L'8 settembre del '43 dappertutto gli antifascisti chiedono alle autorità militari di poter combattere, ricevendo quasi ovunque un netto rifiuto. In particolare, fu Roma al centro degli avvenimenti dell'8 settembre: si videro carri armati nelle vie adiacenti il Viminale e il Quirinale e si pensò che l'esercito italiano volesse difendere la città. Ma il mattino dopo si capì che il re e il governo e lo stato maggiore erano fuggiti, (avevano pensato più alla propria sicurezza personale che alla preparazione di una difesa contro la prevedibile reazione tedesca, si misero in salvo per mare riparando in Puglia dietro le linee alleate, mentre la flotta riusciva a raggiungere Malta) e il Comitato delle opposizioni si costituì in Comitato di Liberazione nazionale con Bonomi, Casati, De Gasperi, Ruini, Nenni, Scoccimarro e Lussu. Lo stato maggiore italiano era dunque scomparso; il popolo e l'esercito erano rimasti soli a battersi contro un nemico deciso, che "colmava l'inferiorità numerica con una schiacciante superiorità tattica e una ferrea coerenza direttiva."[1] Il 10 settembre la città si trovava sotto l'attacco tedesco, che, nonostante atti di eroismo, si portò fino a Porta S. Paolo dove trovò la strenua resistenza dei granatieri; nel frattempo i popolani accorsero a dar man forte ai militari e per alcune ore fronteggiarono i tedeschi alla Piramide Cestia e in altri luoghi della capitale. I tedeschi occuparono una Roma semideserta, ma era chiaro a tutti che si chiudeva una fase e se ne apriva un'altra. In ogni caso la resistenza di Roma simboleggiava il tentativo di collegare le forze popolari all'esercito, tentativo che anticipava ciò che la Resistenza avrebbe messo in atto nei lunghi mesi fino al 25 aprile del '45.
Alcuni anni fa, Galli della Loggia sostenne la tesi, sulla base di questi avvenimenti, della "morte della patria". Il suo ragionamento muoveva da un'impostazione fortemente ideologica: l'anomalia italiana, il "caso italiano", che aveva visto nel secondo dopoguerra la forte presenza dei comunisti e l'incapacità-impossibilità della borghesia italiana rappresentata dalla DC di costruire una vera "democrazia occidentale", che non aveva visto la luce proprio per la presenza dei comunisti.
Del resto, le argomentazioni di Galli della Loggia si inserivano in un filone storiografico che ha teorizzato aggressivamente, e ancora teorizza, posizioni ben precise: è vero che l'Italia monarchica e fascista non era la patria dei cittadini, bensì quella dei sudditi, ma era l'unica patria esistente e facilmente riconoscibile da tutto il popolo. Ma la "tragedia" dell'8 settembre, la dissoluzione dell'esercito, il tradimento con la fuga del re, la viltà degli alti comandi, la doppia umiliazione inflitta all'Italia dai tedeschi e dagli alleati, costrinsero gli italiani a cercarsi una nuova patria: "la patria antifascista nata dalla Resistenza", ricorrendo più al mito che alla realtà.[2] Pertanto, l'antifascismo non aveva alternative: doveva essere continuamente richiamato (ostentato?) come principale fondamento della Repubblica, come unico referente etico-politico.
Dunque: la nazione in Italia è stata il prodotto dello Stato unitario (monarchico) che giunse, tra alti e bassi, ai famosi quarantacinque giorni (25 luglio-8 settembre). Lo Stato si sfasciò, finì la nazione e di conseguenza la patria che ne rappresentava il riflesso, secondo Della Loggia, "ideologico-emotivo"; lo Stato scomparve a motivo della sconfitta bellica, ma la sconfitta fu causa, prodotto e manifestazione di qualcosa di ben più grave: "di una paurosa debolezza etico-politica (secondo l'espressione che Renzo De Felice è stato uno dei pochi ad adoperare) degli italiani."[3]
È da contestare l'idea che la nazione italiana sia il prodotto dello Stato unitario risorgimentale: non si dà Stato che non abbia a fondamento la nazione e, viceversa, una nazione che non "produca" lo Stato, almeno per tutta la fase storica segnata dalla modernità. La fine dello Stato monarchico-fascista non significò la scomparsa della nazione italiana; anzi, si manifestò una nazione più matura, consapevole e avanzata che manifestava il bisogno di trovare corrispondenza adeguata con forme statuali più avanzate: la Repubblica che sorgerà dopo la guerra di liberazione su basi politiche democratiche e di massa, cioè completamente nuove rispetto a quelle che si era dato il vecchio Stato monarchico-liberale (ricordiamo che la proclamazione del regno d'Italia aveva significato l'esclusione delle masse popolari e l'autoesclusione dei cattolici) e monarchico-fascista.
È corretto, pertanto, parlare di nazione fondata dalla Resistenza antifascista, soprattutto perché i comunisti, principali artefici della guerra di liberazione, si assunsero una funzione nazionale, in un rapporto dialettico con il quadro internazionale, durante e dopo la guerra e vollero sempre salvaguardare il fondamento unitario di quel passaggio storico-politico, basti pensare alla "svolta di Salerno" nella primavera del '44.
Alcune precisazioni sull'impegno degli italiani tra il '43 e il '45. Si dice spesso che gli italiani impegnati nella lotta furono una minoranza, e quella lotta, comunque, riguardò soprattutto, o quasi esclusivamente, l'Italia centro-settentrionale. Chi sostiene questa tesi forse non sa che l'impegno politico serio e continuativo è sempre di gruppi ristretti rispetto alla totalità della popolazione: ad esempio, nella Francia rivoluzionaria non più di un decimo della popolazione partecipò agli avvenimenti che presero le mosse nell'Ottantanove. Anzi, nel periodo resistenziale si deve rilevare che il numero dei militanti fu piuttosto elevato. Ma oltre ai militanti ci fu l'azione della popolazione che oppose ai nazifascisti una quasi unanime resistenza passiva; la solidarietà straordinaria che circondava i soldati fuggiaschi dopo l'8 settembre e che rappresentava l'inizio della 'resistenza passiva'. La guerra di liberazione sarebbe stata impraticabile senza il favore delle popolazioni, che fecero fallire, peraltro, i tentativi di reclutamento della RSI: infatti, su tredicimila nostri soldati deportati in Germania e poi arruolatisi 'volontari' come SS italiane, ben diecimila scomparvero nel momento in cui tornarono in patria. Ancora: gli stessi fascisti riconobbero l'importanza della resistenza passiva degli italiani, come dimostrano le parole del maresciallo Graziani (comandante delle forze armate della RSI): "Praticamente il governo della RSI controlla, e solo fino a un certo punto, la fascia piana a cavaliere del Po; tutto il resto è virtualmente in mano dei cosiddetti ribelli, che riscuotono il consenso di larghi strati della popolazione".
Dunque, la Resistenza vide quella partecipazione popolare che era mancata nel Risorgimento, un'insurrezione popolare mossa dalla coscienza nazionale contro un esercito potente; insurrezione unitaria e nazionale per la conquista delle libertà democratiche, per realizzare profonde riforme politiche e sociali.
Note:
[1] L. Longo, “Un popolo alla macchia”, Editori Riuniti, 1974, pag.52
[2] Su questi argomenti cfr. E. Aga Rossi, op. cit. e R. Gobbi "Il mito della Resistenza", Rizzoli, Milano, 1992
[3] E. Galli della Loggia, “La morte della patria”, Laterza, Roma-Bari, 1996, pag 5