Segue da “Gramsci, il diritto e la società regolata”
Secondo Antonio Gramsci “la tendenza democratica, intrinsecamente, non può solo significare che un operaio manovale diventa qualificato, ma ogni ‘cittadino’ può diventare ‘governante’ e che la società lo pone, sia pure ‘astrattamente’, nelle condizioni generali di poterlo diventare; la democrazia politica tende a far coincidere governanti e governati (nel senso del governo col consenso dei governati), assicurando a ogni governato l’apprendimento gratuito della capacità e della preparazione tecnica generale necessarie al fine” [1].
D’altra parte, il partito in uno Stato totalitario assume la funzione tradizionalmente svolta dall’istituto della monarchia. La scelta fra centralismo organico e democratico è relativamente indipendente dalla questione democratica, al punto che tanto la Rivoluzione francese che la terza Repubblica si sono dotate di un centralismo organico ancora più rigido di quello dell’ancien régime. D’altra parte, a parere di Gramsci, lo stesso “centralismo democratico offre una formula elastica, che si presta a molte incarnazioni; essa vive in quanto è interpretata e adattata continuamente alle necessità: essa consiste nella ricerca critica di ciò che è uguale nell’apparente disformità e invece distinto e anche opposto nell’apparente uniformità per organare e connettere strettamente ciò che è simile, ma in modo che l’organamento e la connessione appaiano una necessità pratica e ‘induttiva’, sperimentale e non il risultato di un processo razionalistico, deduttivo, astrattistico, cioè proprio degli intellettuali puri (o puri asini). (..) Esso richiede una organica unità tra teoria e pratica, tra ceti intellettuali e masse popolari, tra governanti e governati. (..) nella concezione burocratica, per la quale finisce col non esistere unità ma palude stagnante, superficialmente calma e ‘muta’ e non federazione ma ‘sacco di patate’ cioè giustapposizione meccanica di singole ‘unità’ senza nesso tra loro” (13, 36: 1634).
Per quanto concerne la distinzione fra centralismo democratico e centralismo organico o, meglio, burocratico, osserva Gramsci: “connessa con la quistione della burocrazia e della sua organizzazione ‘ottima’ è la discussione sui cosiddetti ‘centralismo organico’ e ‘centralismo democratico’ (che d’altronde non ha niente a che fare con la democrazia astratta, tanto che la Rivoluzione francese e la terza Repubblica hanno sviluppato delle forme di centralismo organico che non avevano conosciuto né la monarchia assoluta né Napoleone I). (…) L’‘organicità’ non può essere che del centralismo democratico il quale è un ‘centralismo’ in movimento, per così dire, cioè una continua adeguazione dell’organizzazione al movimento reale, un contemperare le spinte dal basso con il comando dall’alto, un inserimento continuo degli elementi che sbocciano dal profondo della massa nella cornice solida dell’apparato di direzione che assicura la continuità e l’accumularsi regolare delle esperienze: esso è ‘organico’ perché tiene conto del movimento, che è il modo organico di rivelarsi della realtà storica e non si irrigidisce meccanicamente nella burocrazia, e nello stesso tempo tiene conto di ciò che è relativamente stabile e permanente o che per lo meno si muove in una direzione facile a prevedersi ecc. Questo elemento di stabilità nello Stato si incarna nello sviluppo organico del nucleo centrale del gruppo dirigente così come avviene in più ristretta scala nella vita dei partiti” (13, 36: 1632-634).
Del resto, anche in seguito alla conquista del potere da parte dei comunisti il livello culturale poco sviluppato degli ex ceti subalterni necessiterà di un “lungo periodo di intervento giuridico rigoroso e poi attenuato” (6, 98: 774) prima che possa affermarsi la nuova eticità e che possa inaugurarsi il processo di superamento dello Stato e degli aspetti coercitivi del diritto [2]. Per quanto è indispensabile, nella transizione al comunismo sviluppare lo Stato socialista è, tuttavia, altrettanto indispensabile non ipostatizzare tale momento – come avvenuto in diversi paesi del socialismo reale – ma intenderlo come una necessità da superare, sviluppando al contempo “nuove forme di vita statuale, in cui l’iniziativa degli individui e dei gruppi sia ‘statale’ anche se non dovuta al ‘governo dei funzionari’” (8, 130: 1020) al fine di rendere per quanto possibile spontanea la vita statale.
Come osserva a questo proposito Gramsci: “per alcuni gruppi sociali, che prima della ascesa alla vita statale autonoma non hanno avuto un lungo periodo di sviluppo culturale e morale proprio e indipendente [..], un periodo di statolatria è necessario e anzi opportuno: questa ‘statolatria’ non è altro che la forma normale di ‘vita statale’, di iniziazione, almeno, alla vita statuale autonoma e alla creazione di una ‘società civile’ che non fu possibile storicamente creare prima dell’ascesa alla vita statale indipendente. Tuttavia questa tale ‘statolatria’ non deve essere abbandonata a sé, non deve, specialmente diventare fanatismo teorico, ed essere percepita come ‘perpetua’: deve essere criticata, appunto perché si sviluppi, e produca nuove forme di vita statuale, in cui l’iniziativa degli individui e dei gruppi sia ‘statale’ anche se non dovuta al ‘governo dei funzionari’ (far diventare ‘spontanea’ la vita statale” (8, 130: 1020-021).
Tale concezione di uno Stato realmente etico – che toglie progressivamente le sue funzioni coercitive, “uno Stato senza Stato” (6, 88: 764) [3] lo definisce Gramsci – non è un’invenzione del marxismo, ma è presente in nuce in ogni filosofia politica che, condividendo l’ideale regolativo dell’uguaglianza dell’uomo in quanto essere morale dotato di ragione, ritiene che la legge debba essere progressivamente riassorbita nei costumi e non coercitivamente imposta dal governo di una classe orientata a scopi particolaristici. Via via che si affermano gli elementi della società regolata, la società civile deve, dunque, ricomprendere progressivamente in sé le funzioni precedentemente esercitate dallo Stato quale momento politico posto per sé. Il credere possibile realizzare una società regolata senza superare lo Stato-classe è un’illusione reazionaria delle classi medie e dei suoi intellettuali che pretenderebbero, in tal modo, di evitare i crescenti conflitti e i possibili rivolgimenti del sistema.
Se la dimensione etica è propria di ogni Stato, in quanto ha di mira lo sviluppo culturale e morale della cittadinanza per portarla a un livello adeguato “alle necessità di sviluppo delle forze produttive e quindi agli interessi delle classi dominanti” (8, 179: 1049-50), lo Stato veramente etico non può essere a parere di Gramsci lo Stato borghese, come poteva ancora illudersi Hegel in un’epoca in cui lo tale Stato pareva in grado di sussumere l’intera cittadinanza [4].
Approfondendo la questione dello Stato etico hegeliano e del suo superamento-inveramento nello Stato socialista, osserva a ragione Gramsci: “ogni Stato è etico in quanto una delle sue funzioni più importanti è quella di elevare la grande massa della popolazione a un determinato livello culturale e morale, livello (o tipo) che corrisponde alle necessità di sviluppo delle forze produttive e quindi agli interessi delle classi dominanti. [...] La concezione di Hegel è propria di un periodo in cui lo sviluppo in estensione della borghesia poteva apparire illimitato, quindi l’eticità o universalità di essa poteva essere affermata: tutto il genere umano sarà borghese. Ma in realtà solo il gruppo sociale che pone la fine dello Stato e di se stesso come fine da raggiungere, può creare uno Stato etico, tendente a porre fine alle divisioni interne di dominati ecc. e a creare un organismo sociale unitario tecnico-morale” (8, 179: 1049-050).
Del resto il concetto di diritto trova il suo compimento nel render progressivamente superfluo il proprio aspetto coercitivo mediante l’adesione sempre più spontanea degli individui ai costumi sociali. Lo Stato dovrà ancora sia stimolare, ma anche sanzionare giuridicamente le azioni contrarie allo sviluppo del nuovo modello di società. Il diritto penale è, infatti, considerato da Gramsci, in polemica con gli anarchici, il necessario lato negativo di tutta “l’attività positiva di incivilimento svolta dallo Stato” (13, 11: 1571). Tale funzione repressiva del diritto dovrà essere, tuttavia, rinnovata mediante l’intervento sanzionatrice dell’opinione pubblica e completata con la premiazione dei comportamenti esemplari dal punto di vista sociale.
Note:
[1] Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica a cura di Valentino Gerratana, Einaudi, Torino 1977, pp. 1547-548. D’ora in poi citeremo quest’opera fra parentesi tonde direttamente nel testo, indicando il quaderno, il paragrafo e il numero di pagina di questa edizione.
[2] Come osserva a tal proposito Gramsci: “una classe che ponga se stessa come possibile di assimilare tutta la società, e sia nello stesso tempo realmente capace di esprimere questo processo, porta alla perfezione questa concezione dello Stato e del diritto, tanto da concepire la fine dello Stato e del diritto come diventati inutili per aver esaurito il loro compito ed essere stati assorbiti dalla società civile” (2, 8: 937).
[3] Approfondendo questo concetto, osserva Gramsci: “nella nozione generale di Stato entrano elementi che sono da riportare alla nozione di società civile (nel senso, si potrebbe dire, che Stato = società politica + società civile, cioè egemonia corazzata di coercizione). In una dottrina dello Stato che concepisca questo come passibile tendenzialmente di esaurimento e di risoluzione nella società regolata, l’argomento è fondamentale. L’elemento Stato-coercizione si può immaginare esaurentesi mano a mano che si affermano elementi sempre più cospicui di società regolata (o Stato etico o società civile). Le espressioni di Stato etico o di società civile verrebbero a significare che quest’‘immagine’ di Stato senza Stato era presente ai maggiori scienziati della politica e del diritto in quanto si ponevano nel terreno della pura scienza (= pura utopia, in quanto basata sul presupposto che tutti gli uomini sono realmente uguali e quindi ugualmente ragionevoli e morali, cioè passibili di accettare la legge spontaneamente, liberamente e non per coercizione, come imposta da altra classe, come cosa esterna alla coscienza). […] Nella dottrina dello Stato→società regolata, da una fase in cui Stato sarà uguale Governo, e Stato si identificherà con società civile, si dovrà passare a una fase di Stato – guardiano notturno, cioè di una organizzazione coercitiva che tutelerà lo sviluppo degli elementi di società regolata in continuo incremento, e pertanto riducente gradatamente i suoi interventi autoritari e coattivi. Né ciò può far pensare a un nuovo ‘liberalismo’, sebbene sia per essere l’inizio di un’era di libertà organica” (6, 88: 764).
[4] Del resto, come sottolinea a ragione Gramsci a proposito dei limiti storici della concezione politica e sociale di Hegel: “la sua [di Hegel] concezione dell’associazione non può essere che ancora vaga e primitiva, tra il politico e l’economico, secondo l’esperienza storica del tempo, che era molto ristretta e dava un solo esempio compiuto di organizzazione, quello ‘corporativo’ (politica innestata nell’economia). Marx non poteva avere esperienze storiche superiori a quelle di Hegel (almeno molto superiori), ma aveva il senso delle masse, per la sua attività giornalistica e agitatoria” (1, 47: 56-57).