In occasione del 40esimo anniversario della barbara uccisione proponiamo una riflessione sul grande intellettuale italiano, “eretico” per eccellenza nel panorama culturale italiano dominato da conformismo, provincialismo, bigottismo, e sul suo rapporto con il comunismo, in una visione poetico-politica del mondo che appare totalmente contemporanea.
di Lelio La Porta
La morte di Pasolini: uno dei momenti di maggior tristezza e di rabbia autentica per chi militava a sinistra o, comunque, in senso lato, aveva a cuore le sorti della cultura nel nostro paese (e per questo stava a sinistra ieri e a sinistra sta oggi). Chi lo avrebbe visto con piacere arrostire in Campo de’ Fiori come Giordano Bruno o, meglio ancora, avrebbe desiderato fargli indossare la mordacchia, ancor prima di spedirlo al rogo, dimenticava tutto. Facile sottrarre ad un’appartenenza comunista un uomo che aveva visto morire il fratello nell'eccidio di malga Porzûs, compiuto dai gappisti di "Giacca", presumibilmente su ordine del comando del IX Corpo jugoslavo, e che aveva avuto il padre salvatore di Mussolini dalle mani dell’attentatore (o meglio, presunto tale) Zamboni. E poi non era stato espulso dal PCI per “indegnità morale”?
Purtroppo per costoro, è noto cosa Pasolini pensasse in genere dei padri e cosa, soprattutto, pensasse e scrivesse della morte del fratello. A tale proposito rimane la risposta ad un lettore che lo incalzava sulla questione: dopo aver brevemente contestualizzato la fine di Guido (questo era il nome del fratello) nella situazione delle terre fra Italia e Jugoslavia durante il periodo 1943-45 (è il periodo delle foibe, tanto per intenderci), così concludeva lo scrittore: “Che la sua morte sia avvenuta così in una situazione complessa e apparentemente difficile da giudicare, non mi dà nessuna esitazione. Mi conferma soltanto nella convinzione che nulla è semplice, nulla avviene senza complicazione e sofferenze: e che quello che conta soprattutto è la lucidità critica che distrugge le parole e le convenzioni, e va a fondo nelle cose, dentro la loro segreta e inalienabile verità”[1].
La verità, ancora e sempre la verità: “Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero” [2].
Il grande intellettuale si riferiva all’Italia martoriata dalle stragi fasciste e dai tentativi di colpo di Stato. Lo avremmo volentieri visto oggi nel corso di un dibattito riprendere le sue provocatorie tesi su un fascismo sempre più autobiografia della nazione, molto più reale oggi, nella sua logica cinicamente antidemocratica, di quanto non lo fosse trent’anni fa (ossia ai tempi di quello che veniva definito il sistema di potere democristiano). Ci sarebbe piaciuto sentirlo mettere in rima omologazione con globalizzazione, conformismo con renzusconismo; con il suo coraggio e la sua autorevolezza.
Ecco, il coraggio: dire ciò che è, sempre e dovunque. “La cosa più dura è scoprire quello che già si sa”, scriveva Elias Canetti. Questa è la dimensione in cui collocare Pasolini, definito da Asor Rosa “nostro impolitico profeta”. Impolitico è colui che rifiuta, magari soltanto per via estetica, come sembra essere per Pasolini, lo stato di cose presente. Ma già in questo c’è un atteggiamento così totalmente marxista da anticipare ogni possibile forma di una scelta altrettanto totalmente politica: quella scelta che il poeta pagò con il martirio.
È sulla dimensione di Pasolini poeta che questo ricordo vuole tentare di soffermarsi. La letteratura pasoliniana, in specie la poesia, trova un suo momento particolare nel poemetto intitolato “Le ceneri di Gramsci”. Non si può dimenticare, scrivendone, quell’immagine del poeta davanti l’urna contenente le ceneri di Gramsci nel Cimitero acattolico alla Piramide Cestia di Roma. All’epoca dello scatto, l’urna cineraria era in un luogo diverso da quello in cui si trova oggi: oggi è a ridosso del muro di cinta del Cimitero, verso Testaccio; all’epoca era più all’interno. Pasolini, impermeabile chiaro, mani affondate nelle tasche, guarda assorto l’urna. Non so cosa pensasse. Forse, più semplicemente, pensava quello che i suoi versi avrebbero mirabilmente fatto nostro e reso un tutto con il nostro essere comunisti. Fors’anche voleva trarre auspici da quell’urna, come un secolo e mezzo prima di lui aveva fatto Ugo Foscolo con le urne dei grandi italiani sepolti in Santa Croce a Firenze! E quando il poeta di Zacinto fa riferimento al pallore quasi mortale di Alfieri davanti a quelle urne, raffigurandolo nell’empito della speranza per le sorti future di un’Italia ancora da fare, allo stesso modo il poeta friulano (ma romano, nello spirito e nel corpo) cercava di trovare nell’urna di Gramsci, adornata dallo straccetto rosso che i partigiani portavano al collo, le stesse speranze in un’Italia liberata dal fascismo, in marcia verso la realizzazione della democrazia, pronta a fare tesoro di una secolare storia.
Era il 1954 (la raccolta di poemetti che ha come titolo “Le ceneri di Gramsci” sarà pubblicata nel 1957). L’anno prima era morto Stalin ed era stato firmato l’armistizio in Corea. Eisenhower era diventato Presidente degli Stati Uniti e Scelba Presidente del Consiglio. Ad agosto era scomparso De Gasperi. La DC aveva avviato la cosiddetta operazione Togni che prevedeva un attacco legalizzato dal Consiglio dei ministri contro il Pci che si sarebbe dispiegato fra lo sfratto delle Case del popolo, il trasferimento di pubblici funzionari, la sospensione di sindaci e amministratori, il recupero di 158 proprietà demaniali occupate da strutture del Partito. E Pasolini scriveva, rivolgendosi a Gramsci:
“Tra speranza/e vecchia sfiducia, ti accosto, capitato/per caso in questa magra serra, innanzi/alla tua tomba, al tuo spirito restato/quaggiù tra questi liberi/…E, da questo paese da cui non ebbe posa/la tua tensione, sento quale torto/ - qui nella quiete delle tombe - e insieme/quale ragione- nell’inquieta sorte/nostra - tu avessi stilando le supreme/pagine nei giorni del tuo assassinio”.
Il poeta comprende l’epocalità della riflessione gramsciana, quasi ne sottolinea il tempo eterno dello svolgimento individuando nelle pagine dei Quaderni, realizzate nel torto di un lungo assassinio perpetrato dal fascismo, il luogo della manifestazione dell’inquietudine di un mondo intero, di un paese intero, di un popolo intero. Ma questa consapevolezza della storicità del pensiero di Gramsci crea nel poeta una contraddizione:
“Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere/con te e contro te; con te nel cuore,/in luce, contro te nelle buie viscere”.
Lo scandalo del borghese che sente di essere schierato dalla parte del proletario pur non appartenendo a quella classe sociale. Lo scandalo di sentirsi dalla parte delle lotte degli sfruttati per la loro emancipazione e di vivere in una condizione che non è la condizione sociale degli sfruttati. E dopo una serie di meravigliose terzine dedicate alla riflessione sui sepolti nel cimitero della Piramide e alla descrizione del magico ambiente di Testaccio nel quale è come adagiato il cimitero stesso, il poeta arriva alla conclusione:
“…Ma io, con cuore cosciente/di chi soltanto nella storia ha vita,/potrò mai più con pura passione operare,/se so che la nostra storia è finita?”
Appare lo sconforto di chi quasi recalcitra davanti alla storia, al punto di volersi da essa dimettere e dalle sue angosce, al punto di porsi la domanda in forma autoassolutoria: la consapevolezza che la nostra storia è finita. Eppure si tratta dello stesso poeta che, appena cinque anni più tardi, scriverà un’ode alla bandiera rossa:
“Per chi conosce solo il tuo colore, bandiera rossa,/tu devi realmente esistere, perché lui esista:/chi era coperto di croste è coperto di piaghe,/il bracciante diventa mendicante,/il napoletano calabrese, il calabrese africano,/l’analfabeta una bufala o un cane./Chi conosceva appena il tuo colore, bandiera rossa,/sta per non conoscerti più, neanche coi sensi:/tu che già vanti tante glorie borghesi e operaie,/ridiventa straccio, e il più povero ti sventoli.”
“La religione del mio tempo”, da cui il brano è tratto, è del 1961. Le parole rivelano una dimensione prospettica di non poco conto ma, soprattutto, un accoramento e un appassionamento poetico-politico. Lo stesso che Pasolini rivelerà nel corso di un’assemblea di giovani ed intellettuali svoltasi a Roma il 6 giugno 1975 (pochi mesi prima del suo martirio): “… so che in questo paese non nero ma solo orribilmente sporco c’è un altro paese: il paese rosso dei comunisti. In esso è ignota la corruzione, la volontà di ignoranza, il servilismo. E’ un’isola dove le coscienze si sono disperatamente difese: e dove il comportamento umano è riuscito a conservare l’antica dignità. La lotta di classe non sembra più contrapporre rivoluzionari e reazionari, ma, ormai, quasi uomini appartenenti a razze diverse. Voto comunista perché questi uomini diversi che sono i comunisti continuino a lottare per la dignità del lavoratore oltre che per il suo tenore di vita…” [3]. E’ un invito quasi programmatico per la rifondazione del Partito comunista che proviene da una delle voci più alte e assolutamente e totalmente contemporanee della poesia civile italiana.
NOTE
[1] Mio fratello in Pier Paolo Pasolini, Le belle bandiere, Editrice l’Unità, Roma 1991, p. 112.
[2] 14 novembre 1974, Il romanzo delle stragi in Scritti corsari, pubblicato sul Corriere della sera con il titolo Che cos’è questo golpe?
[3] Pier Paolo Pasolini, Il mio voto al Pci in «l’Unità», 10 giugno 1975, ora in id., Saggi sulla politica e sulla società, Arnoldo Mondadori, Milano 1999, p. 852