Nel saggio Gaza e l’industria israeliana della violenza (2015)cisiamo soffermati più volte sul colonialismo di insediamento come strumento fondamentale di analisi del sionismo. Già nell’introduzione si poteva leggere: “I colonizzatori arrivati in America o in Australia con il loro carico di moderni strumenti di morte, trovarono l’altro che disponeva di impari mezzi di difesa. Compresero, immediatamente, che i nativi non avrebbero riconosciuto la superiorità della loro civiltà, si impadronirono delle loro terre e li chiusero in riserve con l’obiettivo di sterminarli quasi totalmente. Successivamente qualcuno propose di definire colonialismo di insediamento lo sbarazzarsi degli indigeni e l’impadronirsi delle loro risorse”.
Chi poteva immaginare che nel ventesimo secolo si sarebbe riprodotta una esperienza di questo tipo in un territorio carico di storia, culla delle tre religioni monoteistiche, sulla base, secondo alcuni, anche di promesse contenute in un Libro (la Bibbia)? Quale strada si doveva percorrere per realizzare questo ”anacronismo disfunzionale se non quella dell’esercizio, quotidiano e sistematico, della violenza, fino al punto che le vittime si sarebbero trasformate in carnefici”?
Sia pur brevemente si accenna nello scritto su Gaza, senza svilupparlo, a un legame tra il colonialismo di insediamento in America e in Australia e quello israeliano. Da molti autori, Jamil Hilal e Ilan Pappé, per esempio, come dagli storici del Novecento siamo stati esortati a trovare nello spessore della storia le ragioni per comprendere il presente. Nella seconda metà degli anni Sessanta Israele ha occupato la Cisgiordania e la Striscia di Gaza e l’OLP è stato riconosciuto come il movimento che rappresenta il popolo palestinese. La coincidenza di questi due eventi è stata da allora utilizzata da molti per sostenere che la storia palestinese è iniziata nel 1967. STOP Occupation (e la soluzione a due-stati) è diventato lo slogan feticcio che continua a essere sbandierato per opportunismo o ignoranza, quando basterebbe una lettura attenta de La pulizia etnica della Palestina di Ilan Pappé o di Palestina Quale Futuro? La fine della soluzione dei due Stati coordinato da Jamil Hilal, per uscire da una paradossale ambiguità sul piano morale, culturale e politico.
Il percorso per una comprensione dei colonialismi del passato e di quelli del presente passa per la conferenza Past is present: Settler Colonialism in Palestine tenutasi alla SOAS il 5 - 6 marzo del 2011 [1]. La conferenza veniva così presentata: “Per oltre un secolo, il sionismo ha sottoposto la Palestina e i Palestinesi a una forma strutturale e violenta di distruzione, di esproprio e di furto della terra per realizzare una nuova società israeliana coloniale. Troppo spesso, la questione palestinese è stata rappresentata come unica; una lotta nazionale, religiosa, e/o di liberazione, con una minima somiglianza con altri conflitti coloniali. La conferenza, il Passato è Presente: cerca afferma che il colonialismo di insediamento è il paradigma centrale per comprendere la questione palestinese. Ci si chiedeva: quali sono i processi e i meccanismi socio-politici, economici e spaziali del colonialismo di insediamento in Palestina, e quali sono le logiche che lo sorreggono? Portando alla luce le storie e le geografie dell’esperienza palestinese del colonialismo di insediamento, questa conferenza non solo traccia le possibilità per comprendere la questione palestinese all’interno di analisi comparate del colonialismo di insediamento. Piuttosto, cerca anche di rompere gli schemi consolidati che avvolgono la Palestina e di ri-posizionare il movimento palestinese all’interno di una storia universale di decolonizzazione, per immaginare nuove forme della resistenza palestinese e di solidarietà per una lotta comune”.
Il passato è il presente
Il colonialismo di insediamento non appartiene al passato, non è un fenomeno alle nostre spalle, è un paradigma necessario all’analisi della questione palestinese e, più in generale, della globalizzazione neoliberista, stabilendo così un rapporto strettissimo tra la questione palestinese e con quanto è accaduto, anche in un passato lontano, e quello che sta accadendo oggi nel mondo.
Il percorso che stiamo sommariamente descrivendo è anche segnato dall’incontro con il pensiero di Lorenzo Veracini, iniziato con la lettura di un suo intervento The Other Shift: Settler Colonialism, Israel and the Occupation, pubblicato dal “Journal of Palestine Studies”, nel gennaio 2013 e in italiano nella rivista “Historia Magistra” con il titolo L’altro cambiamento: il colonialismo d’insediamento, Israele e l’occupazione [2]. Veracini indicava la natura dello Stato d’Israele come un progetto di colonialismo d’insediamento non ancora compiuto definitivamente, perché i nativi palestinesi in quella terra, anche se in parte espulsi, in varie ondate, dalla pulizia etnica del 1948 e del 1967 e sottoposti a un regime di apartheid, diversificato in Israele e nei Territori occupati palestinesi, rappresentano ancora un’ampia minoranza. L’estendersi degli insediamenti in Cisgiordania hanno però bisogno di una occupazione militare permanente. “Il colonialismo d’insediamento torna al colonialismo”.
Un’assemblea pubblica con Veracini si è tenuta a Torino il 4 giugno 2015 pochi giorni prima della pubblicazione di Gaza e l’industria israeliana della violenza. La relazione presentata da Veracini “Come affrontare il colonialismo d’insediamento dei nostri giorni” era la sintesi di un libro pubblicato nello stesso 2015, un testo di rottura che affronta il tema dell’attualità del colonialismo d’insediamento che il mondo globale sta fronteggiando da alcuni decenni [3].
L’autore analizza alcuni punti nodali: la necessità di cambiare paradigma rispetto agli effetti della globalizzazione neoliberista in questi ultimi decenni e di analizzare a fondo come le modalità dell’agire del colonialismo d’insediamento, utilizzate nel passato nei territori considerati terra nullius, con accaparramento di terra e risorse, spossessamento dei beni, espulsioni dalla terra e dal lavoro, eliminazioni delle popolazioni, siano state trasferite nel mondo globale, anche quindi in occidente, e in particolare in Europa con le politiche di austerità. Veniva lanciato un avvertimento, un allarme contro quello che appariva ai più, nei settori di governo e in particolare a “sinistra”, soltanto come una crisi del capitalismo a medio termine riequilibrabile con aggiustamenti “secondo le regole del mercato” e le “riforme”. Poneva il problema che con la globalizzazione il capitalismo attuale tende non più solo allo sfruttamento massiccio della forza-lavoro, ma a imporre una modalità di dominio sulle popolazioni del mondo, con l’appropriazione di terre, di risorse e di beni comuni, con la riduzione dei diritti e il dislocamento e/o l’espulsione di tutti coloro giudicati superflui, diversi o refrattari alle nuove regole e alle “riforme” che esso detta. In breve, questa struttura di dominio vuole spossessare dei diritti, rendere non cittadini, non lavoratori, non consumatori, la maggioranza delle popolazioni del mondo.
Accumulazione senza riproduzione
Veracini ci ricordava gli orrori prodotti dal neoliberismo nel mondo globale: ci troviamo oggi di fronte ad un colonialismo d’insediamento, nascosto dalla parola “neoliberismo”, che si adatta rapidamente alle trasformazioni e alle esigenze del capitale finanziario globale, di alcune decine di multinazionali e dei centri di potere del complesso industriale e militare. Esso è una struttura, una formazione sociale specifica di dominio che detta all’umanità le regole per una sopravvivenza “conforme” o per l’eliminazione.
A conclusione del suo intervento Veracini affermava la necessità di una nuova consapevolezza dei soggetti in occidente per comprendere le trasformazioni reali in atto e condividere, quindi, e non combattere come nemici, alieni, le moltitudini di migranti, rifugiati, espulsi non solo dalle terre occupate e rubate, ma espulsi dal mondo del lavoro. Anche in Europa e nel mondo occidentale molti saranno in un futuro prossimo trattati “come” indigeni.
Che cosa c’entra la Palestina con noi? Nel libro The Settler Colonial Present, Veracini afferma molto chiaramente ed efficacemente come la questione palestinese sia indissolubilmente legata alla “questione indigena”. Il progetto di comunità rinchiuse, recintate, con l’obiettivo della dislocazione ed eliminazione, è da tempo la situazione tipica della Palestina occupata: “È a questo punto che la contemporaneità globale del colonialismo di insediamento, la storia globale del colonialismo di insediamento, come modalità di dominio e la universalità della questione palestinese diventano evidenti”
Per queste ragioni abbiamo ritenuto necessario scrivere il saggio collettaneo Esclusi. La globalizzazione neoliberista del colonialismo di insediamento (DeriveApprodi 2017), che introduce nel discorso pubblico italiano i primi elementi, che andranno ovviamente ulteriormente sviluppati, del valore paradigmatico del colonialismo di insediamento che, come sostiene Patrick Wolfe nel suo saggio, Il colonialismo di insediamento e l’eliminazione dei nativi, non è un evento, ma una struttura che continua a produrre i suoi effetti nel tempo [4].
Note
[1] School of Oriental and AfricanStudies,London.
[2] L. Veracini, L’altro cambiamento: Il colonialismo di insediamento, Israele e l’occupazione, «Historia Magistra», 2013, n.12. La rivista è diretta da Angelo D’Orsi.
[3] L. Veracini, The Settler Colonial Present, Palgrave Macmillan, 2015.
[4] All’indirizzo www.ism-italia.org/?p=5820 stralci di alcuni saggi contenuti nel libro e curricula degli autori e di Lorenzo Veracini.