La precoce simbiosi fra produzione d’arte, stampa e fotografia nella seconda metà dell’Ottocento coltivata in un rapporto dialettico fra giornalismo e correnti artistiche lungo l’arco del Novecento: questi i temi della mostra And Now the Good News, in programma fino al 15 agosto 2016 negli spazi espositivi del MASI Lugano, nell’innovativo polo culturale LAC del Ceresio.
di Ida Paola Sozzani
Curata da Elio Schenini del Museo Cantonale d’Arte di Lugano e dallo zurighese Christoph Doswald, la mostra presenta al pubblico 300 dipinti, disegni, fotografie e collages scelti dal corpus di 1500 opere che costituiscono una singolare raccolta di “Press Art” costruita a partire dagli anni Ottanta a Zurigo dai collezionisti Annette e Peter Nobel.
Articolata in tre grandi periodi – la prima metà del Novecento; i decenni tra 1950 e il 1980 e il periodo dagli anni Ottanta a oggi – l’esposizione documenta significativamente come le avanguardie artistiche a partire dal Cubismo, Futurismo, Dadaismo, Costruttivismo, e Surrealismo, e poi le altre correnti d’Arte lungo tutto il Novecento si siano obbligatoriamente confrontate con la comunicazione mediatica agita dai Giornali, rendendola tramite della sperimentazione di nuovi linguaggi artistici. Ma per comprendere la necessità e l’ineluttabilità di questo confronto bisogna partire da lontano.
E’ con l’affermarsi dell’industrializzazione nel mondo occidentale verso la metà dell’Ottocento, grazie all’innovazione dei procedimenti di stampa e l’invenzione della Fotografia, che la cronaca della quotidianità diventa un diritto all’informazione di tutti e si infila nelle rotative dei giornali per consegnarsi ogni giorno all’attenzione dei vari ceti sociali, e poi, rapidamente, all’oblio definitivo o alla Storia. Dalla prima innovazione del torchio meccanico a cilindri, azionato da una motrice a vapore, che stampava 600 fogli piani all’ora e fu utilizzato per la prima volta nel 1814 a Londra dal Times, dobbiamo arrivare al 1840 quando l’industriale tedesco Fiedrich Gottlieb Keller mette a punto il processo di produzione della moderna carta da stampa a partire dalla macerazione della pasta di legno, che dal suo primo impiego in Sassonia nel 1845 si affermerà come prodotto base della nuova industria tipografica popolare, sostituendo il vecchio e costoso impasto olandese fatto con gli stracci. Sarà questa nuova carta – un materiale povero, che costa un terzo ed è più facilmente stampabile ma assai più deperibile della carta di stracci – insieme alla Rotativa inventata nel 1847 e alla Linotype a decretare, nella seconda metà del XIX secolo, le fortune crescenti dell’editoria letteraria popolare e la nascita della moderna editoria di giornali, sia in Europa sia negli Stati Uniti. In particolare la linotipia fu una vera rivoluzione e rese la composizione dei testi un gioco da ragazzi e soprattutto un grande risparmio di tempo e di personale perché ora bastava un singolo addetto a fondere in un blocchetto di piombo una intera riga di parole, a partire da matrici di rame composte su una tastiera.
Archiviati dunque la vecchia pressa, i caratteri da stampa ed i costosi fogli di carta delle Gazzette d’informazione, ora è l’inesauribile bobina ad offrire una chance sempre più popolare alle notizie e a dettare le regole del moderno giornalismo: un nastro continuo di carta che il macchinario della Rotativa porge da sé a se stessa perché stampi il novello “rotolo sacro” contemporaneamente sui due lati – recto e verso – e lo ritagli in fogli che poi la macchina stessa incolla, ripiega e impila automaticamente in mucchi di 50 o 100 copie. Ed ecco bell’e stampate, in un’ora sola, fino a 96.000 copie di giornali di 10, 12 e 16 pagine nel cui corpo effimero quotidiano o periodico si condensano le notizie e le immagini che la nuova industria dei Giornali può ammannire alla massa dei potenziali lettori, e che all’inizio del Novecento dà ormai lavoro a nuovi profili professionali, riuscendo ad essere supportata da fortune imprenditoriali reinvestite nell’Editoria grazie al consolidarsi della pratica della Réclame, la nonna della Pubblicità.
Qualche storico sostiene che l’alfabetizzazione delle classi popolari servì soprattutto a questo durante lo sviluppo industriale dell’Occidente: a orientarne i desideri e i consumi, attraverso i giornali e la pubblicità, ricavandone volumi commerciali e profitti moltiplicati. E’ l’epoca in cui la povertà in Europa spinge milioni di persone ad emigrare verso l’America e negli Stati Uniti è l’età d’oro della Penny Press: gli strilloni vendono a un penny i giornali alle folle newyorkesi. E’ la Stampa per le masse urbanizzate e proprio sul giornalismo scandalistico, lo Yellow Journalism, si costruiranno, qui in America, i primi imperi mediatici.
Come quello di Joseph Pulitzer e dell’altro magnate dell’industria del legno e dell’editoria William Randolph Hearst, i cui introiti annui rasentavano i 15 milioni di dollari, e la cui attività influenzò fortemente lo stile giornalistico, l’opinione pubblica e la politica statunitense. Ad Hearst si ispirerà un Orson Wells appena venticinquenne per il suo primo lungometraggio Quarto Potere – titolo originale “Citizen Kane” – considerato dalla critica USA il miglior film americano di sempre.
In Europa i lettori di giornali sono soprattutto borghesi e la mostra luganese ne ritrae alcuni seduti ai tavolini dei bistrot parigini in magnifici dagherrotipi di metà Ottocento: si tratta dei primi ritratti fotografici così chiamati dal nome di Louis Jacques Daguerre, inventore nel 1839 – per la verità insieme ai due Niépce, padre e figlio – del primo procedimento chimico per ottenere immagini con l’impressione dei fotoni, in cui argento, mercurio e iodio danzano sulla lastra di rame catturando la luce riflessa dagli oggetti.
E a New York già nel 1850 si pubblica The Daguerreian Journal devoted to the Daguerreian and photographic Art. Ma è solo l’inizio e dal 1855 con l’introduzione delle nuove tecniche al collodio umido o all’albumina – che permettono di riprodurre oltre che ottenere le immagini – la stampa fotografica esordisce in grande stile anche sui giornali. Dal 1885 il Retino fotografico sostituirà gli xilografi e i giornali si riempiranno sempre più di foto a partire dal 1902, quando al “Berliner Illustrirte Zeitung” viene impiegata la prima macchina Rotativa che stampa simultaneamente testi e immagini. La stampa fotografica farà immediatamente perdere alla pittura il monopolio dell’immagine e proietterà l’attività dei pittori, sempre più svincolati dalla committenza di immagini d’occasione, verso le sperimentazioni artistiche della modernità: Impressionismo, Cubismo e Arte astratta nasceranno così, nel volgere di pochi decenni, da una sottrazione di ruoli ordinari di cui era stata carica la Pittura fino all’invenzione della Fotografia.
All’inizio del Novecento nelle città d’Europa e d’America i caffè, i club ed i circoli della nuova borghesia sono dotati di salette per la lettura dei giornali sfornati da intraprendenti editori, si tratta sempre di diurnalis ma grondanti di modernità industriale che propagandano velocità e progresso; oggetti cartacei dalla vita effimera destinata a non durare ma a scandire inesorabilmente le nuove vite massificate: crescenti tirature di quotidiani che nei decenni a venire rasenteranno in Italia il milione di copie, che finiscono in gran parte invendute, e allora naturalmente destinate al macero. E dunque il Giornale come metafora caduca delle nostre esistenze, icona massima della quotidianità novecentesca in cui si riverbera sia l’Arte sia il tempo sempre più accelerato della Storia.
Nelle inquietudini di inizio secolo sarà con manifesti, opuscoli stampati e collages che i Futuristi italiani daranno voce al protagonismo bellico della borghesia italica invocando la “Guerra sola igiene del mondo” col manifesto di F. T. Marinetti del 1915, proprio mentre i Dadaisti anarchici di Zurigo guidati da Hans Arp, Marcel Janco e Kurt Schwitters cercavano di contrastare la propaganda di guerra che più tardi avrebbe aperto la strada alla presa del potere dei nazisti in Germania. Dopo la rivoluzione sovietica del ’17 i costruttivisti Rodèenko, Sokolov e la Stepanova abbozzano nei loro collage l’immagine di una Unione Sovietica moderna e vincente, mentre Braque, Ausleber, Picasso e Judin Law utilizzano i giornali nelle loro pitture per commentare la vita nelle grandi città del mondo.
Nel processo di affermazione della modernità che pur tra le tragedie di un duplice conflitto mondiale caratterizza la prima metà del Novecento, l’oggetto giornale e la figura del lettore di giornali diventano protagonisti assoluti del paesaggio sociale, come testimoniano le foto in mostra di Cartier-Bresson, Walker Evans, Gotthard Schuh, Robert Capa, Rudy Burckhardt.Sia che l’interesse degli artisti per la carta stampata fosse spinto dalla pura ricerca di un supporto cartaceo materiale della produzione artistica – come dimostrano i papiers collés, papiers peints e collage di giornali dei maggiori esponenti del Cubismo, del Dadaismo e del Surrealismo quali Braque, Arp, Schwitters, Miró e Giacometti – sia quando la Press diventa la protagonista, l’alter ego o il referente concettuale della ricerca artistica – con i rappresentanti delle Neoavanguardie degli anni Sessanta, quali de Kooning, Warhol, Beuys, Boetti, Christo e Polke – il giornale agisce e reagisce nei confronti dell’arte e per lunghi decenni fungerà anche da palcoscenico della dialettica triangolare fra artista, critica e pubblico.
Il rapporto fra arte e stampa si rinnova nel secondo dopoguerra con Arte povera, Nouveau Réalisme, Pop Art e Arte Concettuale: Andy Warhol stigmatizza la mediatizzazione crescente del mondo ritraendo nella sua Factory gli amici alle prese con i giornali e profetizza: “In the future everyone will be world-famous for 15 minutes”, anticipando così la cultura autoreferenziale dei “selfie”, di Instagram e di Facebook.
Trainata dall’industria cinematografica che va a gonfie vele, tra gli anni Cinquanta e Settanta dilaga il fenomeno del divismo: il culto della personalità e la società dello spettacolo diventano le nuove metafore e i punti di riferimento della società di massa; Wharol, Liechteinstein e Rauschenberg riprendono e riusano le immagini che la moderna Pubblicità produce: la serie di ritratti “Marylin” del 1967 e la copertina del tabloid “New York Post” ben rappresentano la fascinazione di Wahrol per gli argomenti legati al sesso e alla criminalità. Sigmar Polke usa le copertine dei giornali tedeschi Blick e Bruckenbauer. Provocatoriamente i Dècollagistes Villeglé, Hains e Mimmo Rotella sviluppano in antitesi all’estetica del collage l’atto dello strappo, agito nelle strade stesse, di manifesti affissi uno sull’altro, mentre Christo procede ai suoi classici impacchettamenti anche con i giornali: è il magazine-wrapping.
Negli anni Sessanta l’importanza decretata all’industria dell’intrattenimento influenza anche la politica: con John F. Kennedy viene eletto per la prima volta un presidente degli Stati Uniti le cui apparizioni – in mostra la foto del suo assassinio – diventano eventi mediatici. Sono gli anni in cui filosofi, sociologi e semiologi si occupano dei nuovi linguaggi e le teorie dell’arte e della comunicazione si contaminano fecondamente: The Medium is the message di Marshall Mc. Luhan o Apocalittici e integrati di Umberto Eco e La società dello Spettacolo di Guy Debord diventano i “fondamentali” che nessun intellettuale può permettersi di ignorare perché contengono le parole chiave necessarie per decodificare attraverso l’indagine socio-scientifica la funzione e l’effetto dei mass-media.
Il confronto serrato arte-media giunge fino ai giorni nostri con alcune figure di primo piano del panorama artistico recente, tra i quali Muntadas, Kentridge, Signer, Muniz e Hirschhorn che dei giornali cartacei e on-line fanno il palcoscenico del proprio messaggio, con produzioni dedicate e interventi di vero e proprio giornalismo d’Arte. L’inserto con i collage “esplosivi” dedicati alla guerra diffusa e alle tragedie dei migranti dell’artista bernese Thomas Hirschhorn e la sua copertina per la “Lettura” del Corriere della Sera di domenica 5 Giugno 2016, attestano la durevole prassi sovversiva dell’arte e rilanciano al grande pubblico la tematica della mostra luganese. Nelle ultime sezioni della collezione di Annette e Peter Nobel c’è spazio anche per il racconto sociale e di costume, per l’irrompere delle nuove mode e icone Pop, per la riflessione esistenziale e sul valore del Tempo, per l’indagine fenomenologica, la critica politica e la sovversione ironica: tanti aspetti capaci di catturare l’attenzione del visitatore più ignaro ingaggiandolo in un confronto avvincente con l’evoluzione dei linguaggi dell’arte e della comunicazione mediatica.
Da ultimo, nell’avveniristica sala-belvedere del LAC di Lugano, la pagina di un Quotidiano, rinnovata ogni giorno dagli addetti del museo, sospesa da un getto d’aria contro il vetro e il lago, nell’opera site specific di Roman Signer diventa il punto conclusivo di questo racconto e l’inizio di uno nuovo: quello che milioni di persone ogni giorno cominciano leggendo le pagine di un giornale e augurandosi che possa essere finalmente il giorno delle “good news”.