Marlowe nella Repubblica popolare: il destino noir che incombe sul sogno cinese

Fuochi d’artificio in pieno giorno, un bel film che consente, involontariamente, allo spettatore più attento di riflettere sulle tragiche contraddizioni di un paese in cui si sta affermando, non senza resistenze, il modo capitalistico di produzione, con la sua ideologia improntata all’utilitarismo individualista. 


Marlowe nella Repubblica popolare: il destino noir che incombe sul sogno cinese

Una riflessione sulla resistibile ascesa del capitalismo in Cina a partire dal film Fuochi d’artificio in pieno giorno, vincitore del festival di Berlino. Un bel film che consente, involontariamente, allo spettatore più attento di riflettere sulle tragiche contraddizioni di un paese in cui si sta affermando, non senza resistenze, il modo capitalistico di produzione, con la sua ideologia improntata all’utilitarismo individualista. 

di Renato Caputo

Nonostante abbia ricevuto l’Orso d’oro quale migliore film del prestigioso festival di Berlino, nonostante l’Orso d’argento conquistato dal suo protagonista Liao Fan, Fuochi d’artificio in pieno giorno esce nelle sale italiane, per altro poche, a fine luglio. Ciò non è imputabile, come spesso avviene per le opere premiate nei festival internazionali europei, all’essere un film intellettualistico o che snobisticamente si rivolge a una ristretta élite di cinefili. Al contrario Fuochi d’artificio in pieno giorno, pur essendo film indubbiamente d’autore, è fruibile e godibile da un pubblico piuttosto ampio, dotato di un minimo di cultura cinematografica e di gusto estetico. Si presenta come il classico hard boiled, uno dei generi cinematografici più diffusi e apprezzati dal grande pubblico. Ha, quindi, tutte le caratteristiche del film di genere e trae ispirazione dai migliori classici del noir, come The Maltese Falcon di John Huston, The Big Sleep di Howard Hawks e The Lady from Shanghai di Orson Welles. Al contempo il regista Yinan Diao dimostra di aver assimilato anche la più recente rivisitazione in chiave post moderna del genere, realizzata da Quentin Tarantino e dai fratelli Cohen e orientalizzata dalla fitta schiera di registi di Taiwan o Hong Kong che si sono sperimentati con il noir. 

Al contempo, però, mantiene un distacco ironico da tutti questi modelli. Tutti gli ingredienti dello hard boiled sono presentati in una chiave ultra-realista. I personaggi sono privati del tutto della loro aura e ci sono presentati nella loro più schietta umanità, con tutti i loro limiti e difetti. Per quanto la trama, come generalmente avviene in questo genere di film, sia astrusa e inverosimile, il carattere tipico dei personaggi, il loro essere fin troppo umani, rende il film comunque interessante. 

Anzi i limiti propri dei comuni esseri mortali finiscono per fare dei protagonisti dei veri e propri anti- eroi, che consentono allo spettatore di mantenere un distacco critico dinanzi agli eventi, favorito dalla sottile ironia con cui vengono presentate vicende per quanto drammatiche. Inoltre Yinan Diao non rinuncia a dare uno sfondo storico al proprio film, i cui eventi prendono le mosse dagli ultimissimi anni del ventesimo secolo quando nella Repubblica popolare cinese dominavano i settori più revisionisti del partito comunista. Con la Teoria delle tre rappresentanze, divenuta parte integrante della stessa costituzione cinese, si aprono le porte del partito, e dunque del potere politico, non solo all’élite dei tecnici, ma agli stessi imprenditori definiti forze produttive avanzate. 

In tal modo si abbandona la transizione al socialismo, nel corso della quale, secondo la lezione di Lenin e Mao Zedong, la lotta di classe non solo non si estingue, ma si accentua, considerato che i privilegiati non potranno che difendere in modo sempre più violento i propri privilegi sempre più messi in questione. Visto lo stadio di assedio in cui deve svilupparsi la transizione al socialismo è evidente che tale lotta può essere vinta dalla classe operaia e, più in generale, dalle masse popolari solo con il pieno appoggio del partito che controlla la macchina dello stato. Quando questo appoggio viene meno e il partito presentandosi nei fatti come partito della nazione si dichiara rappresentante tanto degli interessi dei lavoratori, quanto degli interessi dei tecnici e degli imprenditori, è evidente che saranno questi ultimi a prendere il sopravvento. Tanto più che con le crescenti aperture all’economica capitalista, sempre meno giustificabili con il richiamo alla Nep lanciata da Lenin all’inizio degli anni venti, la libera concorrenza e le dinamiche del mercato favoriscono e rafforzano sempre più gli imprenditori nei confronti dei lavoratori salariati. 

Dunque, come al solito, parlare di armonia fra gruppi sociali che hanno interessi necessariamente contrapposti, affermare per decreto la fine della lotta di classe, favorisce i più forti, ossia i ceti dominanti sul piano economico. La negazione ideologica non può cancellare la realtà della lotta di classe, che viene condotta in modo sempre più unilaterale dagli imprenditori. Lo stato, con il suo monopolio della violenza legalizzata, teoricamente neutrale, finisce nei fatti per fare gli interessi dei ceti sociali dominanti difendendo lo status quo e impedendo con la violenza ai dominati di ribaltare questa situazione in cui si riproduce la dialettica servo-padrone. 

Ciò appare nel modo più evidente nel film, la cui inverosimile trama nera ha come origine una purtroppo verosimile vicenda sociale: una lavoratrice salariata involontariamente danneggia il cappotto di un signore; non potendo risarcire il cliente del danno subito, non avendo nessuna forza sociale e politica disponibile a sostenerla e in cui possa riconoscersi, la giovane e indifesa donna è costretta a subire il più umiliante ricatto sessuale. 

Quando la donna, proletaria sposata a un operaio, stanca della violenza sessuale si ribella, nella modalità irrazionale e controproducente della violenza individuale, si trova contro compatte le forze dell’ordine costituito, che intervengono per riaffermarlo. A nulla vale la storia d’amore che si sta sviluppando fra la donna e l’uomo che conduce l’inchiesta. La legge posta a salvaguardia dell’ordine costituito, per quanto ingiusta possa essere, deve venir a ogni costo riaffermata. E questo compito viene portato a termine senza scrupoli o rimorsi di sorta da parte del protagonista. Non vi è nemmeno la contraddizione tragica che naturalmente dovrebbe svilupparsi fra il legame di amore e la necessità di far rispettare la legge. Anzi, nell’attuale Repubblica popolare cinese la stessa tragedia di Antigone pare impossibile, inverosimile. L’universale dello stato, che garantisce gli attuali diseguali rapporti di proprietà, deve avere l’assoluta supremazia sui legami individuali, in particolare se si tratta di lavoratori salariati. Anzi il protagonista si dimostra privo di dubbi e scrupoli al punto da sfruttare la debolezza della donna, che sta per essere da lui consegnata alla polizia, per strapparle un rapporto sessuale, necessariamente squallido. 

Ciò che colpisce è che tutto ciò ci viene presentato in modo del tutto distaccato dal regista, che pare limitarsi a registrare l’esistente, senza metterlo in discussione, per quanto brutale nella sua irrazionalità si dimostri. Questa mancanza di distacco critico, questa attitudine positivista e, quindi, spietatamente conservatrice da parte del regista appare del tutto inconsapevole, quasi naturale. Ed è forse questo il dato più allarmante e inquietante che emerge dal film. Siamo dinanzi a un brillante intellettuale, niente affatto disponibile a usare toni ossequiosi, alla Zhang Yimou, verso il potere politico. Non per niente il suo film viene premiato in un festival di un paese imperialista, al solito sempre attento a dare il massimo riconoscimento a ogni forma di dissidenza che si manifesta nei riguardi di paesi che non appaiono disponibili a mantenersi nel ruolo subalterno che gli è stato imposto a partire dall’epoca coloniale. 

Tanto più se tale critica non ha risvolti rivoluzionari, è una critica individuale, che mette in luce le contraddizioni al livello fenomenico, senza mettere in questione, anzi riconfermando come “naturale”, il fondamento, ossia le differenze di classe e lo sfruttamento della forza lavoro ridotta a merce. Da questo punto di vista il film cinese è sostanzialmente identico ai diversi film di questo tipo realizzati negli ultimi anni a Taiwan e a Hong Kong. 

La riunificazione di quest’ultima alla Repubblica popolare cinese non solo non ha messo in discussione i rapporti di proprietà fondati sullo sfruttamento presenti a Hong Kong, né le conseguenti differenze di classe, ma non ha scalfito neppure l’ideologia in essa dominante imposta dalle potenze colonialiste e imperialiste. Anzi paradossalmente, anche dal punto di vista ideale, pare il sistema di Hong Kong e, più in generale, il modello delle tigri asiatiche ad annettersi progressivamente la Repubblica popolare cinese. Pur trattandosi di uno scontro anche ideologico ancora in atto e che non converrebbe affatto dare per perso. Anzi le forze della sinistra all’estero dovrebbero cercare di sostenere gli sforzi della sinistra cinese, per quanto oggi debole, di resistere a tale annessione. Al contrario troppo spesso nel mondo occidentale si fa esattamente il contrario, ossia le a-sinistre attaccano il governo cinese per non essere conseguente fino in fondo con la scelta a favore del modo di produzione capitalista, affiancando alle controriforme economiche anche delle controriforme politiche, che riconsegnino in modo definitivo il potere alle classi dominanti. 

In conclusione possiamo osservare che Fuochi d’artificio in pieno giorno dimostra ancora una volta la volontà da parte della maggioranza degli intellettuali cinesi di imitare il modello occidentale, dimostrando che l’allievo è in grado di superare il maestro e che il rapporto servo-padrone imposto dal colonialismo e dall’imperialismo rischia sempre più di rovesciarsi. Il malevolo voyerismo con cui la maggioranza degli intellettuali occidentali osservano gli sviluppi nella Repubblica popolare cinese resta ancora una volta frustrato. L’obiettivo di appropriarsi del modello vincente occidentale pare realizzarsi. In sempre più campi i figli della Repubblica popolare cinese primeggiano, pur giocando una partita secondo le regole e i modelli occidentali. 

Al contrario a essere ancora una volta frustrato è chi si ostina a ricercare nel modello della Repubblica popolare cinese post-maoista una reale alternativa al sistema oggi dominante, per quanto sempre più in crisi. Certo gli effetti della crisi a livello internazionale e, quindi, il precipitare nella barbarie che ci attende, se non saremo in grado di sostituire il modo di produzione socialista al capitalista, sono attenuati e posticipati proprio dalla resistibile ascesa del capitalismo in Cina. Tuttavia c’è poco da stare allegri, dal momento che, giunto a un certo livello di sviluppo, il modo di produzione capitalistico per salvaguardare i propri sempre più diseguali rapporti di proprietà deve sempre più ostacolare lo sviluppo delle forze produttive. Nel medio periodo lo spettro della crisi di sovrapproduzione rischia sempre di più di affacciarsi anche in Cina, senza contare che lo sviluppo in senso capitalista della Repubblica Popolare cinese rischia di aggravare ulteriormente il disastro ecologico di cui è responsabile un modo di produzione finalizzato unicamente al profitto individuale. 

Se non vogliamo che le forze della barbarie – dall’integralismo religioso, al razzismo, al nazi- fascismo – appaiano le uniche realistiche alternative alla crescente putrefazione del modo di produzione capitalista, non ci resta che tornare a riflettere e a operare nella direzione della transizione al socialismo. Ma, in una fase di restaurazione come questa, è indispensabile avere quel principio speranza, quello spirito d’utopia che purtroppo pare abbiano abbandonato non solo la maggioranza degli intellettuali occidentali, ma anche la maggioranza degli intellettuali cinesi. 

 

08/08/2015 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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