La settimana scorsa, la Manchester Art Gallery ha deciso di rimuovere un bellissimo dipinto di John William Waterhouse, uno dei più famosi pittori preraffaelliti di fine 800. Il quadro, rimosso dalle pareti e persino dal bookshop del museo, ritrae il mito di Ila e le Ninfe, nel momento in cui le giovanissime Ninfe rapiscono il giovane amato da Eracle, trascinandolo nel fiume con loro.
Al posto del quadro, è stato esposto un avviso che spiega che l'intento non è promuovere la censura ma stimolare il dibattito. I visitatori possono lasciare dei post-it sulla parete con le proprie considerazioni. L'intento non sarà censorio, ma il quadro ora è in cantina e non si sa fino a quando ci resterà. Più censura di così!
Il punto, poi, è che la curatrice ha tirato in ballo il movimento di #metoo a sostegno della sua decisione. Non si capisce francamente se il punto sia la nudità quasi adolescenziale delle Ninfe o l'uso decorativo del corpo delle donne da parte del pittore preraffaellita. La curatrice ha fatto riferimento anche a una più generale visione del corpo delle donne nell'arte, frutto di come gli artisti maschi hanno inseguito e rappresentato la bellezza.
Non so, a me pare soltanto una maldestra operazione di marketing. Ridicola, prima di tutto. Perché sceglie di accanirsi su un quadro di rara grazia e bellezza, che ritrae uno dei pochissimi miti in cui non sono le donne a essere le vittime, ma un uomo. E in secondo luogo, se escludiamo il presidente dell'Iran, quello che due anni fa fece coprire le statue per la sua visita ai Musei Capitolini, c'è davvero qualcuno che pensa che il corpo nudo nell'arte sia offensivo e lesivo della libertà e della autodeterminazione delle donne?
Un conto è dire che la storia dell'arte ha escluso le donne, marginalizzandole e trascurandole ingiustamente. Verissimo. Sempre, anche nel 900 e anche quelle più straordinarie e comunque conosciute. Frida Kahlo, Berthe Morisot, Tamara de Lempiska, Kathe Kollwitz, Natalja Goncharova, soltanto per dirne alcune, a stento compaiono nei manuali. Altro è coprire o nascondere i nudi femminili.
Che ne sarebbe della storia dell'arte se cancellassimo l'Afrodite di Prassitele. Non ci sarebbe stato il Rinascimento senza la Cacciata dall'Eden di Adamo e Eva di Massaccio. Né l'arte contemporanea senza Le Grandi bagnati di Cezanne e Les Damoiselles d'Avignon di Picasso. Vogliamo nascondere anche l'Olympia di Manet? Figurati Le Déjeuner sur l'herbe, dove la donna posa nuda accanto a uomini vestiti di tutto punto. Per la stessa ragione, più indietro, La tempesta di Giorgione. Ma allora copriamo anche la Venere di Tiziano e l'Amor sacro e l'amor profano. Persino la Fornarina di Raffaello e la Nascita di Venere di Botticelli. Tutto il barocco e Schiele, Toulose Lautrec, Kokoschka. E che scandalo le donne alla toilette di Degas o il Bagno Turco di Ingres. Per non parlare della Origine du monde di Courbet. Insomma, facciamo prima a dire che chiudiamo i Musei e bruciamo i libri di storia dell'arte.
Oltre che ridicola, la decisione è poi grave, per due ragioni. La prima è che autorizza e legittima la censura dell'arte. Nel mondo che vorrei, gli artisti dovrebbero essere totalmente indipendenti, perfino un po' anarchici, come sostenevano Trotskji e Breton. E l'arte gratuita e fruibile a tutti. Una delle prime decisioni che prese il governo rivoluzionario del 1917 fu di trasferire la collezione d'arte di Caterina II al Museo di Stato di Leningrado. Oggi, quella stessa collezione, si visita pagando il biglietto del Museo dell'Hermitage, tornato, come un tempo, nel Palazzo d'Inverno.
Ma aldilà di questo, pur prendendo atto che, come qualsiasi altra cosa in una società capitalistica, la produzione e la fruizione dell'arte sono sottoposte al mercato, chi decide cosa è fruibile e cosa invece va nascosto? Può davvero la curatrice dell'Art Gallery di Manchester far calare la scure del suo giudizio inquisitorio e vagamente moralista su Waterhouse e chiuderlo nel sottoscala? Senza azzardare paragoni ingrati, ricordo che una delle più grandi opere di censura dell'arte fu perpetrata dalle dittature europee contro le avanguardie artistiche del 900. Nella migliore delle ipotesi, nascondendo i quadri nelle soffitte dei musei, nella peggiore distruggendole e condannando gli artisti all'inattività, alla galera o persino alla pena di morte. Insomma, ci andrei piano a legittimare qualsiasi operazione censoria.
In secondo luogo, la decisione è grave perchè tira in ballo #metoo, che con le Ninfe di Waterhouse non c'entra proprio niente. La curatrice dell'Art Gallery strumentalizza una delle poche cose buone di questi ultimi mesi, un movimento collettivo e internazionale che sta permettendo a molte donne di trovare il coraggio di denunciare le molestie sui posti di lavoro. Nel cinema, certo, ma via via speriamo anche negli ospedali, nelle fabbriche, nei supermercati e ovunque le donne siano vittime di rapporti di potere e subalternità nei confronti di capi maschi. Associare la censura di Ila e le Ninfe con #metoo significa alludere, nemmeno tanto sotterraneamente, a un presunto carattere moralista e moralizzante del movimento stesso. Questo è profondamente ingiusto e sbagliato. A me non ha mai appassionato discutere di morale. Chi vuole farlo, lo faccia pure. Ma non confondiamo la morale con la denuncia delle molestie, perché non c'entra proprio niente e serve solo a depotenziare un movimento di lotta e autodeterminazione delle donne.
La Art Gallery trovi, insomma, un modo migliore per farsi pubblicità.