Neoliberismo e postmodernismo sono due espressioni opposte e conflittuali del tardo capitalismo o presentano significative convergenze? Cerchiamo di indicare alcuni punti di contatto.
di Alessandra Ciattini
segue da parte I
C'è un libro sovietico che mi preme menzionare, perché sicuramente non molto conosciuto, nel quale si pone lo stesso problema su cui riflette Brzezinski: studiare i mutamenti prodotti dalla rivoluzione tecnico-scientifica del Novecento e ipotizzare il percorso che essi intraprenderanno nel futuro. Sto parlano del libro di Edvard A. Arab-Ogly Nel labirinto dei vaticini, uscito in Italia per le Edizioni Progress (Mosca 1977), nel quale si analizza, tuttavia, anche un altro aspetto importante: nelle trasformazioni, che si sono realizzate nella società postindustriale, secondo l'autore sovietico si concretano i progetti di cambiamento auspicati e messi in opera dai grandi centri di ricerca sociologica, legati al capitale transnazionale impiantato in gran misura negli Stati Uniti. Tali progetti sarebbero stati, dunque, una sorta di vaticini e di profezie, che si sono auto-relizzati, e nei quali si manifestava ciò che i centri di potere desideravano di realizzasse.
A questo punto mi sembra di aver indicato una serie di elementi sufficienti che ci permettono di stabilire una serie di collegamenti con il cosiddetto pensiero postmodernista, che sicuramente costituisce una galassia di tendenze, ma che presenta un insieme di tratti in profonda sintonia con il pensiero neoliberale; tratti che d'altra parte scaturiscono dalle dinamiche stesse della società postindustriale, come sostiene il già menzionato Jameson.
Mi sembra che sia individuabile un parallelismo tra la messa in crisi degli Stati, delle grandi organizzazioni di massa, il cui dissolvimento però, secondo Brzezinski, produce individui senza scopo e motivazione ad agire, alla cosiddetta crisi della razionalità moderna, intesa come dimensione che si propone indebitamente di inglobare e di dar conto le razionalità locali; e questa crisi viene descritta dai postmodernisti come un'acquisizione emancipatoria, giacché come scrive Gianni Vattino, fautore del pensiero debole, “caduta l'idea di una razionalità centrale della storia, il mondo della comunicazione generalizzata esplode come una molteplicità di razionalità ‘locali’ - minoranze etniche, sessuali, religiose, culturali o estetiche - che prendono la parola, finalmente non più tacitate e represse dall'idea che ci sia una sola forma di umanità vera da realizzare, a scapito di tutte le peculiarità, di tutte le individualità limitate, effimere, contingenti” (La società trasparente, Garzanti, Milano 1989, p. 17).
Tale posizione di Vattimo ci fa immediatamente pensare al tema del frammento e a quello dell'alterità, così rilevanti nel pensiero postmoderno; puntelli di una visione dell'universo in cui le singole entità – in realtà mai stabili e consistenti, siano esse di natura sociale o individuale - non si muovono secondo una logica comune, ma secondo le loro specifiche prospettive; e proprio per questo esse costituiscono brandelli che possono casualmente intersecarsi o anche entrare in conflitto; per taluni non possono nemmeno comunicare e comprendersi, perché dipendenti da logiche profondamente diverse, e in questo senso reciprocamente “altre” e incommensurabili.
Questo sarebbe il mondo nel quale esplodono le differenze, veicolate attraverso le immagini dai mass-media, che offrono ai singoli modalità differenti di autorealizzazione, consentendo loro – nell'interpretazione postmoderna - una maggiore valorizzazione delle loro potenzialità personali. Il mondo del multiculturalismo, delle differenze e delle specificità, è descritto però in un solo suo aspetto, e cioè senza tenere conto che tale deflagrazione delle diversità, che si manifesta anche in conflitti sanguinosi nel caso dei conflitti etnici o intereligiosi [1], sorge e si sviluppa come risultato di un progetto soggiacente; progetto che, come si è visto, mira a frantumare tutte quelle entità collettive a vario livello che possono ostacolare l'espansione del tardo capitalismo con le sue istituzioni transnazionali, facendolo ipocritamente in nome della valorizzazione dell'individuo. Entità, inoltre, cui non si attribuisce nessuna stabilità identitaria, giacché sono continuamente attraversate da flussi mentali e culturali di segno diverso, diffusi dai continui input mass-mediatici e suscitati in ultima analisi dalle sollecitazioni cangianti e variabili del mercato dei consumi.
Questo tema è sviluppato, in particolare, da altri due pensatori (Richard Sennett e Zygmunt Bauman) che riflettono sull'instabilità identitaria dell'uomo postmoderno, costretto a vivere in un eterno presente, in uno stato di continua precarietà (in primis lavorativa), impossibilitato a pianificare il suo futuro e anche solo ad immaginare una prospettiva di emancipazione.
Bisogna osservare che tale homo novus, proprio per i suoi tratti caratteriali, non è più dotato di una forte tempra morale, di reale capacità di opposizione e di resistenza, giacché si trova ad essere quotidianamente irretito nella continua ricerca della soddisfazione di bisogni contingenti ed effimeri, sempre nuovi e sempre più artificiali. Egli è stato stroncato nella sua stessa fibra psicologica e ridotto ad apparato passivo di ricezione degli infiniti impulsi derivanti dalla spaventosa complessità del mondo esterno, che producono solo un senso di spaesamento e disorientamento, dal quale secondo il pensiero postmoderno dovrebbe derivare uno stato di euforia.
Se così stanno le cose, mi pare si è realizzata – già da tempo - una bizzarra alleanza tra i neoliberisti, che vogliono tornare al laissez faire e all'enfasi sull'individuo come agente sociale, e quegli anti-modernisti - tali si dichiarano - che invece desiderano sbarazzarsi delle istituzioni fondative della modernità e del suo pensiero generalizzante e omologante, in nome del multiculturalismo e della molteplicità infinita dei processi, nei quali costantemente si dissolvono tutte quelle entità, cui inopinatamente attribuiamo una qualche permanenza e che, invece, debbono essere aperte ai multiformi influssi provenienti dall'esterno.
E questa alleanza si basa sul legame stretto che c'è tra razionalità e socialità, nel senso che entrambe propongono una forma di organizzazione, sia pure di distinte sfere della realtà, le quali - a differenza di quanto pensano i postmoderni - non sono necessariamente omologanti e insensibili alle diversità, né possono esser tout court identificate con la forma storica da esse assunta nella società capitalistica. E, d'altra parte, abbiamo visto che il mondo diviso, che prorompe nelle numerose diversità, costituisce solo una dimensione sia pure importante e significativa di processi, che si stanno sviluppando secondo un disegno, un piano, come possiamo ricavare dalle riflessioni di Brzezinski e degli autori statunitensi che scrivono negli anni '70 opere futurologiche.
Disegno e piano che, tuttavia, non può esser condiviso perché - come può comprendere l'analista critico del pensiero unico - porta con sé una sempre più accentuata polarizzazione della ricchezza e del potere, dalla quale scaturiscono conflitti sempre più diffusi e insanabili, che possono sfociare in una deflagrazione mondiale, in cui la stessa sopravvivenza del genere umano diventa assai problematica.
Concludendo, mi sembra opportuno tornare alla riflessione di Jameson, che ci invita a riprendere un'osservazione dialettica presente nel Manifesto del Partito comunista, nella quale si sottolinea che “il capitalismo è la cosa migliore che sia mai capitata alla razza umana, e la peggiore” (op. cit. p. 78). Da questa osservazione Jameson ricava che bisogna attribuire un valore positivo all'instaurazione dello “spazio sempre più globale e totalizzante del nuovo sistema-mondo”, dal quale bisogna partire, tuttavia, per elaborare “una nuova arte politica”, il cui compito è quello di rappresentarlo, fornendoci di esso una cartografia cognitiva su scala sociale e spaziale. Con il suo aiuto “potremo ricominciare a intendere la nostra posizione [nello spazio mondiale del capitalismo multinazionale] in quanto soggetti individuali e collettivi e a riconquistare una capacità di agire e di lottare, che al presente è neutralizzata dalla nostra confusione spaziale e sociale” (op. cit. p. 85).
Confusione che, a mio parere, con l'enfasi sul frammento, sull'alterità e sulle specificità irriducibili degli individui e delle diverse forme culturali i postmodernisti hanno certamente contribuito ad alimentare, occultando in maniera consapevole o inconsapevole quel disegno soggiacente e frantumante, i cui effetti drammatici e devastanti sperimentiamo tutti i giorni.
Note
1. Nei quali prendono corpo conflitti di altra natura e di altra origine, anche se ciò non significa che i primi siano una mera apparenza.