Una conferma, seppure estrinseca, dell’ideale continuità tra Teoria del romanzo e il progettato libro su Dostojevskij è data dal giudizio di György Lukács sullo scrittore russo come non autore di romanzi, che chiude Teoria del romanzo e che ricorre in apertura del Manoscritto-Dostojevskij. Anche in quest’ultimo – nel quale traspare l’intenzione della fondazione della seconda etica – filosofia della storia ed etica si contrappongono secondo uno schema dicotomico che contempla, da una parte, la sfera dello spirito oggettivo (lo Stato) e, dall’altra, lo spirito assoluto, la sfera dell’anima.
Lo sviluppo dello spirito oggettivo si dipana secondo un andamento di progressiva depravazione, che ha al proprio culmine la formazione dello Stato. L’intero movimento è definito da Lukács con il termine jehoviano [1], contrastato nella sua realizzazione dal luciferino, che incarna lo spirito di resistenza e di ribellione ed esprime l’aspirazione alla liberazione e alla redenzione possibile. Chiesa e Stato sono identificati nello spirito oggettivo, quali istituzioni storiche cristallizzate del jehoviano.
È una costruzione storico-filosofica modellata su quella hegeliana, ma con segno rovesciato. Ciò che in Hegel è progressiva conquista da parte dello spirito della coscienza di sé e della libertà, a Lukács, il quale guarda la storia dalla prospettiva della catastrofe del proprio tempo (la guerra mondiale), il processo storico appare come il trionfo del male: “l’astuzia della ragione” hegeliana si converte nell’ “astuzia di Satana”. Una sostanziale affinità di vedute può invece essere rilevata tra il giovane Hegel e Lukács. Mi riferisco agli Scritti teologici giovanili, in cui Hegel, volendo comprendere con atteggiamento storico-pensante la propria epoca uscita dalla Rivoluzione francese, aveva indagato sull’origine del destino di scissione del mondo moderno, individuandola nel passaggio dalla religione greca alla religione cristiana e nella positivizzazione di quest’ultima, al di là delle intenzioni del suo fondatore. Analogamente, Lukács fa iniziare la storia della depravazione con l’obiettivizzazione del Cristo, ovvero con la nascita della Chiesa militante. Questa prima fase coincide con l’attività di Paolo: “Paolo come unità di conservatore e rivoluzionario, con accentuazione del primo [...], ma in Paolo [...] ciò è soltanto «assegnazione e sottomissione ai rapporti di forza dati, peraltro creati da Dio e fondati nel peccato secondo i moduli del peccato [...]. Ciò può essere sociologicamente importante: dal punto di vista metafisico significa l’accettazione di Jehova [...]. Il sorgere della predestinazione [...] è propriamente la rinuncia all’esigenza utopica [...]. La tendenza non antijehoviana del cristianesimo emerge nel fatto che pur mettendo in relazione la proprietà, la Stato ecc. col «peccato», si raccomanda tuttavia di sottomettersi a questo ordine delle cose... Così lo Stato non solo diviene conseguenza del peccato, ma anche rimedio contro di esso [...]. Deve essere effettivamente accettato e – a posteriori – motivato [...] qui il jehoviano del Dio irrazionale-effettivo contrapposto al metarazionale-paracletico; quindi – parallelamente alla Grecia – necessità di una nuova polis luciferina (la Chiesa)” [2] .
Con la seconda fase siamo alla realizzazione della nuova polis, la Chiesa secondo la concezione agostiniana della civitas dei. La polemica contro lo Stato pagano conduce alla istituzione dello Stato cristiano fondato sulla giustizia. Contro i princìpi di giustizia del jehoviano, che richiedono l’osservanza dei diritti e dei doveri, Lukács richiama il principio superiore della bontà, già predicato da Gesù nel Discorso della montagna: “Categorie della seconda etica Giustizia V.G. VII, Notanda IV. Giustizia non appare. (Aglaja e Liza in Dostoevskij Amleto a Polonio. Il sermone della montagna solleva – nonostante contro... – la giustizia per mettere a suo posto la bontà). Molto forte in Matteo. V. 38-40. Anche “non giudicate...” VII sgg. sopprime la giustizia. Metafisicamente l’intero destino della teodicea (e del suo pendant) dipende dal fatto se alla giustizia debba essere attribuito una valenza sostanziale (Stahls). La giustizia è un’idea comune alla teologia e al diritto II. 162 [3].
La polemica di Lukács coinvolge il concetto di giustizia in Marx, a dire il vero fraintendendo la vera concezione di costui al riguardo [4], ma colpendo nel segno per quanto riguarda la concezione della socialdemocrazia del tempo: “Rifiuto della «giusta distribuzione» di Marx ... L’appropriazione del plusvalore non è dunque né ingiusta (né) immorale... Giustizia: antinomia a) giuridica: giustizia nella legislazione e nell’applicazione: contraddizione intima (marxistica) b) metagiuridica (priva di contenuto) (N. 56)” [5].
La terza fase corrisponde all’idea luterana dello stato, secondo l’ottica delle masse contadine eretiche guidate da Müntzer, le quali rappresenterebbero, con la loro ribellione, il momento di contrasto nella storia della depravazione.
Nella quarta e ultima fase, il processo di secolarizzazione del jehoviano sfocia nell’idealismo tedesco. Dalla concezione fichtiana dello Stato commerciale chiuso che ingloba in sé la nazione, si passa a Hegel, nella cui filosofia lo Stato finisce per assorbire la dimensione etica con il risultato della “consacrazione dell’esistente”. Molto opportunamente F. Fehér cita nel suo saggio sull’anticapitalismo romantico questo passo lukacciano del Manoscritto Dostojevskij: “la possibilità di riconoscere la vera struttura dello spirito oggettivo deve essere data dalla filosofia della storia; qui sta l’importanza di Marx” [6].
È una affermazione preziosa, non solo per l’indicazione ivi contenuta del futuro cammino di Lukács in direzione del marxismo, ma anche perché viene profilandosi una riduzione dello iato tra etica e filosofia della storia. Quest’ultima assurge a strumento teorico privilegiato in quanto in grado di penetrare nell’essenza delle oggettivazioni storiche, dando l’avvio al superamento della rigida dicotomia tra soggetto e oggetto – tenuti separati nelle rispettive sfere spirituali, quella storica (lo spirito oggettivo) e quella assoluta (l’anima) – in vista dell’unità teoria-prassi. In Lukács si fa strada la consapevolezza che l’etica, per poter incidere effettivamente sull’esistente, deve convertirsi in prassi reale sorretta da una teoria della trasformazione sociale, nella quale l’elemento dialettico di derivazione hegeliana diventa determinante. In altri termini, si può dare una filosofia della storia che non necessariamente sfoci nella santificazione dell’esistente, ma che, sul fondamento metodologico dell’etica individui le potenzialità presenti nella realtà storica, sulle quali far leva per instaurare “il regno dei cieli sulla terra”.
Il corso storico dell’estraneazione culmina in Germania, luogo sia della fondazione del jehoviano da parte dell’idealismo tedesco, sia della tragedia storica che ha portato alla capitolazione della cultura tedesca nei confronti dello Stato e all’assorbimento dell’etica nello spirito oggettivo pienamente trionfante. Per l’anima individuale tutto ciò si traduce nell’impotenza e nella sofferta rassegnazione della solitudine, per cui il suo trascendimento nello spirito assoluto risulta in queste condizioni impossibile.
Note:
[1] “Metafisica geoviana pensarla fino alle estreme conseguenze: Tubercolosi e stato autoritario: tutto sta ugualmente distante da Dio (da un lato vendetta, dall’altro Francesco d’Assisi. Kirillov e lo starec Zosima). Il vincente ha ragione. Lo stato come tubercolosi organizzata; se i bacilli della peste si organizzassero, fonderebbero il mondo. – Due possibilità 1) il vincente ha ragione: la vittoria è il senso 2) tutto esiste per glorificare un Dio (che non è né giusto né buono) (Calvino). – In entrambi i casi negazione della costruttività dei valori umani: soprattutto di quelli dell’anima” G. Lukács, Il Manoscritto-Dostojevskij [1916] in “Metaphorein” 8, traduz. parziale di M. Cometa, 1982, p. 35.
[2] G. Lukács, Dostojevskij Notizen und Entwürfe [1916], in F. Fehér, Al bivio dell’anticapitalismo romantico, in AA. VV., La scuola di Budapest: sul giovane Lukács, traduz. di E. Franchetti, Firenze, La Nuova Italia 1978, p. 215.
[3] G. Lukács, Il Manoscritto-Dostojevskij, op. cit., p. 34.
[4] “Una teoria penale che nel delinquente riconosca contemporaneamente l’uomo, può fare ciò solo nell’astrazione, nell’immaginazione, perché la pena, la coazione, contraddicono al comportamento umano. [...] Quando vigeranno rapporti umani, la pena non sarà invece realmente altro del giudizio di chi si sbaglia su se stesso. Non si pretenderà di persuadere costui che una violenza esterna, esercitata da altri su di lui, sia una violenza che egli ha esercitato su se stesso. Egli troverà invece negli altri uomini i naturali detentori della pena che egli ha inflitto a se stesso, cioè il rapporto addirittura si rovescerà” K. Marx e F. Engels, La sacra famiglia [1845] traduz. di A. Zanardo, Editori Riuniti, Roma 1967, pp. 233-34.
[5] G. Lukács, Dostojevskij Notizen…, op. cit., p. 216.
[6] Ivi: p. 220.