Sin dalle loro rispettive origini, partito comunista e sindacato in Italia intessono un rapporto strettamente interconnesso e problematico ma tuttavia imprescindibile. Una ricostruzione storica della formazione del Partito comunista in Italia, analizzata dalla contraddizione principale capitale- lavoro la cui rilevanza investe, ancora oggi, le mai mutate esigenze della lotta politica. Analisi del libro “Comunisti e sindacato dalle origini alle leggi eccezionali” di Claudio Gambini (Editori Riuniti, 2015)
di Alexander Höbel
È davvero singolare che, nella vastissima produzione storiografica relativa al Partito comunista italiano e alle sue vicende, un aspetto fondamentale come quello dei rapporti tra i comunisti e il sindacato sia stato, tutto sommato, poco approfondito in particolare per quanto riguarda i primi anni di vita del partito, quelli della fondazione e poi della clandestinità e della lotta al fascismo. Benissimo dunque ha fatto Claudio Gambini ad intraprendere questo lavoro sui comunisti e il sindacato dal 1921 al 1926, ossia in anni di sconfitta e di riflusso dell’ondata rivoluzionaria e, dunque, di riorganizzazione, anche in forme nuove, del movimento di classe. Gambini sottolinea che quella della classe operaia fu una sconfitta maturata sul piano economico e sociale prima ancora che su quello politico, ciò a cui seguì la distruzione dei suoi strumenti organizzativi, fino ad avvicinarsi, col fascismo, al “sogno borghese di una società rigorosamente programmata e ‘inquadrata’ per la produzione, senza lotta di classe”; quello che, per rifarci all’oggi, è il sogno di Marchionne e di altri campioni delle classi dirigenti.
Quella che l’Autore delinea è dunque la “storia della crisi del sindacato” e forse proprio il fatto di vivere anche oggi una fase di sconfitta e disgregazione del movimento dei lavoratori, di normalizzazione sociale e politica, ci fa sentire così vicine problematiche che pure risalgono a quasi un secolo fa.
Ma qual è la strategia che il neonato Partito comunista d’Italia adotta nei confronti della Cg(d)l? La prospettiva proclamata nel 1921 a Livorno è quella della “conquista” dell’organizzazione, nella quale i comunisti – documenta Gambini – contano circa un terzo degli iscritti e, dunque, della formazione di gruppi comunisti in ogni azienda, in ogni Camera del lavoro, in ogni federazione di mestiere. Ma soprattutto il Pcd’I, in particolare sotto l’impulso di Gramsci e dell’esperienza ordinovista, pone fin da subito l’obiettivo della costituzione e dello sviluppo dei “Consigli di fabbrica e di azienda” come organismi che rappresentino tutti i lavoratori salariati, iscritti al sindacato o meno e, dunque, come strumenti di autogoverno del proletariato. È il tema del “controllo operaio, vera rottura teorica – scrive giustamente l’Autore – con tutta la tradizione socialista precedente”.
Intanto, il neonato partito deve confrontarsi non solo con ristrutturazioni e ondate di licenziamenti come quelle che investono la Fiat ma anche con lo squadrismo fascista che dilaga. Nell’estate del 1922 i comunisti chiamano allo sciopero generale dei metallurgici ma, nonostante il successo della mobilitazione avviata in Lombardia ed in Piemonte, il gruppo dirigente della Cgil non gioca fino in fondo questa carta, preferendo pensare, con D’Aragona, che si possa ancora “trovare in Italia una parte della borghesia disposta a collaborare con noi per ridare la libertà di svolgimento al movimento sindacale”. Tutto ciò a poche settimane dalla marcia su Roma. Né meno disastroso è lo “sciopero legalitario” del 1° agosto, fatto rifluire sul nascere dall’Alleanza del lavoro, o l’atteggiamento della Cgl nelle ore della marcia su Roma, con gli inviti ai lavoratori a tenersi “appartati” dalla contesa tra “due forze estranee ai sindacati operai”, ossia i fascisti e le forze antifasciste che in varie città cercano di resistere, messi in sostanza sullo stesso piano.
Di fronte alla marea reazionaria montante, quello dei comunisti è dunque un tentativo di resistenza e riorganizzazione. Attraverso il proprio Comitato sindacale e la costituzione dei “Gruppi comunisti d’officina” si cerca di non perdere i legami coi lavoratori, riuscendo in effetti a tenere in vita una rete illegale di circa 9000 militanti. C’è qui un passaggio significativo dai “circoli rionali”, che caratterizzavano l’organizzazione del Partito socialista, a quella incentrata sui luoghi di lavoro che mira a fare di ogni fabbrica “una fortezza”, una casamatta imprendibile, secondo l’insegnamento di Gramsci.
In questo quadro, Gambini descrive alcune esperienze locali che restituiscono concretezza a queste vicende: il caso di Roma, ad esempio, con la forte presenza comunista tra gli edili e nella stessa Camera del lavoro, dove pure il contrasto con la componente riformista è aspro. I comunisti comunque – lo riafferma Gramsci nell’ottobre 1923 – sono “in linea di principio, contro la creazione di nuovi sindacati” e considerano questa eventualità solo come extrema ratio, nel momento in cui “un provvedimento dei dittatori riformisti costringesse i rivoluzionari ad uscire dalla Confederazione generale del lavoro e ad organizzarsi a parte”. Ma anche in questo caso, lo scopo sarebbe quello “di ottenere nuovamente l’unità tra la classe e la sua avanguardia più cosciente”.
Intanto anche i fascisti cercano di organizzare i loro sindacati corporativi, scontrandosi però con una resistenza operaia che, alle elezioni per le Commissioni interne del 1923, assegna alla Fiom la stragrande maggioranza dei consensi. E, però, la tendenza del gruppo dirigente riformista della Cgl di ridurre autonomia e prerogative delle Camere del lavoro, dove ormai la presenza comunista è molto forte, continua a pesare. I comunisti, dal canto loro, insistono sui Consigli di fabbrica, organismi unitari che – afferma la mozione presentata da Togliatti al convegno confederale del 1923 – tendono “ad accentrarsi in un organismo nazionale centralizzato”.
Qui v’è un intreccio tra lotta politica e lotta sindacale che è di estremo interesse nonchè di grande attualità (pur nelle diverse condizioni di oggi) e cioè che, come osserva Gambini, tra i comunisti si afferma l’idea che la fabbrica sia “il terreno di difesa migliore per resistere”; ma questa presenza capillare nei luoghi di lavoro si lega anche alla strategia del “fronte unico” contro fascismo e padronato e mira, infine, a “porre le basi dell’organizzazione politica e dello stesso governo operaio e contadino”.
La concezione di fondo è molto chiara. Come scrive la Federazione provinciale torinese del partito, parlando della partecipazione alle elezioni per la Cassa mutua della Fiat nel 1924, “i comunisti devono avvicinare gli operai sul terreno ove questi si trovano o sono stati costretti a porsi e, una volta preso il contatto con essi, trascinarli sul terreno classista e rivoluzionario”. Nel ’24, peraltro, si registra una ripresa sia delle lotte che della presenza della Fiom nelle maggiori aziende; in alcuni casi anche i lavoratori fascisti vengono coinvolti nelle mobilitazioni: come sottolinea “l’Unità”, “basta il nucleo d’officina attorno al quale si raggruppano gli altri operai per imprimere alla lotta il suo carattere classista”. Le proposte di azione unitaria, ad esempio per il 1° maggio di quell’anno, vengono però ancora respinte dai riformisti, a riconferma di come il luogo comune storiografico che vorrebbe, invece, i comunisti sempre settari ed anti-unitari, alla luce dei fatti, non regge. Lo scontro fra le due ali del movimento operaio rimane aspro ma è l’arrendevolezza del gruppo dirigente riformista ad apparire come la prima causa di divisione.
I comunisti tentano allora la strada dell’unità dal basso, “al di sopra dei capi”, ma non riescono a superare una sorta di ostracismo e la conseguente condizione di isolamento persino nella Fiom. All’indomani del congresso del sindacato metallurgico, un articolo di Togliatti del maggio 1924, delineando – come scrive Gambini – il quadro di “una classe operaia orientata a sinistra, anti- riformista ma poco interessata alla vita dei sindacati e, conseguentemente, alla lotta contro le burocrazie”, pone il problema di un adeguamento della strategia e della tattica dei comunisti. Gramsci, dal canto suo, propone una conferenza nazionale dei delegati di fabbrica che dia vita a un “Comitato centrale delle fabbriche italiane”, una sorta di rifondazione dal basso del sindacato, un vero e proprio “contraltare della Cgl” ormai giudicata irrecuperabile. Al polo opposto si colloca invece la posizione di Tasca, molto attento alla continuità del movimento operaio e delle sue organizzazioni.
Il dibattito, come si vede, presenta un’articolazione di posizioni interessante. Gramsci appare il dirigente più conseguente rispetto al cambiamento di fase ormai prodottosi.
Nel convegno di Como del 1924 il Pcd’I decide, quindi, di promuovere “una Conferenza nazionale di rappresentanti delle più grandi fabbriche”, ponendo come prospettiva la “trasformazione delle Commissioni interne nei veri Consigli d’officina, da ottenere mediante l’elezione diretta delle maestranze”: una posizione, osserva l’Autore sulla scia di Stefano Merli, che solo in parte raccoglie l’invito di Gramsci ma che, di fatto, rimane ancora a metà strada tra le vecchie soluzioni e quelle nuove.
La crisi Matteotti, con lo sciopero generale sostenuto dai soli comunisti, apre, infine, una nuova fase. La delusione verso le forze “aventiniane” induce i comunisti ad accentuare ulteriormente il carattere classista dell’opposizione al fascismo. È una linea che aderisce perfettamente a quella “bolscevizzazione” dei partiti comunisti che è stata decisa al V Congresso dell’Internazionale, col rilancio dell’organizzazione per cellule. Come osserva Gambini, la stessa ricostruzione sindacale diventa un elemento “di una politica alternativa a quella dell’opposizione legale”, di una opposizione di classe sempre più distante dall’antifascismo aventiniano.
In questo quadro si colloca la scelta di “tornare ai sindacati”, condivisa da Gramsci e da Serrati, e di rilanciare il Comitato sindacale comunista. Peraltro l’ingresso nel Pcd’I dei “terzini” ha dotato il partito di nuovi dirigenti sindacali, primo fra tutti Giuseppe Di Vittorio. Le lotte operaie ed il rifiuto degli “accordi capestro” siglati dalle Corporazioni fasciste, intanto, dimostrano che vi è ancora una capacità ed una volontà di resistenza da parte dei lavoratori.
Tuttavia, la nuova stretta autoritaria del regime (che sfocerà nel discorso di Mussolini del gennaio 1925) sembra riflettersi anche nella ulteriore involuzione del regime di democrazia interna alla Cgl.
In particolare D’Aragona mira a sottrarre alle Camere del lavoro ogni residua autonomia cosicché, anziché stimolare l’iniziativa dal basso dei lavoratori, la stessa Confederazione pare frenarla e le motivazioni politiche sono esplicite. “Noi abbiamo due nemici – afferma il riformista Baldesi – : la reazione e il comunismo”. I comunisti, dal canto loro, denunciano un vero e proprio passaggio di campo della Cgl, rilanciano la parola d’ordine dei “Comitati operai e contadini”, subiscono provvedimenti disciplinari ed espulsioni e, tuttavia, decidono di rimanere nell’organizzazione. La situazione è un po’ diversa nella Fiom ma, anche qui, il Pcd’I – che insiste sulla necessità di costruire ovunque “comitati di agitazione” – si scontra con l’arrendevolezza del gruppo dirigente riformista. Il mostrarsi come i più conseguenti nella difesa dei lavoratori finisce, nel frattempo, per premiare i comunisti, che nel 1925 ottengono significativi successi nelle elezioni per la Mutua della Fiat. Il patto di Palazzo Vidoni, intanto, lascia alle Corporazioni fasciste il monopolio della rappresentanza sindacale. Nella Cgl il gruppo dirigente sostituisce le Camere del lavoro con singoli “fiduciari”. È a questo punto che la linea maturata negli anni precedenti – quella dei “Gruppi sindacali d’officina”, dei Comitati d’agitazione e dei “Comitati di difesa sindacale” che dovrebbero subentrare alle Commissioni interne – viene apertamente rilanciata, accanto alla prospettiva politica dei Comitati operai e contadini.
Nel Pcd’I è andata avanti la riorganizzazione del partito sulla base delle cellule. Siamo alla vigilia del Congresso di Lione. Nelle Tesi sindacali preparate per il congresso, Togliatti ribadisce: quella sindacale è la “prima linea” nell’attività del partito, per cui “la iscrizione ai Sindacati e la esplicazione di una continua attività in seno ad essi sono per i comunisti un obbligo essenziale”. Al tempo stesso, sul piano politico, i comunisti rilanciano con maggiore forza la prospettiva del “fronte unico”. Su entrambi i terreni, insomma, osserva l’Autore, “il Partito comunista si candidava ad essere il centro propulsore dell’unità di classe”. E su entrambi i terreni intendeva ripartire dal basso. Sul piano sindacale, l’idea è quella di ravvivare l’organizzazione attraverso i Comitati d’agitazione ed i Comitati di difesa sindacale; sul piano politico coi Comitati operai e contadini. La prospettiva generale è quella del “fronte unico proletario”. Ed in effetti, come sottolinea Paolo Spriano, soprattutto i primi saranno, nei mesi seguenti, “l’unica, per quanto esile e ultima, forma di opposizione politica e di classe che viva in mezzo alle classi lavoratrici”.
Quando, dunque, nel gennaio del ’27, il gruppo dirigente della Cgl decreterà lo scioglimento dell’organizzazione, i comunisti saranno pronti a raccoglierne il testimone, rifondando la Confederazione già un mese dopo, nel corso del convegno di Milano, al quale parteciperanno – come Gambini opportunamente ricorda – anche rappresentanti cattolici, repubblicani e socialisti quali Miglioli, Bergamo e Bacigalupi. Sarà l’inizio di una lunga attività illegale, affiancata dal “lavoro legale” all’interno dei sindacati fascisti che pure consentirà di non perdere i legami con le masse nei luoghi di lavoro.
Ripercorrendo, sia pure schematicamente, la dettagliata ricostruzione di Claudio Gambini, i nessi con l’attualità appaiono molteplici: la ristrutturazione capitalistica, la disarticolazione della classe lavoratrice, l’attacco delle forze di destra, l’arrendevolezza (se non la complicità) di parte dello stesso fronte che dovrebbe tutelare i lavoratori, le divisioni e gli scontri politici aspri che giungono fino ai tentativi di escludere le componenti più “radicali” dalla rappresentanza sindacale e politica; e in questo quadro, l’azione di resistenza e di difesa e, al tempo stesso, la necessità di riorganizzarsi in forme anche nuove tenendo però vivo il filo della continuità, l’importanza della ricostruzione di un legame di massa da parte delle avanguardie politiche, l’esigenza di ripartire “dal basso”, di non perdere – o di recuperare – l’internità al mondo del lavoro, ricostruendo pazientemente un tessuto lacerato dai cambiamenti strutturali e dall’azione dell’avversario.
In questo senso, quella dei rapporti tra comunisti e sindacato tra il 1921 e il 1926 è non solo una interessantissima pagina di storia che l’Autore ricostruisce egregiamente ma anche una vicenda che aiuta a riflettere sull’oggi, sulla necessità di costruire un nuovo nesso tra lotta politica per la trasformazione e difesa delle condizioni concrete dei lavoratori; qualcosa che riguarda anche oggi i comunisti e, più in generale, tutta la sinistra sociale e politica che non ha rinunciato ad una lettura di classe della realtà e ad un posizionamento conseguente con tale lettura.