A parere di Lenin la lotta per la realizzazione dei diritti democratici proclamati, ma spesso traditi dalla borghesia, è essenziale per portare le masse a comprende la necessità della transizione al socialismo. In effetti, fa notare acutamente Lenin, “tutta la ‘democrazia’ consiste nella proclamazione e nell’attuazione di ‘diritti’ realizzati assai poco e assai convenzionalmente sotto il capitalismo, ma il socialismo è inconcepibile senza questa proclamazione, senza la lotta per realizzare questi diritti immediatamente, senza l’educazione delle masse nello spirito di questa lotta” [1]. Al punto che Lenin arriva a sostenere che il socialismo non è concepibile senza democrazia, non solo perché la lotta per la democrazia è propedeutica alla lotta per il socialismo, ma perché sarà possibile estinguere lo Stato solo realizzando in pieno la democrazia. Dunque, per dirla con Lenin: “il socialismo è inconcepibile senza democrazia in due sensi: (1) il proletariato non può realizzare la rivoluzione socialista se non si prepara ad essa con la lotta per la democrazia; (2) il socialismo vittorioso non potrà consolidare la sua vittoria e condurre l’umanità verso l’estinzione dello Stato se non avrà realizzato integralmente la democrazia” [2].
D’altra parte, come ricorda lo stesso Lenin, “dove il proletariato è stato già da molto tempo trascinato nella politica e conduce una politica socialdemocratica, in un tale paese Marx e Engels temevano più di tutto la banalità parlamentare, lo svilimento piccolo-borghese dei compiti dello slancio del movimento operaio” [3]. Tanto più che alle illusioni pacifiste si associano generalmente in Occidente, sottolinea Lenin, i “pregiudizi legalitari, costituzionali, democratici borghesi” [4]. Così si tendono a considerare le crisi sistemiche, in cui si potrebbero aprire scenari rivoluzionari, una “anomalia, mentre ‘Costituzione’ e opposizione parlamentare sarebbero la regola” [5]. In tal modo, anche i sedicenti rivoluzionari finiscono con il dimenticare che l’emancipazione per divenire reale richiede violenza contro chi detiene il potere e lo usa per impedirla. Come osserva Lenin, sottolineando la violenza “seconda” rivoluzionaria, “‘senza violenza contro chi usa la violenza e detiene le armi e gli organi del potere, il popolo non può emanciparsi dai suoi oppressori’” [6]. Del resto, non si può, sottolinea Lenin, non cogliere la differenza fra il capitalismo liberale delle origini in cui relativamente debole era l’apparato burocratico e militare e quello imperialista dove pare necessaria una rivoluzione violenta. In effetti, come nota Lenin, “il capitalismo premonopolistico – il quale aveva toccato il suo apogeo proprio negli anni settanta – si distingueva, in virtù dei suoi tratti economici essenziali, manifestatisi in modo particolarmente tipico in Inghilterra e in America, per un amore relativamente più grande della pace e della libertà. Mentre l’imperialismo, cioè il capitalismo monopolistico giunto a definitiva maturità soltanto nel secolo XX, si distingue, in virtù dei suoi tratti economici essenziali, per un amore assai meno forte della pace e della libertà, per un maggiore e generalizzato sviluppo della casta militare” [7]. Senza contare il valore pedagogico essenziale delle lotte rivoluzionarie. Come osserva Lenin a questo proposito, in riferimento alla conquiste della rivoluzione del 1905, il proletariato ha preso coscienza di essere la classe rivoluzionaria. In effetti, come ricorda Lenin, “con la sua eroica lotta di tre anni (1905-1907), il proletariato russo conquistò per sé e per il popolo russo ciò che ad altri popoli costò decenni di lotta. Conquistò la liberazione degli operai dall’influenza del liberalismo traditore e spregevolmente impotente. Si conquistò la funzione di egemone nella lotta per la libertà, per la democrazia come condizione per la lotta in favore del socialismo. Conquistò per tutte le classi oppresse e sfruttate della Russia la capacità di condurre quella lotta rivoluzionaria di massa senza la quale in nessun luogo al mondo si è mai raggiunto nulla di serio nel progresso dell’umanità” [8].
Per altro Lenin denuncia il parlamentarismo che accentua le differenze sociali e svela natura di classe dello Stato borghese. In effetti, fa notare Lenin, “con la libertà del capitalismo ‘democratico’ le differenze economiche non si attenuano, ma si accentuano e inaspriscono. Il parlamentarismo non elimina ma mette a nudo l’essenza delle repubbliche borghesi più democratiche come organi dell’oppressione di classe. (…) Chi non comprende l’inevitabile dialettica interna del parlamentarismo e della democrazia borghese, che porta a risolvere i conflitti ricorrendo a forme sempre più aspre di violenza di massa, non saprà mai condurre nemmeno sul terreno del parlamentarismo un’agitazione e una propaganda di principio, che preparino realmente le masse operaie a partecipare vittoriosamente a questi ‘conflitti’” [9]. Il fondamento teorico di tale opportunismo pratico è da ricercare nell’assuefazione al piano fenomenico in cui la scena politica è occupata dalle “meschine baruffe dei diversi gruppi e côteries della borghesia” [10], perdendo di vista il fondamento reale della politica nella lotta di classe [11].
Allo stesso modo i socialpacifisti pretendono di ragionare di democrazia in astratto, senza la determinazione storica di classe che la caratterizza, trastullandosi con pseudo-concetti quali “democrazia pura” o persino “presocialista”. Al contrario, come ricorda Lenin, la storia insegna che “fino a che esistono classi diverse, non si può parlare di una ‘democrazia pura’, ma soltanto di una democrazia di classe” [12]; non è, infatti, possibile concepire un’eguaglianza sostanziale, fondamento della democrazia, tra sfruttatori e sfruttati. La democrazia borghese, pur segnando un notevole progresso storico rispetto alle precedenti forme di governo, “non può che rimanere limitata, monca, falsa, ipocrita, un paradiso per i ricchi, una trappola e un inganno per gli sfruttati” [13].
Kautsky, come un liberale, parla di democrazia, senza indicare la differenza specifica di classe che determina il concetto. Come denuncia Lenin: “Kautsky è costretto ad intricare e ad annebbiare il problema, perché egli lo pone da liberale, parlando della democrazia in generale, e non della democrazia borghese; anzi, egli evita persino questo concetto preciso, classista, e cerca di parlare di democrazia ‘presocialista’” [14]. Come mostra Lenin, parlare di democrazia pura va contro il buon senso e la storia e contraddice la teoria marxista dello Stato e della storia. In effetti, “a meno di non prendersi gioco del buon senso e della storia, fino a che esistono classi diverse, non si può parlare di una ‘democrazia pura’, ma soltanto di una democrazia di classe. (Tra parentesi diciamo che ‘democrazia pura’ non è soltanto un’espressione da ignoranti, che rivela l’incomprensione tanto della lotta di classe quanto dell’essenza dello Stato, ma anche una formula tre volte vuota di senso, perché nella società comunista la democrazia, rigenerandosi e trasformandosi in un’abitudine, si estinguerà, ma non diventerà mai una democrazia ‘pura’)” [15]. La democrazia fra i membri della classe al potere non elimina la sostanza di dittatura di classe per le classi che ne sono escluse. Dunque, come sottolinea Lenin, “è naturale che un liberale parli di ‘democrazia’ in genere. Ma un marxista non dimenticherà mai di domandarsi: ‘Per quale classe?’. Tutti sanno, ad esempio, e non lo ignora neanche lo ‘storico’ Kautsky, che le rivolte e persino il grande fermento degli schiavi nell’antichità hanno messo bruscamente a nudo l’essenza dello Stato antico come dittatura dei proprietari di schiavi. Ebbene, distruggeva questa dittatura la democrazia tra i proprietari di schiavi, per i proprietari di schiavi? Tutti sanno che non la distruggeva” [16].
Allo stesso modo, obliando la natura di classe di ogni compagine statuale, i kautskiani si illudono che il fondamento della democrazia (borghese) sia il rispetto della minoranza: “l’erudito signor Kautsky ‘ha dimenticato’ – con tutta probabilità ha dimenticato per caso… – un’‘inezia’, cioè che in una democrazia borghese il partito dominante concede la tutela della minoranza soltanto a un altro partito borghese, mentre al proletariato, in ogni questione seria, profonda, fondamentale, invece della ‘tutela della minoranza’ si concede lo stato d’assedio o il pogrom” [17].
Note:
[1] Vladimir I. U. Lenin, Intorno a una caricatura del marxismo e all’economismo imperialistico [agosto-ottobre 1916], in Id., Contro l’opportunismo di destra e di sinistra e contro il trotskismo, Edizioni progress, Mosca 1978, p. 282.
[2] Ivi, p. 283.
[3] Id., Prefazione all’edizione russa del “Carteggio di J. Ph. Becker, J. Dietzgen, F. Engels, K. Marx e altri con F. A. Sorge e altri” [aprile 1907], in op. cit., p. 76.
[4] Id., L’estremismo malattia infantile del comunismo [aprile-maggio 1920], in op. cit., p. 441. Lenin arriva a sostenere che il legalitarismo genera mostri in quanto sottrae gli aguzzini alla rabbia popolare: “‘Il cadetto è un ideologo del filisteismo proprio perché (…) cercherebbe di trattenere la folla, le consiglierebbe di non trasgredire la legge, di non affrettarsi a liberare le vittime dalle mani del carnefice, operante in nome del potere legittimo. Beninteso, nel nostro esempio un tale filisteo sarebbe un mostro morale, e, in relazione a tutta la vita sociale, la mostruosità morale del filisteo è una proprietà, lo ripetiamo, nient’affatto individuale, ma sociale, condizionata forse dai radicati pregiudizi della giurisprudenza filistea borghese’” Id., Per la storia della questione della dittatura [20 ottobre 1920], in op. cit., p. 480.
[5] Id., Prefazione alla traduzione russa delle Lettere di K. Marx a L. Kugelmann [5 febbraio 1907], in op. cit., p. 56.
[6] Id., Per la storia della questione della dittatura, op. cit., p. 477.
[7] Id., La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky [novembre 1918], in op. cit., p. 389.
[8] Id., Il significato storico della lotta all’interno del partito in Russia [settembre-novembre 1910], in op. cit., p. 126.
[9] Id., Marxismo e revisionismo [aprile 1908], in op. cit. p. 95.
[10] Id., Per la storia della questione della dittatura, op. cit., p. 469.
[11] Il borghese non comprendendo la lotta di classe e riducendo la politica alle schermaglie delle diverse fazioni del partito borghese, vede nella democrazia l’opposto della dittatura, che viene in tal modo ridotta a dispotismo. Come osserva a tal proposito Lenin: “dal punto di vista borghese volgare il concetto di dittatura e il concetto di democrazia si escludono l’un l’altro. Non comprendendo la teoria della lotta di classe, assuefatto a vedere sulla scena della lotta politica le meschine baruffe dei diversi gruppi […] della borghesia, il borghese per dittatura intende l’assenza di ogni libertà e di ogni garanzia democratica, l’arbitrio generalizzato, l’abuso generalizzato del potere nell’interesse personale del dittatore” Ivi, pp. 469-70.
[12] Id., La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky, cit., p. 392.
[13] Ivi, p. 393.
[14] Ibidem.
[15] Ivi, p. 392.
[16] Ivi, p. 385.
[17] Ivi, p. 396.