiltà che sono la cacciata dei grandi proprietari fondiari e la cacciata dei capitalisti russi per poi cominciare la marcia verso il socialismo?” [18]. E sull’importanza del nuovo Stato sovietico nonostante i suoi difetti, aggiunge: “per la prima volta è stata scoperta una forma non borghese di Stato. Può darsi che il nostro apparato sia scadente, ma si dice che anche la prima macchina a vapore fosse scadente; non si sa neppure se funzionasse o no... Ma l’importante è che ora abbiamo le macchine a vapore. Per quanto scadente possa essere il nostro apparato statale, esso è stato creato; è stata fatta la più grande invenzione della storia, è stato creato un tipo di Stato proletario”[19].
Accanto alla costruzione di un apparato statale nuovo, Lenin individua le altre priorità del potere sovietico, ossia l’industrializzazione e il problema del rapporto coi contadini. Quest’ultimo è l’asse decisivo della rivoluzione russa. Scrive Lenin: “Solo se, nella pratica, riusciremo a provare ai contadini i vantaggi dei metodi sociali, collettivi, cooperativi [...] la classe operaia [...] potrà realmente [...] esercitare la sua influenza in modo reale e durevole” [20]. Lenin coglie nel mondo rurale una stratificazione di classe per cui distingue un proletariato agricolo, i contadini poveri, quelli medi e quelli ricchi, i cosiddetti kulaki. Solo per sconfiggere la eventuale resistenza di questi ultimi ammette l’uso di metodi coercitivi, mentre con gli altri va consolidata l’alleanza evitando “modi da caporale”. “Dobbiamo dimostrare – dice nel ’19 – che in un paese stremato dalla fame il primo compito è quello di aiutare i contadini; ma si possono aiutare i contadini solo dopo aver unito la loro attività, [...] perché i contadini sono dispersi, isolati, abituati a vivere e a lavorare ciascuno per conto suo”. Di qui la necessità della loro organizzazione collettiva e di “un lungo lavoro educativo” [21]. E all’VIII Congresso del Partito aggiunge: “Non ammettiamo nessuna violenza nei confronti dei contadini medi”; persino dei contadini ricchi va evitata “l’espropriazione totale”. In generale, nelle campagne “bisogna evitare tutto ciò che potrebbe [...] incoraggiare gli eventuali abusi. [...] Agire in questo campo con la violenza, significa rovinar tutto. Qui occorre un lungo lavoro di educazione. Al contadino [...] dobbiamo offrire esempi concreti per provargli che la ‘comune’ è migliore di ogni altra cosa”, ed esse “devono essere organizzate in modo da conquistare la fiducia del contadino”, incoraggiandone l’associazione e mirando a ottenerne “il consenso volontario” a farvi parte. “Se potessimo domani dare centomila trattrici [...] allora il contadino medio direbbe: ‘Io sono per la comune’ (cioè per il comunismo). Ma per far questo, bisogna prima vincere la borghesia internazionale, [...] oppure bisogna elevare a nostra produttività in modo che possiamo fornirle noi stessi” [22]. Il Congresso diede ascolto a Lenin, approvando una risoluzione redatta da lui stesso in cui si diceva chiaramente: ‘Pur incoraggiando le cooperative [...] le comuni agricole dei contadini medi, i rappresentanti del potere sovietico non devono esercitare la minima costrizione al momento della loro creazione’, e coloro che lo fanno ‘devono essere severamente perseguiti’ [23].
Intanto però l’intervento delle armate straniere e la guerra civile avevano provocato una gravissima crisi dell’agricoltura e dell’industria. “Nessuno può dire – scrive Carr – quanti milioni di persone siano perite in seguito a violenza, fame, epidemie”; molti dei migliori militanti furono falciati [24]. Sono morti causati dal blocco commerciale e dalla guerra senza quartiere promossa dalle potenze imperialistiche contro la Russia sovietica, ma è probabile che oggi siano inseriti nella macabra contabilità dei Libri neri del comunismo! In questa situazione Lenin vede la necessità urgente di “aumentare le forze produttive dell’economia contadina”. E promovendo la NEP, individua uno dei punti cruciali proprio nella sostituzione del prelevamento delle eccedenze agricole con un’imposta in natura che consenta ai contadini di vendere sul mercato il resto del prodotto. “La giusta politica del proletariato [...] in un paese a piccola economia contadina – dice – è lo scambio del grano coi prodotti dell’industria, indispensabili ai contadini” stessi [25].
Dopo la morte di Lenin, e contro le pressioni della sinistra interna, il Partito bolscevico rimase fedele a questa impostazione. Lo sviluppo dell’industria richiedeva un forte finanziamento da parte delle campagne, ma si decise di procedere a ritmi non troppo elevati proprio per non richiedere sforzi eccessivi ai contadini. Nel 1927-28 furono costruite le prime grandi fabbriche e stazioni statali di trattori funzionali alla modernizzazione delle campagne, ma la priorità era ancora dell’industria leggera. Al XV Congresso, che pure lanciò ‘un’offensiva contro il kulak’, Molotov ribadì la necessità di uno “sviluppo graduale di grandi fattorie collettive”, escludendo scorciatoie e metodi coercitivi, e lo stesso Stalin fu su questa linea. Nel 1929 si discusse della possibilità di ammettere anche i kulaki nei kolchoz. ‘Né terrore né dekulakizzazione – titolava la “Pravda” – ma un’offensiva socialista nella direzione della NEP’ [26].
Come si vede, dunque, il problema del rapporto coi contadini – almeno fino a una certa fase – non venne affatto impostato in termini coercitivi, ma di una loro conquista all’agricoltura collettiva attraverso strumenti economici e politici. È chiaro, peraltro, che la questione era strettamente collegata al secondo elemento, quello dello sviluppo industriale. “L’unica vera base su cui potremmo consolidare le nostre risorse per creare una società socialista – aveva scritto Lenin nel ’21 – è la grande industria. Senza [...] una grande industria progredita non si può neppure parlare di socialismo [...] e ancor meno [...] in un paese contadino” [27]. E l’anno dopo, aveva ribadito: “Se non si riorganizzerà l’industria pesante, non potremo costruire nessuna industria: e senza l’industria noi, come paese indipendente, periremo” [28]. Secondo Carr, questo pericolo tornò a essere avvertito in modo acuto nel ’27, a seguito della sconfitta comunista in Cina e alla rottura delle relazioni con la Gran Bretagna. Fu allora che si cominciò a puntare decisamente sull’industrializzazione, e in particolare sull’industria pesante, ma questa scelta dipese anche dalla necessità di modernizzare un’agricoltura che cresceva troppo lentamente e nella quale andava riformandosi l’elemento mercantile e borghese. “O l’industria nazionalizzata [...] riusciva a subordinare a sé l’economia contadina e a integrarla in un sistema pianificato [...] oppure la resistenza dei contadini si sarebbe rivelata invincibile” nell’impedire la formazione di un’economia socialista. La crisi dei raccolti, parte dei quali veniva nascosta per far lievitare i prezzi ben al di sopra di quelli statali, fece il resto, avviando la lotta senza quartiere a kulaki e speculatori e la collettivizzazione accelerata dell’agricoltura, i cui caratteri si radicalizzarono in corso d’opera [29].
Una cosa simile accadde per l’industrializzazione. Avviata inizialmente ‘a passo di lumaca’ (per dirla con Bucharin), e privilegiando l’industria dei beni di consumo, a seguito delle crisi agricole e del crescente isolamento internazionale, essa subì una netta accelerazione, che procedette assieme all’avvio della pianificazione economica. Ha scritto Carr: “Il successo di questa campagna”, che pure ebbe costi umani altissimi, ma che “in trent’anni, partendo da una popolazione semianalfabeta di contadini arretrati, portò l’URSS al livello del secondo paese industriale del mondo [...] è forse il più significativo di tutti i successi della rivoluzione russa”, accompagnandosi all’aumento della durata media della vita, al diffondersi dell’istruzione, alla costruzione di una rete impressionante di servizi sociali. “Nel giro di cinquant’anni, un popolo primitivo e arretrato è stato messo in condizione di costruire con le proprie mani un nuovo tipo di vita e una nuova civiltà. L’ampiezza, la grandiosità e la velocità di questa avanzata [...] non hanno eguale” [30]. Ma – come aggiunge Hill – sebbene questo lavoro sia stato “prodigioso”, l’esperimento sovietico “fu ben più che questo. Fu un periodo di esperienze e di errori su scala gigantesca, di tentativi di forme di organizzazione sociale mai provate fino allora”, il tutto “in condizioni di eccezionale difficoltà, con risorse materiali ed umane disperatamente inadeguate, contro l’aperta ostilità di quasi tutti gli altri governi del mondo civile” [31].
Certo, oggi toni trionfalistici sarebbero fuori luogo: siamo reduci da una sconfitta storica e un atteggiamento simile non ci servirebbe. Bisogna però riconoscere alla Rivoluzione d’Ottobre e all’esperienza sovietica la sua grandezza, i suoi eroismi, assieme ai limiti oggettivi e agli errori soggettivi che pure non mancarono. E se sul piano economico i successi sono di gran lunga superiori, sul terreno politico i limiti che andarono emergendo furono pesanti. Nei suoi ultimi scritti, Lenin li rileva con grande lucidità. In particolare si sofferma sulle questioni della democrazia socialista, dello Stato sovietico in formazione, e sulla necessità di evitare la separazione rappresentanti/rappresentati tipici dei paesi borghesi. Egli osserva preoccupato che l’apparato statale sovietico “rappresenta al massimo grado una sopravvivenza di quello passato”, e propone di riorganizzare il Commissariato del popolo per l’Ispezione operaia e contadina, che era un organismo finalizzato a evitare appunto quella separazione. Lenin chiede di fondere il suo “nucleo fondamentale” con la Commissione Centrale di Controllo del Partito, in modo da garantire che anche rispetto a quest’ultimo vi sia un’azione di vigilanza, verifica e circolazione delle informazioni, ‘senza riguardo per chicchessia’ [32]. Esortando a fare meno ma meglio, ribadisce l’obiettivo di “costruire un apparato veramente nuovo che meriti veramente il nome di socialista”, sapendo che occorrerà “dedicare a questo lavoro alcuni anni”, sconfiggendo resistenze e inerzie. Tuttavia Lenin non dimentica il quadro internazionale in cui avviene l’esperimento sovietico, per il quale è sempre più duro resistere “fino alla vittoria della rivoluzione socialista nei paesi più progrediti”. Perciò pone gli obiettivi primari di “conservare il nostro potere operaio”, migliorare l’apparato, elettrificare il Paese.
Le potenze capitalistiche dell’Europa occidentale – scrive – [...] hanno fatto tutto il possibile per respingerci indietro, per utilizzare gli elementi di guerra civile in Russia al fine di rovinare il più possibile il nostro paese [...]. Non rovesciarono il nuovo regime creato dalla rivoluzione, ma non gli permisero di fare subito un passo in avanti tale da [...] permettergli di sviluppare con grandissima rapidità le forze produttive, di sviluppare tutte quelle possibilità, che [...] avrebbero dato il socialismo, di dimostrare a tutti [...] che il socialismo racchiude in sé forze gigantesche e che l’umanità è ora passata ad una nuova fase di sviluppo, che racchiude in sé possibilità magnifiche [33]. Certo, la storia non si fa coi “se”, ma lo stesso storico Hill osserva: “Se le cose fossero andate diversamente nel 1919, se le risorse industriali e il progresso tecnico dell’Europa centrale fossero stati a disposizione di un’unione di repubbliche sovietiche, quante sofferenze umane e quanti sforzi sarebbero stati evitati, alla Russia nel 1920 e al mondo intero dopo l’avvento di Hitler” [34]. Quanto meno difficile – aggiungerei – sarebbe stato il tentativo di transizione al socialismo!
In ogni caso a Lenin erano ben chiari quelli che sarebbero stati i principali problemi della Russia sovietica: arretratezza, difficoltà di realizzare il socialismo in un paese a maggioranza contadina, gravi difetti dell’apparato statale e di partito, pericolo di formazione di un ceto burocratico separato, accerchiamento capitalistico. E a questi problemi tentò di fornire degli abbozzi di soluzione tuttora di grande interesse: l’intensificazione del controllo popolare sugli apparati, sul piano politico; e l’accentuazione dei momenti del consenso e dello scambio economico nel rapporto coi contadini, prevedendo la superiorità e la prevalenza della proprietà statale dei grandi mezzi di produzione, ma anche una rete di cooperative legate allo Stato, che consentisse un’adesione convinta dei contadini alla costruzione dell’economia socialista. In generale, negli ultimi scritti, Lenin accentua ulteriormente il momento dell’egemonia rispetto a quello della forza: un’egemonia che – diversamente da Gramsci – egli pensa possa realizzarsi soprattutto dopo la presa del potere, col vantaggio di avere tutto l’apparato statale e gran parte dell’apparato produttivo nelle mani del proletariato e del suo partito. Tuttavia, se alcuni problemi sollevati da Lenin (in particolare quelli di tipo economico) saranno affrontati e in buona parte risolti dal gruppo dirigente staliniano, molti altri (quelli, ad esempio, relativi al sistema politico) rimarranno insoluti e spesso si aggraveranno, con tutte le deviazioni dalla “legalità socialista” e le “deformazioni” del sistema sovietico su cui Togliatti si soffermerà nel 1956 [35]. Le stesse contingenze storiche indussero infatti, da un lato ad accantonare le proposte di Lenin, dall’altro ad accelerare statalizzazione delle forze produttive e accentramento politico, in un processo drammatico eppure ricco di successi sul piano economico: l’obiettivo della modernizzazione della Russia sovietica venne in buona parte raggiunto, ma rimanevano aperti problemi rilevanti relativi al modello di socialismo in costruzione.
Oggi quella esperienza si è chiusa, ma i suoi effetti – come quelli della Rivoluzione francese – rimangono come dati permanenti dello sviluppo storico: il movimento di liberazione dei popoli e il processo di decolonizzazione, le altre rivoluzioni del ’900, l’affermarsi di nuovi diritti sociali, lo sviluppo di una vasta area del mondo, ma soprattutto la dimostrazione pratica che un altro sistema economico, un’altra organizzazione della società sono davvero possibili; che pianificare l’economia si può, anche se è molto difficile; che socializzare la produzione si può, anche se bisogna trovare le forme più adeguate a far sì che la socializzazione sia effettiva; che più evolute modalità di partecipazione alla cosa pubblica sono possibili, anche se non irreversibili; che nuovi rapporti tra gli uomini – rapporti di cooperazione costruttiva, anziché di quella competizione individualistica che sta portando il Pianeta alla catastrofe – sono possibili.
Certo, rimane anche il retaggio degli errori e delle deviazioni. Ma soprattutto, alla luce dell’esperienza, acquista maggiore pregnanza l’idea di Marx, Engels e Lenin che la transizione al socialismo è un processo storico, lungo, complesso e tortuoso; che le accelerazioni possono rispondere ad alcune emergenze ed essere necessarie in alcuni momenti, ma non possono surrogare gli elementi strutturali, il loro sviluppo, la loro maturità. Questi elementi oggettivi, paradossalmente, oggi sono molto più maturi di ieri. Le carenze maggiori riguardano invece il piano soggettivo, quello dell’elaborazione teorica e della proposta politica. Bisogna perciò ricominciare a studiare, contribuire alla ricostruzione storica ma anche a una nuova critica dell’economia politica, tornare a fare un lavoro di formazione, tornare a impegnarsi nella “battaglia delle idee”.
Note
1. V. I. Lenin, Come organizzare l’emulazione? [gennaio 1918], in Id., Opere scelte, Roma, Editori Riuniti, 1965, pp. 1028-1033.
2. V. I. Lenin, Rapporto sulla guerra e sulla pace al VII Congresso del PC(b)R [marzo 1918], ivi, p. 1064.
3. V. I. Lenin, I compiti immediati del potere sovietico [aprile 1918], ivi, pp. 1089, 1101.
4. Ivi, pp. 1116-1118.
5. Sull’idea di comunismo come “espansione della democrazia nella totalità della vita sociale”, cfr. J. Texier, “Stato e Rivoluzione” di Lenin e la faccia nascosta del pensiero politico marx-engelsiano, in Lenin e il Novecento, a cura di R. Giacomini e D. Losurdo, Napoli, La Città del Sole, 1997, p. 379 e passim.
6. C. Hill, Lenin e la rivoluzione russa, Torino, Einaudi, 1979, p. 148; V. I. Lenin, La funzione e i compiti dei sindacati nelle condizioni della Nuova politica economica [gennaio 1922], in Id., Opere scelte, cit., pp. 1682-1685.
7. V.I. Lenin, Successi e difficoltà del potere sovietico [marzo 1919], ivi, pp. 1228-1231.
8. Lenin, I compiti immediati del potere sovietico, cit., pp. 1092-1095, 1127.
9. Ivi, p. 1229.
10. V. I. Lenin, L’infantilismo “di sinistra” e la mentalità piccolo-borghese [maggio 1918], ivi, p. 1540.
11. Hill, op. cit., p. 157.
12. V. I. Lenin, La grande iniziativa [luglio 1919], in Id., Opere scelte, cit., pp. 1304-1305.
13. Lenin, Rapporto sul programma del partito presentato all’VIII Congresso..., cit., pp. 1260-1261.
14. V. I. Lenin, Sull’imposta in natura [maggio 1921], in Id., Opere scelte, cit. pp. 1549-1561. Per Lenin occorre “incanalare lo sviluppo inevitabile (fino a un certo punto e per un certo periodo) del capitalismo nell’alveo del capitalismo di Stato”, in modo da assicurare “in un futuro non lontano la trasformazione del capitalismo di Stato in socialismo”.
15. Su questo tema, cfr. A. Catone, Lenin e la transizione dal capitalismo al socialismo, in Lenin e il Novecento, cit., pp. 177-214.
16. V.I. Lenin, Per il quarto anniversario della rivoluzione d’Ottobre [ottobre 1921], in Id., Opere scelte, cit., p. 1629.
17. I. Getzler, Ottobre 1917: il dibattito marxista sulla rivoluzione in Russia, in Storia del marxismo, cit., vol. 3*, pp. 46-47.
18. V.I. Lenin, Sulla nostra rivoluzione. A proposito delle note di N. Sukhanov [gennaio 1923], in Id., Opere scelte, cit., pp. 1807-1808 (corsivi miei).
19. Cfr. Hill, op. cit., p. 158.
20. Ivi, pp.76-77.
21. Lenin, Successi e difficoltà del potere sovietico, cit., pp. 1234-1235.
22. V. I. Lenin, Rapporto sul lavoro nella campagna all’VIII Congresso del Partito comunista (bolscevico) di Russia [marzo 1919], ivi, pp. 1271-1278.
23. E.H. Carr, 1917. Illusioni e realtà della rivoluzione russa, Torino, Einaudi, 1970, p. 116.
24. Ivi, pp. 140-141. Nel 1921 i prodotti forniti dall’agricoltura erano meno della metà rispetto a prima della guerra; l’industria pesante era ridotta al 13% di quella pre-bellica; quella leggera al 44%.
25. Lenin, Sull’imposta in natura, cit., pp. 1546-1547.
26. Carr, 1917..., cit., pp. 117-119, 126.
27. V. I. Lenin, Operai e contadini [maggio 1921], in Id., Opere scelte, cit., p. 1574.
28. V. I. Lenin, Cinque anni di rivoluzione russa e le prospettive della rivoluzione mondiale [novembre 1922], ivi, p. 1752.
29. Carr, 1917..., cit., pp. 119-131.
30. Ivi, pp. 142-146, 18-19, 201.
31. Hill, op. cit., pp. 129-130.
32. V.I. Lenin, Come riorganizzare l’Ispezione operaia e contadina [gennaio 1923], in Id., Opere scelte, cit., pp. 1809-1813.
33. V.I. Lenin, Meglio meno, ma meglio [marzo 1923], ivi, pp. 1815-1827.
34. Hill, op. cit., pp. 121.
35. P. Togliatti, Intervista a “Nuovi Argomenti”, maggio-giugno 1956, in Id., Il 1956 e la via italiana al socialismo, a cura di A. Höbel, Roma, Editori Riuniti, 2016.