L’intreccio tra nozione di cultura e ideologia buonista è sempre funzionale alla conservazione del sistema sociale storicamente dominante. La ricerca di identità parziali, che sono frutto dell’ideologia piccolo-borghese, è determinata dalla necessità di attribuire significato ad un processo storico che appare sempre più incomprensibile e incontrollabile, e di una ricerca di riconoscimento, da parte di singoli gruppi e categorie, all’interno del sistema. Ciò porta all’abbandono di una visione universalistica e della nozione di “totalità”, privando le masse di una prospettiva rivoluzionaria e di cambiamento. La critica al capitalismo intrapresa negli ultimi tempi dalla Chiesa di Papa Bergoglio non attacca tuttavia il sistema nelle sue radici.
di Alessandra Ciattini
Secondo esempio (II parte)
L'altro topos, che mi sembra degno di considerazione per la sua diffusione in ambiti molto diversi, è rappresentato dal concetto di “cultura”, di origine antropologica e utilizzato ragionevolmente per sottolineare che questa istituzione umana non costituisce solo un attributo delle élite nazionali e internazionali. Non starò a dire che gli antropologi non si sono mai trovati d'accordo su cosa sia la cultura, ma cercherò di illustrare solo alcuni suoi usi ideologici, nel senso di scaturiti da una certa concezione della vita sociale e funzionali al mantenimento di un certo sistema di potere [1].
La nozione di “cultura” è strettamente intrecciata all'ideologia “buonista” su delineata, perché consente di non chiamare in causa mai le strutture di potere, se non in maniera generica e astratta, e di ridurre la soluzione di problemi drammatici all'ipotizzato cambiamento di atteggiamento morale, all'abbandono di certe convinzioni perché se ne dimostra l'insostenibilità, quasi che lo scontro che si realizza nella vita politica e sociale sia paragonabile a un dibattito democratico tra due contendenti pazienti e tolleranti, che non lottano per la loro sopravvivenza. In questo senso, c'è sempre qualcuno che fa appello alla già menzionata cultura dell'accoglienza, alla cultura del rispetto delle diversità, o addirittura all'interculturalità per ipotizzare la fondazione di un mondo plurale in cui le differenti culture – la cui difformità risulta essere solo una “scelta di vita” - possano confrontarsi e convivere pacificamente. Di fronte a tale ipocrisia o ingenuità possiamo chiederci perché mai le diversità culturali sono accettate solo quando sono laterali e non mettono in questione un certo ordine, o perché mai coloro che sono portatori dell'ideologia egemone, affiancata dalla tollerata esistenza di forme ideologiche inoffensive, sono al contempo coloro che dispongono delle bombe nucleari e dei droni.
La pervasività del concetto di “cultura” è stata accompagnata dall'introduzione di un'altra nozione divenuta centrale negli ultimi decenni, quella di identità. Non c'è uno studente universitario delle facoltà umanistiche che, sull'onda della sua ragionevole voglia di costruire la sua personalità, non voglia dedicarsi allo studio di una qualche forma di identità, sia essa di genere, etnica, religiosa etc. Come ha mostrato Eric J. Hobsbawm (1996) [2], si tratta di un concetto (inteso in senso sociologico e antropologico) che appare nelle vicende politiche degli anni '60 negli Stati Uniti a causa delle grandi trasformazioni, che provocano l'indebolimento dello Stato-nazione, dei partiti, e dei movimenti basati sull'appartenenza di classe, e che spingono gli individui, privati di punti di riferimento più onnicomprensivi [3] ad affiliarsi a gruppi comunitari di vario tipo (locali, di genere, etnici, ecc.) (si veda in proposito: http://newleftreview.org/static/assets/archive/pdf/NLR21302.pdf).
Da tali gruppi sperano di ricevere un'identità, ossia un senso del loro ruolo e valore, grazie al quale attribuire un significato al processo storico che stanno vivendo e che si fa sempre più incontrollabile e sfuggente.
Anche se il panorama storico ci offre forme di identità consapevoli e combattive come la nozione di “negritudine” proposta da Aimé Césaire [4], me la sentirei di sostenere che la nozione di “identità” nasce all'interno dell'ideologia piccolo-borghese, che trova ancora una volta un modo per sfuggire al conflitto di classe, cercando di costruirsi uno spazio autonomo senza mettersi a rimorchio, come tradizionalmente fa, della classe egemone o di quella operaia. Probabilmente lo spostamento della lotta politica dalle rivendicazioni socio-economiche a quelle culturali è stato provocato dall'elevamento del tenore di vita di una parte consistente della popolazione dei paesi capitalistici, che si è trovata a vivere nella cosiddetta società dell'opulenza, e ha accantonato le tragiche previsioni sull'inevitabile impoverimento delle masse e sulla concentrazione della ricchezza inerenti al funzionamento dell'economia capitalistica [5].
Ma vediamo meglio in che senso l'enfasi sull'identità [6] è collegata all'ideologia piccolo-borghese, di cui ho delineato rapidamente alcuni tratti. Credo che alcuni di questi siano la ricerca del riconoscimento all'interno del sistema complessivo, che non viene messo in questione; l'approccio settoriale alle condizioni di vita sociale di un certo gruppo, come se fosse possibile isolarle dal funzionamento della totalità sociale, e l'abbandono di una prospettiva universalistica accusata di non cogliere la vita concreta e l'esperienza specifica degli individui. A ciò aggiungerei la mancanza di una visione gerarchica delle dimensioni sociali, perché considerata semplicistica e riduttiva, che per esempio fa del problema dell'uso del maschile (anche quando ci si riferisce a soggetti femminili) un problema di capitale importanza, e ignora che per intervenire con efficacia anche su questa usanza occorre prima ribaltare strutture profonde e persistenti, del tutto ignorate per semplicismo o superficialità.
Priva dunque della nozione di totalità e incapace di cogliere la stretta relazione dinamica tra le diverse istanze, individuando al contempo il loro diverso grado di rilevanza nella riproduzione di una certa forma sociale, l'ideologia piccolo-borghese ricade nel “buonismo”, indicando una prospettiva interclassista, il cui irrealismo oggi appare più che mai evidente (almeno a chi vuol vedere) e che occulta la spietatezza dei rapporti effettivi di dominio.
Papa Bergoglio e Atilio Borón
Prima di avviarmi alla conclusione di questa breve nota, voglio soffermarmi sui modi diversi di valutare in senso negativo il capitalismo e, in particolare, la sua attuale forma aggressiva. A questo scopo farò riferimento ad un evento che ha suscitato tanto interesse e persino scalpore in tutto il mondo e in particolare in America Latina: il discorso tenuto da Papa Bergoglio in occasione dell'incontro con i Movimenti popolari avvenuto in Bolivia nel luglio passato (si veda: http://www.news.va/es/news/el-papa-encuentra-a-los-movimientos-populares-el-d).
Non lo commenterò nella sua totalità, ma metterò in evidenza solo alcuni aspetti collegati a quanto detto in precedenza.
In primo luogo, vorrei sottolineare che sicuramente nel discorso di Bergoglio c'è la dura condanna del capitalismo nella sua fase attuale e del nuovo colonialismo che esso porta con sé sconvolgendo territori e popoli con la guerra. C'è anche il riconoscimento delle colpe della Chiesa – la sua partecipazione alla colonizzazione [7] – di cui chiede perdono, ma che ridimensiona grazie al procedimento semiologico del “vaccino” che - secondo Barthes [8] - opera attraverso il riconoscimento di un male parziale per occultare il male principale inerente a una certa istituzione. Infatti, se da un lato il Papa stigmatizza l'opera della Chiesa e delle potenze coloniali in America Latina all'epoca della Conquista, dall'altro invita a ricordare le migliaia di sacerdoti e vescovi che si opposero alla logica della spada con la forza della croce, dimenticando che spada e croce erano e sono rimaste a lungo strutturalmente omogenee, procedendo di pari passo [9].
Ci dobbiamo rallegrare che un Papa usi questi argomenti, ma dobbiamo valutare da quale punto di vista egli si colloca per comprendere se la sua critica è efficace e se da essa possa scaturire la possibilità di incidere sul reale, altrimenti ci ritroviamo anche in questo caso dinanzi alla manifestazione di un'astratta “buona volontà”.
Come è noto, Marx amava in maniera straordinaria l'opera di Balzac [10], nella quale è descritta con grande accuratezza e con prodigiosa capacità espressiva la società francese post-rivoluzionaria, in cui il denaro gioca un ruolo centrale e si avviano quei processi di mercificazione che oggi hanno invaso con la loro forza distruttiva tutto il tessuto sociale. Ma il grande scrittore francese non auspicava la trasformazione in senso democratico ed egualitario della corrotta società francese del suo tempo, anzi era un sostenitore aperto dell'assolutismo pre-rivoluzionario e guardava con simpatia al ristabilimento della funzione politica e sociale dell'aristocrazia, di cui tuttavia riconosceva la decadenza.
Qual'è invece la prospettiva indicata da Papa Bergoglio e dove ci conduce? Nel discorso su menzionato egli dichiara di non avere una ricetta per risolvere i problemi del mondo contemporaneo, anche se si sente molto vicino alle esigenze espresse dai Movimenti popolari, i quali mirano ad una redistribuzione generale della ricchezza, in modo da assicurare a tutti almeno “tierra, techo, trabajo” nella prospettiva del “vivir bien”. Egli dice anche che la destinazione universale de beni non costituisce un ornamento discorsivo della dottrina sociale della Chiesa, e che essa viene prima della proprietà privata, la quale tuttavia non è messa in questione, come d'altra parte non è respinta nemmeno nella già menzionata dottrina sociale. Si muove, dunque, in una prospettiva interclassista che ha come obiettivo quello di temperare e addolcire le asperità del capitalismo avido e distruttivo. E anche se Bergoglio indica tutta una serie di misure, ritiene sostanzialmente che per ottenere i mutamenti auspicati “Hay que cambiar el corazón”, riproponendo quella “rivoluzione interiore” di cui si parlava nelle pagine precedenti, e che pare non scalfire i responsabili della “competizione globale” né sovvertire i terribili risultati che produce.
Se, dunque, la condanna del capitalismo non porta sempre alla sua effettiva e radicale trasformazione, il noto intellettuale argentino, Atilio Borón, a mio parere, sbaglia quando scrive che le parole del Papa costituiscono un contributo alla costruzione del blocco anticapitalista, anche perché il suo discorso ha assunto un'improvvisa e inedita popolarità; al contrario, continua Borón, la stessa condanna pronunciata da Fidel, dal Che, da Chávez, ecc., è stata sempre considerata, dalla cultura egemone, arretrata e superata (si veda in proposito: http://www.pagina12.com.ar/diario/elmundo/4-276848-2015-07-11.html). Già, ma perché - chiediamo a Borón – la dura riprovazione del capitalismo espressa da Bergoglio ha avuto risonanza mondiale e ne è stata riconosciuta l'autorevolezza? Non è forse perché la prospettiva papale indica un percorso assai diverso da quello prefigurato da chi vuole agire sulle radici della spietatezza concreta del capitalismo contemporaneo?
Note
[1] Ossia nel senso che, nel libro già citato, Eagleton dà al concetto di ideologia, i cui contenuti si incarnano in significati materiali di vario tipo, che non sono il riflesso della realtà, ma una parte integrante di essa, nella misura in cui nei segni si concretano i rapporti sociali (v. op. cit., 2007: 232-233).
[2] Lo storico britannico osserva che la “Encyclopedia of Social Sciences” uscita nel 1968 non conteneva la voce “Identità” intesa in senso sociologico e antropologico.
[3] È interessante osservare che, nel suo saggio “America in the Techetronic Age” (Encounter, 1968) Z. Brzezinski fa osservazioni analoghe e afferma che le masse popolari non hanno ormai più uno scopo.
[4] Rimando il lettore che voglia approfondire questo tema al “Discorso sul colonialismo” di Césaire (2010) e al mio articolo “La civiltà coloniale europea tra dialettica e frammenti” (in Incontri e conflitti culturali in America Latina e nel Caribe, Roma 2013).
[5] Previsioni che oggi non ci appaiono più tanto irragionevoli.
[6] Negli ultimi anni si è sviluppata una critica al concetto essenzialistico di identità e si è sostenuto che tale entità psico-sociale è frutto solo di una convenzione e di una costruzione, nella quale arbitrariamente si cerca di cristallizzare una materia fluida (v. F. Remotti, Contro l'identità, Bari 1996). Tale impostazione, non certo nuova, delinea con precisione la figura antropologica dell'individuo funzionale alla cosiddetta società post-moderna, il quale dovrebbe essere dotato di una personalità fluida e frammentata, penetrabile alle sollecitazioni mutanti del mercato e incapace di assumere un atteggiamento consapevole e responsabile di opposizione e di resistenza.
[7] Enrique Dussel ha proposto l'utilizzazione del termine quanto mai appropriato di “colono-evangelizzazione”, per indicare il perverso intreccio tra potere economico-politico e potere religioso nella Conquista dell'America Latina.
[8] op. cit., 1974: 230
[9] Del resto, Joseph Shih S. J., un tempo docente di “Catechesi missionaria” presso la Pontificia Università Gregoriana, afferma che il colonialismo ha contribuito in due modi diversi all'evangelizzazione: ha sciolto il meccanismo di controllo sociale tradizionale, dando agli individui una certa libertà nella scelta religiosa; ha introdotto una forma di produzione che rendeva indipendenti gli individui dalle strutture precedenti di sussistenza (cit. da R. Calpini, Colonialismo missionario, Roma 2014, pp. 160-161). Si potrebbe aggiungere che l'impresa coloniale necessitava di un'ideologia che favorisse il suo successo, instillando senso di colpa e di inferiorità, come si può ricavare dalla letteratura missionaria dell'epoca coloniale
[10] Eagleton afferma che l'autore di Treviri avrebbe voluto scrivere un grande libro su Balzac, ma che si sentiva obbligato moralmente a lavorare a quella che considerava “una porcheria economica”, ossia lo studio de' Il Capitale (“Perché Marx aveva ragione”, 2013: 145)