Prosegue l’indagine giuridica e linguistica sul tema dei diritti umani, tra universalità e particolarità. Judith Butler si chiedeva: “Ma questi due gesti – affermazione dei diritti universali e delle specificità comunitarie – sono in ultima analisi compatibili? E se non lo sono, questa incompatibilità concreta, aprendo la strada a una varietà di negoziazioni e a una pluralità di giochi linguistici, non è forse necessaria per la costituzione degli spazi pubblici nella società in cui viviamo?”
di Renata Puleo
segue da parte I
Lingua ?
La Lingua, ribadisco, entra a pieno titolo nella riflessione sui diritti, sia per il lato puramente pratico e funzionale della comunicazione quotidiana, il comprendere e il comprendersi diremo ordinario, sia dal lato della soddisfazione di una più profonda e non strumentale esigenza di espressione e di comunione interumana. La Lingua è, al momento attuale, messa direttamente al lavoro, è mezzo per produrre ricchezza ed elemento essenziale del prodotto finito. Tutto entra nella grande macchina produttiva. Non solo come nel modo di produzione del primo capitalismo, in quanto sapere colto, scientifico, o saperi artigianali, ma come generiche attitudini della mente, come facoltà umana di pensare. La qualità emergente dalla complessità delle nostre vite, il tempo libero, il tempo del pensiero e dei discorsi quotidiani, sono trasformati in fonte e moltiplicazione di ricchezza [1].
Rispetto al tema della universalità, di ciò che ci fa umani, attribuire alla capacità razionale, così come è stata declinata dalla filosofia occidentale, un carattere trans-personale può indurci in errore, un errore, ancora una volta, di narcisismo neocoloniale. Per contro, attribuire alla Lingua – facoltà e attualizzazione – caratteristiche di comune umanità, è politicamente utile e serve agli scopi degli educatori. Non penso alle realizzazioni di questa o quella Lingua, considerato che è di nuovo in auge l’ipotesi di Sapir-Worf sulla influenza tra modi di pensare e Lingua utilizzata [2], ma all’essere in potenza di parlare, facoltà dunque. Il dibattito su questa tematica si è ampliato, non ruota più intorno alla diade innatismo e evoluzionismo, almeno per due buone ragioni.
La prima, è che non sappiamo dove rintracciare un inizio pre-umano, anteriore, oltre, la parola, se non per mere figurazioni ipotetiche che descrivono l’i-numano; la seconda, è che il paradigma evoluzionista non è rimasto fermo ad un semplicistico darwinismo, si è arricchito con i contributi sui grandi processi stocastici, sugli apporti propri dei sistemi culturali [3]. Insomma, siamo biologia e cultura. In questa doppia identità, la costante linguistica è certa. Sicuramente, anche questo apparato utile a una definizione di universalità cultural-biologica, potrebbe essere decostruito (distrutto?) mediante la critica alla soggettività e alla razionalità di tipo neoliberista, a cui facevo cenno prima. Ma con mente locale a quel che conosciamo, anche in una chiave antropologica ingenua, sui rituali, sui formulari, sui sistemi attraverso i quali si compie in una Lingua specifica ciò che è tipico di una mentalità, ritroviamo le universali attitudini della Lingua, intorno alle quali costruire nuove possibilità rivoluzionarie, a ridosso degli incontri fra culture.
Se la Lingua ha questo statuto inter-trans-individuale, hanno ragione i nostri governanti a fare della conoscenza dell’italiano un requisito per permanere sul suolo nazionale e un fattore di inclusione? Ovviamente no. La prima ragione risiede nella povertà della elaborazione a sostegno di tale necessità, brutalmente di stampo performativo-funzionale: la Lingua da apprendere è quella della comunicazione spicciola, che già per altre vie i migranti possono aver appreso. La ricchezza dello scambio culturale che si sviluppa a scuola, fitto di conoscenza reciproca nella presenza dei corpi parlanti (Lingua embodied, incorpata; scoperta della empatia anche nei fatti percettivi, come semiotica del gesto), la lingua desiderante, l’adultità tipica della scelta di quale e quanta Lingua apprendere, sono tutte sfumature sconosciute alla secchezza burocratica del linguaggio delle questure.
La seconda ragione è che anche questa scelta governativa persegue una politica di inclusione mediante assimilazione. Si alimenta la paura dello straniero, del nemico esterno, si lavora ad aumentare la quota normale di timore per la penuria e per l’espropriazione di risorse, si mette in atto una manovra duplice, repressiva verso tutti, in base al principio genericamente securitario e di regolazione subdola del flusso migratorio.
Il migrante è l’Altro sotto qualsiasi veste lo si voglia vedere. Barbaro, selvaggio, sovversivo (terrorista potenziale), deve essere eliminato come problema visibile, come fastidiosa increspatura del nostro quotidiano tran-tran di cittadini operosi. E se il selvaggio può godere della nostra paternalistica attenzione in quanto (secondo l’osservatore!) senza Storia, parlante in una Lingua minore che mette in patimento anche il pensiero, il barbaro arriva con una Storia e una Lingua, con una Religione e con esse (soprattutto con quest’ultima) può attaccare le nostre istituzioni.
Nell’uno e nell’altro caso chi arriva, collocato simbolicamente sulla barra hospes/hostis, non è mai in-fans, gode della facoltà umana della parola, dunque è bene addomesticare quest’ultima ai fini del processo di inclusione-assimilazione. A questo scopo può bastare un poco di cultura del Paese ospitante, una piccola quota-parte del patrimonio linguistico dominante [4], ciò che fa resto – le Lingue Materne! – deve cadere nell’oblio di una oscura quotidianità, perdersi insieme a qualsiasi velleità di resistenza culturale o semplicemente di scambio di saperi. Anche la conoscenza dei principi della nostra Costituzione la si millanta come necessaria agli “ospiti”, richiamo cultural-politico all’italianità, mentre si opera per sminuirla come fatto storico ormai obsoleto.
Concludendo, nella operazione di assimilazione, fra test e linee-guida, fra agenzie accreditate e scuola, gli insegnanti si vedono costretti ad abbandonare l’originalità del loro insegnamento, dei percorsi in cui si scambiano doni culturali, perché questa è una didattica che vuole tempo. Tempo che i migranti non hanno più.
L’ex presidente Giorgio Napolitano, in uno degli innumerevoli richiami etico-politici diffusi durante il suo mandato, invitò il legislatore a considerare la questione della naturalizzazione dei bambini nati in Italia da genitori stranieri, impostando la questione sull’antico, complesso, rapporto fra ius solis e ius sanguinis. Ebbe modo di occuparsene Clistene, nel IV secolo a.C., quando capì che la democrazia non poteva tollerare la preminenza del diritto derivante dal legame di sangue, che dovesse prevalere un concetto di cittadinanza basato sulla semplice presenza attiva nella polis [5].
Il problema è dunque vecchio, di una vecchiezza epistemologica oltre che politica, verrebbe da dire. La questione non può più esser posta in questi termini, o per lo meno, non è più sufficiente porla cosi. Manca, a mio parere, l’attenzione al problema linguistico, nodo centrale dalla migrazione, insieme al lavoro.
Migrazione che è fenomeno ormai non più sporadico, ma con le proporzioni e la drammaticità che oggi gli conosciamo. Non si tratta più di integrare il migrante nei Paesi di accoglienza assimilandolo alla cultura dominante, imponendo la marginalizzazione della lingua di provenienza, e l’apprendimento di lingue ufficiali o veicolari. Oggi, la sfida - se l’accoglienza dovesse concretizzarsi - è la creazione di sistemi di traduzione, di trans–significazione, di incontro fra le tante lingue presenti in un luogo, su un piano sociale e linguistico più alto. Alcune comunità etniche, parlando del rischio di genocidio linguistico, non alludono solo alla perdita della Lingua Materna ma anche all’impoverimento culturale, affettivo e cognitivo delle lingue cosiddette funzionali, atte all’uso banale e quotidiano della mera sopravvivenza.
“Il rapporto con un’altra lingua, con la lingua straniera è un rapporto veicolato dalla tecnica, è un rapporto tecnico. Il caso paradigmatico è ovviamente quello della lingua inglese…che non ha più l’essenza di una lingua, abbassata com’è a mero strumento di scambio, dimentica nella traduzione ogni strumento dialogico” - e ancora, citando Wilhelm von Humbold - “[…] le lingue, tutte, anche gli idiomi dei popoli cosiddetti rozzi, che tali possono apparire solo perché non si conoscono abbastanza, hanno la qualità prodigiosa non solo di poter bastare all’uso quotidiano, ma di poter essere elevate infinitamente ad un uso più alto e multiforme”, afferma Donatella Di Cesare [6].
La dominanza linguistica è stata consustanziale alla formazione degli Stati moderni, si è detto. Il concetto di nazione/nazionalità è passato proprio dalla ufficialità di una Lingua, al massimo con qualche tolleranza per alcune nicchie linguistiche minori. La burocrazia, ufficium e sistema di procedure, ancora fondamentale per il funzionamento dello Stato, per il mantenimento della ufficialità linguistica, è garantita con l’obbligo della redazione dei documenti nella Lingua Nazionale. Nelle aule dei Tribunali, negli Uffici pubblici, nelle struttura sanitarie, essa deve fare i conti con la pluralità delle lingue presenti sul territorio nazionale. Come si vede l’intreccio – Lacan direbbe realistico e simbolico- fra Lingua e Legge, si fa determinante per una riscrittura, non in astratto, del concetto di cittadinanza, legato all’assunto inequivocabile che si nasce cittadini della Terra e non di un determinato Paese.
Nei laboratori linguistici in cui si trasformano le classi di adulti non italiani, situazioni-contesto, come ho detto, piuttosto complesse, in cui i corpi sono segnati dalla frustrazione, dall’umiliazione, dalla perdita, dal risentimento, dal silenzio e spesso dall’ostilità verso gli altri, nell’offuscamento di ogni desiderio legato alla parola, motore primo di ogni parlare/parlarsi, si parte proprio dalla malinconia della Lingua Materna. E’ operazione assai più rischiosa e di lenta fattura che un obiettivo di performance sull’alfabeto o sulla nomenclatura. “Porre attenzione al vissuto di ciascuno, alla memoria, al presente che costituisce in embrione il nuovo tessuto relazionale, ai sogni, ai desideri, alle aspettative, ai fabbisogni sociali e ai bisogni personali. Imparare ad osare, utilizzando metodi e strategie diversi, di volta in volta rispondenti alla situazione, lasciarsi guidare dal lato creativo che alberga in ciascuno, attingere alle risorse di ognuno, legate alla corporeità, alla varietà nell’utilizzazione di tutti i linguaggi espressivi. In un clima di insegnamento/apprendimento di questa qualità, la narrazione diventa lo strumento privilegiato. Modalità umana e trans-culturale, essa trasforma la storia e il racconto provenienti dal vissuto e dai depositi culturali di provenienza, in storia condivisa, di tutti” [7].
Gli insegnanti che hanno scritto questo passo conoscono, per presa diretta sui gruppi di migranti con i quali hanno lavorato, che la narrazione non corrisponde mai ad una veritiera memoria di fatti, e non di questo ha bisogno il gruppo che ascolta e l’insegnante che elabora e utilizza il racconto in funzione didattica. Il racconto è soprattutto epos. E’ un discorso che nelle fratture della Lingua, nel mescolarsi delle dizioni e dei gesti, nel baluginare di ciò che resta impigliato nelle difficoltà di uso di una interlingua provvisoria, è anche e soprattutto una scena. Ma ogni scena implica la presenza dell’altro come interlocutore e come coro. Il coro, gli interlocutori silenziosi o parlanti, completano la verbalizzazione, la interpretano, la mescolano con i propri vissuti, nella costruzione di un senso condiviso.
Non nella ricerca di una verità, inesprimibile, sia per la difficoltà ad usare la Lingua Italiana, sia perché ogni verità rimane sempre segnata da un dire che resta nascosto. La Lingua, assicurano i docenti che lavorano così, si impara, si impara come Lingua seconda che fa lavorare la prima, la Lingua Materna. Le conferisce dignità e le fa fare il lavoro contrastivo necessario a tradurre. Ci vuole tempo, disciplina intesa come costanza, come attaccamento al compito. Ci vuole conoscenza profonda della Lingua da parte del docente perché l’iniziale babele sia attraversata da annotazioni sintattiche, semantiche, retoriche tipiche dell’italiano. Ci vuole tempo, perché i silenzi, i balbettii, le rinunce, sono una costante di questo lavoro. Il risultato è un apprendimento sicuramente fitto di errori, ma capace di assicurare uno scambio ricco, mai banale, soprattutto di veicolare quel desiderio della Lingua, quel godimento della parola scambiata, che favoriscono approfondimenti successivi e lo studio continuo. Le lingue seconde apprese velocemente per frasi fatte, idiomatiche, e per nomenclature e esercizi grammaticali, restano inerti al sentimento, all’emotività, funzionano come comunicazione lineare di bisogni spiccioli. Nulla invita ad ascoltare il corpo desiderante di chi deve apprendere l’italiano, nulla richiama i pragmata comuni e universali, se non nella volgarità di qualche curiosità folkloristica [8].
Oggi, la negazione della Lingua come primo diritto, nel quale nasciamo al nostro stato di umani senza alcun bisogno di sanzioni giuridiche, è praticata sotto specie di una norma feroce, dis-umana, il semplice “no”, la parola del respingimento. Si tratta di facce della stessa moneta, nello scambio mercantilistico delle vite.
Note
[1] Marazzi Il posto dei calzini. La svolta linguistica dell’economia e i suoi effetti sulla politica Bollati Boringhieri, Torino,1999; Capitale e linguaggio Derive Approdi Roma, 2002; P.Virno Grammatica della moltitudine CDerive Approdi Roma, 2002; A. Negri Guide, cinque lezioni su Impero e dintorni Raffaello Cortina, Milano, 2003
[2] AAVV Lingue, corpo, pensiero: le ricerche contemporanee Carocci, Roma, 2010
[3] F. Ferretti La grammatica di Chomsky il manifesto 7 gennaio 2011
[4] G. Zagrebelsky Sulla Lingua del tempo presente Einaudi, Torino, 2010
[5] A. Brelich Gli eroi greci Adelphi, Milano, 1958
[6] D. Di Cesare Utopia del comprendere Il Melangolo, Genova, 2003
[7] Documento inedito MCE-SIF, 2003
[8] F. Lo Piparo Aristotele e il linguaggio. Cosa fa di una lingua una lingua Laterza, Roma-Bari,2011