Nata da un’idea di Stefano Accorsi e trasmessa in chiaro questo mese su La7, la serie italiana 1992 cerca di rappresentare in nove ore, attraverso le vicende intrecciate dei personaggi, uno dei momenti di svolta nella storia del nostro Paese: dal sistema di corruzione e tangenti, scandagliato dai magistrati, alle sue ripercussioni nel mondo affaristico, dalla preparazione dell’ascesa politica berlusconiana alla mercificazione del corpo delle donne, vinte dal degradante modello che veniva affermandosi dell’aspirante soubrette televisiva di second’ordine. Poca critica e analisi, un susseguirsi di fatti di cronaca che fanno da sfondo alle mere vicende personali, assieme ad una retorica banalizzante dei fatti socio-politici dell’epoca, fanno di questa serie uno strumento, anche piacevole, di svago ma privo di qualsiasi carica ulteriore.
di Alessandro Bartoloni
L’idea di Stefano Accorsi non è male. Se oggi vuoi dare in pasto al grande pubblico lobotomizzato un resoconto degli eventi accaduti in un anno denso per l’Italia quale il 1992, non c’è niente di meglio che una finzione. Il cast è di tutto rispetto, i protagonisti - Tea Falco, Miriam Leone, Guido Caprino, Domenico Diele, Alessandro Roja, oltre allo stesso Accorsi - sanno fare bene il proprio lavoro. Quel che non convince, purtroppo, è la visione socio-politica che viene proposta di quel periodo.
Con Berlusconi pregiudicato e politicamente superato da Renzi e Dell'Utri addirittura in carcere si doveva fare di più. E invece niente che vada oltre l’immagine superficiale e stereotipata che ne hanno la maggior parte degli italiani. Mera cronaca fortemente romanzata di alcuni dei principali fatti dell’anno, senza nessuna ricerca dei motivi. Così si finisce per assistere ad una fiction che serve proprio a quella pacificazione nazional-popolare che la costituzione Boschi-Verdini vorrebbe suggellare.
Per sintetizzare un anno in nove ore, il regista intreccia le storie personali e politiche dei sei protagonisti, tutti maschere di un epoca ma tutti privi della necessaria coscienza. I principali episodi dell’inchiesta Mani Pulite (e delle stragi stato-mafiose) oltre a scandire lo scorrere del tempo non servono ad altro.
Di Pietro (Antonio Gerardi) e gli imprenditori che via via decidono di parlare, sono spinti unicamente da considerazioni personali - l’ossessione per Craxi del primo, vendette e paure per i secondi - senza che minimamente si accenni alla causalità tra la fine del “secolo breve” col crollo delll'Urss e quella della “prima repubblica” con Tangentopoli.
L’assenza di scrupoli rimane un fatto della famiglia Mainaghi, così come il ricorso alla criminalità organizzata, nel caso specifico utilizzata per sottrarre i capitali e i relativi movimenti alle grinfie dei magistrati. Tangentopoli è il sistema che emerge, non il capitalismo. E per capire che la forma è sostanza questa fiction non aiuta.
La tesi di un prodotto televisivo neo-costituzionale è rafforzata dall'interpretazione della preparazione della “discesa in campo” di Silvio Berlusconi. La persona è priva di un personaggio e tutto ruota attorno ad Accorsi, guru del marketing che affianca Marcello Dell'Utri (Fabrizio Contri), capo di Publitalia 80 che si impegna a “salvare la repubblica delle banane”.
Alla dotta citazione, però, segue unicamente la ricerca del “moderato” vincente su cui puntare. I legami con Craxi sono occultati e la crisi aziendale addirittura ribalta nel suo contrario, grazie al lavoro individuale e individualista portato avanti da Accorsi. È lui, nella fiction, che fin dall'inizio fa propria la citazione di Dell’Utri e alla fine lo convince della necessità della discesa in campo. Qualunque riferimento al modello di politica-show made in Usa è bandito, come pure qualunque accostamento con la Mafia. Tutto è quel che appare, Berlusconi in politica per sopperire alla mancanza di un moderato vincente su cui puntare. Niente di più.
Alla cattiva interpretazione dei fatti politico-economici si aggiunge la rappresentazione acritica degli usi e costumi dell’epoca, che con la stagione 92-93 invadono lo stato e le sue istituzioni.
Si intuisce che i primi a portare gli anni ottanta in politica, con tutta la loro volgarità e squallore, non furono i berlusconiani, ma la Lega Nord, prima forza politica a saper efficacemente mascherare i valori di destra col populismo. Pietro Bosco (Guido Caprino), infatti, non è solo un mezzo troglodita, ex combattente che preferisce il congedo con disonore al tradimento di un camerata, reclutato ed eletto col Carroccio in quanto “giustiziere” per una notte. Ma è anche uomo “che ha bisogno di una puttana per fare finta che qualcuno lo ami” (Miriam Leone), una showgirl di infima categoria che vuole fare il grande salto a Domenica In e per questo è disposta a tutto. Principalmente ad andare a letto con chiunque le possa assicurare il successo. Il leghista le promette di “prendersi cura di lei” mantenendola e finanziandole un corso di recitazione per permetterle di realizzare le proprie ambizioni. Che non hanno nulla di artistico, come invece era per la madre, interprete di quel teatro sperimentale da rigettare insieme a tutto ciò che rappresenta.
È nella storia familiare di questa donna, infatti, ed in quella della figlia adolescente di Accorsi, che la fiction chiarisce quali sono le forze da espellere dall'arco neo-costituzionale.
I comunisti, ovviamente, e tutti coloro che si rifanno a quanto avvenuto tra il '68 ed il '77. Un periodo fatto anche di liberazione sessuale e spirito critico, che nelle due donne in questione, però, si traduce in mera prostituzione, reale (per la prima) e figurata, per la seconda, attraverso la partecipazione a Non è la Rai.
L’unica interpretazione buona dell’aspirante showgirl, infatti, è quando, durante il corso di recitazione, interpreta (ma in verità rivive) il giorno in cui ancora adolescente scoprì la madre che faceva sesso con un uomo. Lo sguardo di lui, che si accorge della sua presenza, le fa venir voglia di provare e dopo, inevitabilmente, diventa una prostituta.
La figlia di Accorsi, invece, rappresenta per lui un passato che vorrebbe dimenticare, quando era comunista a Bologna e mise incinta un’amica lesbica che desiderava essere madre. Che però quegli anni, a differenza sua, non ha rinnegato. Ma dal cui insegnamento la figlia adolescente scappa, per rifugiarsi dal padre che non conosce ma che ama proprio perché rappresenta l’altro rispetto a ciò che la madre ancora, malgrado tutto, incarna e propone.