Il concetto di reificazione era stato completamente trascurato, perché incompreso, dai teorici della II Internazionale, evidentemente a causa della ricezione di Karl Marx in chiave positivistica, sorretta da quel metodo scientista che viene aspramente criticato da György Lukács. Con quest’ultimo tale concetto acquista dignità di considerazione teorica e riprende quel posto di primaria importanza che effettivamente occupa nel pensiero di Marx. Il giovane Lukács è il primo ad averne colto il ruolo decisivo, e il suo merito appare ancora più straordinario se si pensa che negli anni Venti non erano ancora conosciuti né i Grundrisse, né i Manoscritti parigini del ’44.
La scoperta di Lukács ha fatto epoca nella storia delle interpretazioni di Marx e si può ben affermare che tutto il dibattito marxista del ’900 ha avuto come referente – in modo diretto o indiretto, a fini polemici e non – Storia e coscienza di classe.
Nel ricostruire il concetto di reificazione, Lukács si collega ai due luoghi del Capitale, dove Marx affronta tale questione: il capitolo III del libro sulla “formula trinitaria” e il capitolo I del primo libro su il “carattere di feticcio della merce e il suo arcano”. Nelle pagine sulla “formula trinitaria”, Marx si riconduce al fenomeno del feticismo elaborato all’inizio dell’opera, ma ora a proposito del processo di produzione interamente dispiegato, in unità con la sfera della circolazione e della distribuzione della ricchezza sociale. Ciò che nell’analisi della merce, come cellula della società, appariva in nuce [1], adesso – a livello dell’organizzazione complessiva della società articolata nelle classi fondamentali – appare nella sua piena effettualità. Il rovesciamento reale di soggetto e oggetto, la personificazione delle cose e la cosificazione delle persone, questo mondo stregato, che sussiste sul fondamento del dominio capillare della forma-merce, è concepito come “naturale” dagli economisti, allo stesso modo in cui è vissuto come “normale” dagli agenti della produzione.
La “formula trinitaria”, secondo la quale il capitale è la fonte del profitto, la terra della rendita e il lavoro del salario, “corrisponde al tempo stesso all’interesse delle classi dominanti, in quanto essa proclama la necessità naturale e l’eterna giustezza delle loro fonti di entrata e le eleva a dogma” [2].
Tale apparenza necessaria, oltre la quale l’economia borghese non procede, nasconde l’essenza storica e sociale del capitale: “Capitale, terra, lavoro! Ma il capitale non è una cosa, bensì un determinato rapporto di produzione sociale, appartenente ad una determinata formazione storica della società. Rapporto che si presenta in una cosa e dà a questa cosa un carattere sociale specifico. Il capitale è costituito dai mezzi di produzione trasformati in capitale, che non sono di per sé capitale, come oro e argento non sono di per sé denaro” [3].
Lukács, cogliendo la connessione organica tra l’inizio e la fine de Il capitale, ha individuato nello svelamento dell’arcano della merce la chiave per la comprensione della società capitalistica nella sua interezza; dal momento che la forma-merce è pervasiva di tutti i suoi aspetti particolari: “il problema della merce non appare soltanto come problema particolare e neppure semplicemente come problema centrale dell’economia intesa come scienza particolare, ma come problema strutturale centrale della società capitalistica in tutte le sue manifestazioni di vita. Soltanto in questo caso infatti si può scoprire nella struttura del rapporto di merce il modello di tutte le forme di oggettualità e di tutte le forme ad esse corrispondenti della soggettività nella società borghese” [4].
Con ciò si attua il superamento del determinismo economico del marxismo volgare, basato sul rapporto meccanicistico di struttura e sovrastruttura: l’ideologia borghese non viene giustapposta alle condizioni economiche della società, ma ne è l’espressione che esplicandosi ne perpetua la vigenza.
Nella prima sezione del saggio sulla reificazione, Lukács ne analizza le manifestazioni oggettive e le relative forme ideologiche.
Anzitutto il feticismo delle merci è un fenomeno specifico del capitalismo, dovuto al generalizzarsi dello scambio e dallo svincolarsi del valore rispetto al valore d’uso. Con il prevalere dell’equivalente generale astratto, la produzione, che nelle società preborghesi era finalizzata al valore d’uso, muta completamente segno: il valore d’uso, l’aspetto qualitativo e concreto sensibile della merce atto a soddisfare determinati bisogni umani si trasforma in mezzo e semplice veicolo della realizzazione del valore astratto, che diventa così dominante. Fondamento di tutto ciò è l’avvenuta mercificazione del lavoro umano; spogliato dalle sue caratteristiche particolari, appare come lavoro formalmente uguale e, funzionando da denominatore comune delle merci, “si trasforma in principio reale dell’effettivo processo di produzione delle merci” [5]. Il lavoro astratto, risultato e presupposto insieme dello sviluppo del capitalismo, “si trasforma in una categoria sociale capace d’influire in maniera determinante sulla forma di oggettualità sia degli oggetti come dei soggetti della società che così ha origine, del riferirsi di questa società alla natura, dei rapporti degli uomini tra loro in essa possibili” [6].
Ne discende la razionalizzazione del processo lavorativo che, tramite la specializzazione crescente e la parcellizzazione delle funzioni, separa il lavoratore dalle sue proprietà qualitative. Il lavoro, quantificato secondo il tempo socialmente necessario, diventa oggettivamente misurabile allo stesso modo in cui le capacità del lavoratore vengono strappate dalla sua personalità complessiva, per essere obiettivate e quantificate. Secondo Lukács, il calcolo, come principio della razionalizzazione, non sarebbe possibile senza la scomposizione del processo lavorativo: la divisione del lavoro, lo specialismo, lo scindersi del sistema complessivo nei suoi elementi rappresentano condizioni necessarie per la funzione semplicemente strumentale della ragione calcolistica. In questo sistema, in cui il prodotto finito è il risultato dell’accidentalità di operazioni parziali, il lavoratore non domina più il processo di produzione, ma ne è da esso dominato, non dirige ma è diretto: “egli viene invece inserito come una parte meccanizzata in un sistema meccanico, un sistema che egli trova bell’e pronto di fronte a sé e che funziona in piena indipendenza da lui secondo leggi alle quali egli si deve adeguare senza far intervenire la propria volontà” [7].
Con la subordinazione alla macchina scompare ogni aspetto qualitativo della vita. Il tempo quantificato, quale misura del valore, si presenta come espropriato ed espropriante e l’uomo, da soggetto possessore, si trasforma in oggetto da esso posseduto. Ciò che vige all’interno della fabbrica informa di sé la struttura sociale e investe l’intera vita di relazione del lavoratore. Egli, particella inserita in un sistema estraneo, non può intessere rapporti organici immediati con gli altri individui; la loro relazione è vieppiù mediata dalle leggi astratte del meccanismo che li trascende, il che, individualmente, rafforza la loro impotenza e li irrigidisce nell’atteggiamento contemplativo.
È questa la base reale del fenomeno della reificazione e della sua apparenza necessaria, nella quale resta impigliata la coscienza borghese. A essa non sfuggono neanche coloro che hanno affrontato il fenomeno in questione con spregiudicatezza e sincera volontà di comprenderlo. Tra costoro Simmel, il quale, conscio degli effetti della reificazione, ne La filosofia del denaro (1900) ne ha descritto le forme esteriori colte nella loro immediatezza, senza tuttavia penetrarle nel loro fondamento economico e rendendole così forme eterne delle relazioni umane: “persino pensatori che non intendono affatto negare od occultare il fenomeno della reificazione e che si sono più o meno resi conto chiaramente dei suoi effetti umanamente disastrosi, nel condurre le loro analisi si arrestano alla immediatezza della reificazione, senza compiere alcun tentativo di penetrare sino al fenomeno originario della reificazione a partire dalle forme oggettivamente più distanti e lontane dall’effettivo processo di vita del capitalismo, che sono quindi quelle più esterne e vuote. Anzi, essi separano queste vuote forme fenomeniche dal loro naturale terreno capitalistico, rendendole autonome ed eterne come tipi atemporali di possibili relazioni umane in generale” [8].
Riprendendo le analisi weberiane, Lukács procede ad analizzare l’incidenza della razionalizzazione in tutte le sfere della società. Diritto, amministrazione, ecc. risultano divisi in settori specialistici e obbediscono alla loro rispettiva legalità formale, di fronte alla quale gli individui svolgono semplicemente il compito di regolazione e di calcolabilità di dati e di eventi. Dal lato oggettivo si accentua il distacco dalle qualità materiali delle cose, poiché tutto è funzionalizzato al mantenimento dell’apparato in quanto tale, regolato da leggi necessarie che non sopportano l’intervento “arbitrario” dell’uomo; dal lato soggettivo si assiste allo “incremento ancora più mostruoso dell’unilaterale specializzazione nella divisione del lavoro, che fa violenza all’essenza umana dell’uomo” [9].
Note:
[1] “L’arcano della forma della merce consiste dunque semplicemente nel fatto che tale forma rimanda agli uomini come uno specchio i caratteri sociali del proprio lavoro trasformati in caratteri oggettivi dei prodotti di quel lavoro, in proprietà sociali naturali di quelle cose, e quindi rispecchia anche il rapporto sociale tra produttori e lavoro complessivo come un rapporto sociale di oggetti, avente esistenza al di fuori dei prodotti stessi. Mediante questo quid pro quo i prodotti del lavoro diventano merci, cose sensibilmente sovrasensibili cioè cose sociali”. Marx, Karl, Il Capitale, a cura di D. Cantimori, R. Panzieri, M.L. Boggeri, Roma, Editori Riuniti 1970, vol. I, pp. 85-86.
[2] Ivi, vol. III, p. 243.
[3] Ivi, vol. III, pp. 225-26.
[4] Lukács, György, Storia e coscienza di classe [1923], traduz. di G. Piana, introduz. di M. Spinella, Milano, SugarCo Edizioni 1967, p. 107.
[5] Ivi, p. 113.
[6] Ibidem.
[7] Ivi, p. 116.
[8] Ivi, p. 123.
[9] Ivi, p. 128.