Lukács, economia e filosofia

Hegel è pervenuto, secondo Lukács, alla corretta formulazione del problema per avere egli messo in rapporto il processo teleologico con l’attività lavorativa e per avere concepito lo strumento di lavoro come termine medio di congiunzione tra il progetto teleologico posto dal soggetto e la causalità propria della natura.


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György Lukács mostra come, a stretto contatto con le analisi di Adam Smith, Hegel ha sviluppato nelle lezioni di Jena il tema della divisione del lavoro, approdando alla concezione del lavoro universale e quindi astratto, nel senso che il contenuto del lavoro trascende il bisogno di ciascun lavoratore, poiché soddisfa mediatamente il bisogno degli altri, e non immediatamente il proprio bisogno. Tale processo si approfondisce con il progresso tecnico: l’introduzione della macchina se da una parte diminuisce il lavoro complessivo della società, dall’altra lo aumenta per il singolo, il quale rimane soggetto allo strumento. Il passo delle Lezioni jenensi riportato da Lukács è il seguente: “nella macchina l’uomo sopprime anche questa sua attività formale e la lascia lavorare interamente per lui. Ma quell’inganno che egli esercita verso la natura e con cui rimane entro la singolarità di essa si vendica contro lui stesso; quanto le sottrae, quanto più l’assoggetta, e tanto più egli stesso si immeschinisce. In quanto fa lavorare la natura da vario genere di macchine, non sopprime la necessità del suo proprio lavoro, ma lo sposta soltanto, lo allontana dalla natura, e non si rivolge ad essa in modo vivente come a una natura vivente; ma questa vitalità negativa fugge, e il lavorare che gli resta diventa anch’esso più meccanico; lo diminuisce solo per il tutto, ma non per il singolo, anzi piuttosto lo aumenta, poiché, quanto più meccanico diventa il lavoro, e tanto minor valore esso ha, e tanto più egli deve lavorare in questo modo” [1].

Al pari dei classici dell’economia politica Hegel “vede il carattere progressivo del movimento generale dello sviluppo delle forze produttive ad opera del capitalismo e della divisione capitalistica del lavoro, e vede nello stesso tempo la disumanizzazione ad essa necessariamente connessa della vita dell’operaio. Egli considera questo inevitabile ed è pensatore di rango troppo elevato per scoppiare in proposito in lamentazioni romantiche; e d’altra parte è pensatore troppo serio ed onesto per tacere, o anche solo attenuare nella rappresentazione, un aspetto qualsiasi di questo contesto” [2].

Sebbene il livello di penetrazione delle contraddizioni capitalistiche da parte di Hegel appaia a Lukács sbalorditivo, se solo si tiene conto delle condizioni tedesche, egli non nasconde l’illusione idealistica cui soggiace Hegel nel voler sanare i contrasti, ricorrendo alla mediazione dello Stato. La soluzione adombrata nel Sistema dell’eticità – ossia l’intervento dell’autorità politica nell’ambito della società civile per appianare le ineguaglianze prodotte dal meccanismo economico – non sarà più abbandonato da Hegel e troverà una formulazione a più alto livello teorico nella Filosofia del diritto (1821).

Nell’orizzonte teorico hegeliano, ampliato e arricchito dai contenuti socio-economici, si determina un significativo mutamento della nozione di “positività”: la “morta oggettività” appare adesso come prodotto dell’attività dell’uomo resosi estraneo e, sotto il suo dominio, il singolo individuo esperisce la propria impotenza. Siamo al grande tema dell’“alienazione”, nocciolo della contraddittorietà della società borghese, che Hegel ha sviscerato realisticamente nelle sue intime connessioni; tuttavia anch’essa non sfugge alla tendenza idealistica della “conciliazione” all’interno della stessa realtà presente. È quanto farà Hegel nella Fenomenologia, dove “il concetto di alienazione viene in lui ulteriormente generalizzato, per poter quindi, in questa generalizzazione essere nuovamente tolto e recuperato nel soggetto. Hegel non vede, dal punto di vista sociale, al di là dell’orizzonte capitalistico. La sua teoria della società non conosce quindi utopia. Ma la dialettica idealistica trasforma l’intera evoluzione dell’umanità in una grande utopia filosofica: nel sogno filosofico del recupero dell’alienazione nel soggetto, della trasformazione della sostanza in soggetto” [3].

Sulla grandezza e sui limiti di Hegel, interprete dell’economia politica, si era pronunciato Marx nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, nei quali veniva riconosciuto la centralità del lavoro nella Fenomenologia dello spirito, “vero luogo di nascita e arcano della filosofia di Hegel”: “la Fenomenologia è [...] la critica nascosta, ancora non chiara a se stessa e mistificatrice; ma in quanto tiene ferma l’alienazione umana – anche se l’uomo appaia solo nella figura dello spirito – si trovano in essa nascosti tutti gli elementi della critica, e spesso preparati ed elaborati in una guisa che sorpassa di molto il punto di vista hegeliano. [...] L’importante nella Fenomenologia e nel suo risultato finale – la dialettica della negatività come principio motore generatore – è dunque che Hegel intende l’autoprodursi dell’uomo come un processo, l’oggettivarsi come un opporsi, come alienazione e come soppressione di questa alienazione; che egli dunque coglie l’essenza del lavoro e concepisce l’uomo oggettivo, l’uomo verace perché uomo reale, come risultato del suo proprio lavoro” [4].

Secondo il parere di Lukács, il ruolo di anticipazione di Hegel rispetto al pensiero di Marx si mostra in tutta evidenza nella soluzione hegeliana del problema della “teleologia”, tema decisivo, questo, per determinare il giusto rapporto teoria-prassi. Tale grandiosa questione – che ha interessato l’intero corso storico della filosofia – è stata al centro del pensiero moderno impegnato, dopo la nascita della scienza meccanicistica, nella critica al principio dello scopo e della causa finale, che è stato sempre adottato dal pensiero teologico e metafisico nella spiegazione del mondo.

Lukács ricorda che il rifiuto della teleologia, come principio insito nell’oggettività naturale, ha portato pensatori come Hobbes e Spinoza alla negazione, oppure a ritenere non rilevante l’attività del soggetto rivolta al conseguimento dello scopo. Lukács individua già nel criticismo kantiano tre tentativi di venire a capo del problema. Anzitutto, il concetto di scopo è introdotto da Kant nella sfera pratico-morale con la nozione dell’incondizionatezza dell’uomo come soggetto morale e della sua irriducibilità a semplice mezzo; ma in questo modo si è scavato l’abisso tra necessità naturale e finalità umana. In secondo luogo, l’esigenza di colmare in qualche modo questa frattura ha indotto Kant a formulare, in sede estetica, la definizione dell’arte come “finalità senza scopo”, da cui hanno preso le mosse l’estetica di Schiller e di Schelling. Infine, con il giudizio teleologico – cioè la considerazione finalistica della natura con valore semplicemente regolativo e non costitutivo – Kant ha cercato di dare una risposta agli interrogativi sorti dallo sviluppo della scienza biologica e di dare un’interpretazione ai fenomeni organici, inaccessibili all’apparato concettuale meccanicistico; con ciò, nonostante il suo agnosticismo e le difficoltà in cui si è imbattuto, ha aperto la via al successivo sviluppo del pensiero in senso dialettico.

Partendo dagli importanti risultati conseguiti in questo campo, ma che lasciavano irrisolta l’antinomia di causalità e di teleologia, Hegel è pervenuto, secondo Lukács, alla corretta formulazione del problema per avere egli messo in rapporto il processo teleologico con l’attività lavorativa e per avere concepito lo strumento di lavoro come termine medio di congiunzione tra il progetto teleologico posto dal soggetto e la causalità propria della natura [5].

L’articolazione dei termini in gioco è compiutamente formulata nelle lezioni jenensi del 1805-06: nel passo citato da Lukács [6], Hegel mostra la superiorità dello strumento rispetto allo scopo particolare perseguito (il soddisfacimento del bisogno): il primo si mette a servizio di una molteplicità di possibili scopi, per cui esprime un contenuto universale che ingloba scopi determinati e particolari. Lo strumento è il veicolo che realizza lo scopo; con la sua funzione di medium tra io agente e oggetto naturale mette in movimento la legalità della natura secondo la volontà conforme allo scopo impressa dal soggetto. La cieca necessità naturale viene così aggirata dall’astuzia consapevole, ma non violata; anzi, il presupposto del successo dell’attività trasformatrice è appunto il rispetto e la conoscenza dei rapporti propri dell’oggettività naturale.

La formulazione hegeliana segna per Lukács una vera e propria svolta nella storia della filosofia: da un lato, il nesso causalità e teleologia viene spiegato senza far ricorso ad alcun principio trascendente e con ciò è definitivamente liquidato l’approccio teologico e metafisico al problema; dall’altro, viene superato il dualismo astratto di uomo e natura dominante in Kant e Fichte, nel pensiero dei quali “la natura veniva unilateralmente concepita solo come passivo campo d’azione o come semplice limitazione dell’attività umana; per cui questa attività stessa, come Hegel ha detto di Fichte, veniva sublimata nella «pura e nauseante altezza» di una moralità astratta. Ciò che non poteva produrre di meglio che la «cattiva infinità» del progresso infinito” [7]. Inoltre Hegel, stabilendo sulla base del lavoro l’interazione uomo-natura, riesce a salvaguardare la specificità delle determinazioni finalistiche dell’uomo, negate o sottovalutate dai pensatori moderni a lui precedenti.

Note:

[1] Lukács, György, Der junge Hegel und die Probleme der kapitalistischen Gesellschaft (1948), Il giovane Hegel e i problemi della società capitalistica, traduz. di Solmi, R., Einaudi, Torino 1975, p. 462.

[2] Ivi, pp. 462-63.

[3] Ivi, pp. 466-67.

[4] Marx, Karl, Opere filosofiche giovanili, traduz. e note di della Volpe, G., Roma, Editori Riuniti 1969, p. 263.

[5] In realtà, Hegel, già durante il soggiorno bernese e quindi ben prima della conoscenza dei testi di economia politica, aveva individuato nel lavoro il medium dell’antitesi tra meccanicismo e finalismo. Cfr. Bodei, Remo, Hegel e l’economia politica; in AA.VV., Hegel e l’economia politica, a cura di Veca, S., Milano, Mazzotta editore 1975, pp. 29-60, in particolare cfr. pp. 29-32.

[6] Cfr. Lukács, G., Il giovane Hegel…, op. cit., pp. 480-81.

[7] Ivi, p. 483.

 

24/08/2023 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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