Segue dalla prima parte.
Dopo la premessa, cominciamo ad inquadrare il pensiero del Che, in particolare quello espresso nella lettera, che dà il titolo a questo articolo. Il mio discorso ha lo scopo di suscitare un dibattito non certo nuovo sul carattere più o meno etico del marxismo, e sulla questione della complessa relazione etica / scienza. Non ho da proporre una tesi preconfezionata.
Come è noto, l’autore di cui qui ci interessiamo, Ernesto Che Guevara, era sostenitore di un marxismo umanistico impegnato in senso morale, che aveva ricavato dai Manoscritti parigini del 1844 e dall’opera di un marxista argentino, Anibal Ponce (1898-1938), il quale aveva riproposto nelle sue opere la nozione di “uomo nuovo”.
Riporto qui un’affermazione del Che, utile a comprendere la sua posizione al riguardo: “Il socialismo economico senza la morale comunista non mi interessa. Lottiamo contro la miseria, ma lottiamo al tempo stesso contro l’alienazione. Uno degli obiettivi fondamentali del marxismo è eliminare l’interesse, il fattore ‘interesse individuale’ e il lucro dalle motivazioni psicologiche. Marx si preoccupava tanto dei fattori economici quanto della loro ripercussione sullo spirito. Chiamava ciò ‘fatto di coscienza’. Se il comunismo si disinteressa dei fatti di coscienza, potrà essere un modo di ripartizione, ma non sarà mai una morale rivoluzionaria” (intervista concessa a Jean Daniel nel 1963).
Poco dopo, nel 1965 ad Algeri, ad una Conferenza afro-asiatica, il Che pronunciò un celebre discorso non apprezzato dai sovietici: “Da quando i monopoli si impadronirono del mondo, hanno mantenuto nella povertà la maggior parte dell’umanità, mentre i guadagni venivano divisi tra i paesi più forti. II livello di vita di questi paesi è fondato sulla miseria dei nostri; bisogna dunque lottare contro l’imperialismo per innalzare il livello di vita dei popoli sottosviluppati. E ogni volta che un paese si stacca dal tronco imperialista non solo si vince una parziale battaglia contro il nemico fondamentale, ma si contribuisce anche al suo reale indebolimento e si fa un passo avanti verso la vittoria definitiva.”
A queste parole aggiunse: “Lo sviluppo dei paesi, che iniziano il cammino verso la liberazione (dall’imperialismo) deve pesare sui paesi socialisti […] non può esistere il socialismo se nelle coscienze non si opera un cambiamento che provochi un nuovo atteggiamento fraterno di fronte all’umanità, sia di indole individuale, nella società nella quale si sta costruendo il socialismo o è già stato costruito, sia di indole mondiale, in relazione a tutti i popoli che soffrono l’oppressione imperialista.”
“Crediamo che con questo spirito vada affrontata la responsabilità di aiutare i paesi dipendenti. Non si dovrebbe più parlare di sviluppare un commercio di mutuo beneficio basato sui prezzi forzati nei paesi arretrati dalla legge del valore e dalle relazioni internazionali di scambio ineguale che derivano dalla legge del valore. Come può essere ‘reciprocamente vantaggioso’ vendere ai prezzi del mercato mondiale le materie prime che costano ai paesi sottosviluppati sudore e sofferenza incommensurabili e acquistare ai prezzi del mercato mondiale i macchinari prodotti nelle grandi fabbriche automatizzate? Se stabiliamo questo tipo di relazione fra i due gruppi di nazioni, dobbiamo convenire che i paesi socialisti sono, in una certa maniera, complici dello sfruttamento imperialista. […] I paesi socialisti hanno il dovere morale di liquidare la tacita complicità con i paesi sfruttatori dell’occidente. […] Il vero compito consiste nel fissare i prezzi che consentiranno lo sviluppo. Un grande cambio di concezione consisterà nel cambiare l’ordine delle relazioni internazionali: non deve essere il commercio che stabilisce la politica, bensì, al contrario, il commercio deve essere subordinato ad una politica fraterna verso i popoli”.
La lunga citazione ci consente di comprendere ancora meglio che per il Che la sconfitta dell’imperialismo doveva essere accompagnata da nuove relazioni tra i paesi socialisti e quelli in via di sviluppo ispirate da principi etici di collaborazione e di fratellanza.
Ai contenuti critici di questo discorso molti attribuiscono la scelta, da lui fatta successivamente e concordata con Fidel e Raul, di limitare la sua esposizione politica; scelta in seguito alla quale gli fu affidato il compito di dirigere l’intervento armato in Africa dopo l’assassinio di Patrice Lumumba [1], a fianco dei Simba, movimento proto-politico che si richiamava al marxismo, ma che era anche fortemente impregnato di credenze tradizionali. Cosa che scoraggiò profondamente il Che.
Dopo questo riferimento alla posizione del Che, ritorniamo al problema delle relazioni tra il marxismo, la morale e l’etica, intesa nel doppio significato di esplicativo e normativo. Come già si accennava, tali relazioni hanno un carattere problematico, tanto che per alcuni marxisti in realtà esse sarebbero di carattere divisivo e conflittuale. Alcuni giungono ad affermare che nel marxismo non c’è spazio per la morale, né nella sua teoria né nella sua pratica, per la preoccupazione che essa ne possa inficiare il valore conoscitivo. Proprio per la problematicità della questione qui affrontata bisogna dire che la relazione tra il marxismo, la morale e l’etica nei due significati su indicati non può essere impostata allo stesso modo.
Tornando a Marx, è difficile non riconoscere che, benché non troviamo in Marx un’etica sistematica, è innegabile che nella sua opera ci imbattiamo in idee esplicite ed implicite (le più numerose) sulla morale, sulla sua natura ideologica, sul suo vincolo con le relazioni di produzione, sulla sua funzione nella società borghese.
Nel suo libro del 1969 (Etica) il già menzionato filosofo messicano Sánchez Vásquez ha esaminato con attenzione questi aspetti della riflessione di Marx, da cui ha ricavato che il Moro tratta la morale come oggetto teorico con una finezza concettuale sufficiente ad ispirare un’etica che alcuni marxisti hanno cercato di sviluppare. A suo parere i rapporti tra morale e marxismo diventano più conflittuali sul piano normativo che su quello esplicativo, quando per esempio Marx ed Engels descrivono ed interpretano la morale borghese.
Prima di procedere nell’analisi di tale ipotetica etica secondo Sánchez Vásquez dobbiamo chiederci se essa è effettivamente presente nella critica rivolta da Marx ed Engels al capitalismo, la cui dinamica del resto è scientificamente spiegata, se nutre il progetto di emancipazione implicito a tale critica, se effettivamente orienta il comportamento dei rivoluzionari, il cui obiettivo è rendere concreto questo progetto. Infatti, secondo il filosofo messicano sono questi i tre livelli dell’agire umano che richiedono un fondamento etico oltre una documentata analisi oggettivamente fondata.
Nel caso in cui la risposta a queste domande si rivelasse positiva, dovremmo chiederci anche se lo spazio concesso all’etica nel marxismo è negativo o positivo, casuale o necessario, irrilevante o decisivo? Sono queste le questioni che ci troviamo dinanzi, se vogliamo chiarire le possibili relazioni tra etica e marxismo.
Le risposte dei marxisti a questi quesiti oscillano tra due posizioni diametralmente opposte: per alcuni nel marxismo non c’è nessuno spazio per l’etica e se c’è questo spazio è innecessario ed irrilevante riguardo la critica del capitalismo, la costruzione della nuova società e la pratica politica rivoluzionaria. Altri sostengono, invece, che c’è nel marxismo uno spazio necessario e importante dell’etica nei tre livelli menzionati; tuttavia, altri affermano che questo suo ruolo non è determinante né decisivo, come si ricaverebbe dalla condanna dell’atteggiamento moralistico rifiutato decisamente da Marx ed Engels. Distinto dalla morale il moralismo consiste nella condanna di certi comportamenti facendo riferimento a principi astratti senza tenere dei diversi contesti.
Quale posizione scegliere tra quelle suindicate tanto più che sono tra loro contraddittorie? Senza fare cesure Sánchez Vásquez suggerisce di rileggere tutti i testi di Marx, da quelli giovanili a quelli tardi come la Critica al programma di Gotha, passando per quelli intermedi come i Grundrisse, il Capitale etc., osservando che in questi scritti, troviamo pagine che si richiamano alle diverse posizioni.
Per esempio, nell’Ideologia tedesca Marx ed Engels scrivono che i comunisti non predicano nessuna morale, perché la morale costituisce il sostegno ideologico che maschera gli interessi della classe borghese. Un rifiuto così netto sta anche nel Manifesto, in cui si critica aspramente la morale borghese. A ciò bisogna aggiungere che l’idea secondo cui la transazione tra la forza-lavoro e il capitale costituisce una relazione corretta, perché corrisponde alle relazioni capitalistiche di produzione vigente nel sistema attuale (idea espressa testualmente nel Capitale), conduce alcuni marxisti ad affermare che la critica morale al capitalismo è inopportuna, perché finirebbe col criticare ciò che è storicamente necessario. Questa constatazione conduce alcuni autori a includere Marx, insieme a Nietzsche e Freud, nei noti filosofi del sospetto per la loro critica distruttiva della morale e ad accusare Marx di immoralismo.
Inoltre, è possibile osservare anche che nelle opere dello stesso Marx ed Engels si trovano posizioni contraddittorie contro la morale, giudicata ideologica e quindi legata ad una certa classe, e affermazioni, invece, il cui contenuto etico è certamente innegabile. Nel primo caso, essa è concepita come un fatto sovrastrutturale, che in quanto tale scaturisce dal processo di produzione della vita reale, quindi da una determinata forma di società e diventa dominante imponendosi anche alle classi subalterne, nella misura in cui difende gli interessi della classe egemone.
Analizziamo alcuni specifici passaggi dei testi. Nel Manifesto si può leggere, per esempio, “Per il proletariato la legge, la morale, la religione sono pregiudizi borghesi che nascondono gli interessi specifici della borghesia”. Nell’Ideologia tedesca questo concetto è ribadito “I comunisti non predicano la morale. Non si rivolgono al popolo con l’imperativo morale amatevi l’un l’altro, non comportatevi da egoisti”. Un esempio questo di moralismo, ossia di un’indicazione astratta e decontestualizzata, che condurrebbe per esempio un oppresso a rassegnarsi all’oppressione, come del resto spesso la Chiesa cattolica ha predicato.
Nei Manoscritti parigini, benché siano oggi considerati un’opera non unitaria [2], composta mettendo insieme commenti a varie letture riassunte in maniera sintetica, oltre alla critica all’immoralismo del capitalismo, sembra delinearsi un modello ideale di umanità, che in quanto tale ha radici in una certa tradizione etica assai antica: “Qui il lavoro, l’attività vitale, la vita produttiva, appare all’uomo solo come un mezzo per la soddisfazione di un bisogno, del bisogno di conservazione dell’esistenza fisica… Ma la vita produttiva è la vita generica… E la libera attività consapevole è il carattere specifico dell’uomo. Ma la vita stessa appare, nel lavoro alienato, soltanto mezzo di vita” (194-7).
Queste considerazioni hanno fatto sì che Marx fosse accusato di ipostatizzare un’essenza umana transtorica e trascendente, sulla quale avrebbe fondato un’etica umanistica rigettata dagli esponenti dell’antiumanesimo teorico, tra quali spicca il già ricordato Althusser. Coloro che hanno assunto questa posizione, ripresa ed accentuata da tutti quegli autori appartenenti a correnti più recenti come il post-strutturalismo e il postmodernismo, strettamente legato al primo, hanno anche accusato Marx di essenzialismo. Riprendendo la lezione di Terry Eagleton, autore del significativo libro Perché Marx aveva ragione (2013), cercherò di confutare queste critiche, cercando di mantenere il vincolo tra l’istanza etica e quella scientifica, e naturalmente richiamandomi alla visione del Che.
Tornando ai testi, un brano significativo del Manifesto, che riporto anche se lungo, insiste sull’ipocrita immoralismo della società borghese: “La fraseologia borghese sulla famiglia e sull’educazione, sui rapporti affettivi tra genitori e figli, appare tanto più disgustosa, quanto più, a causa della grande industria, viene a mancare ai proletari ogni legame familiare e i bambini divengono semplici articoli di commercio e strumenti di lavoro. Ma voi comunisti intendete adottare la comunanza delle donne, ci grida in coro tutta la borghesia. Il borghese non vede nella propria moglie che uno strumento di produzione. Ode che gli strumenti di produzione debbono essere sfruttati in comune e naturalmente si sente autorizzato a credere che la medesima sorte toccherà anche alle donne. Non pensa minimamente che la questione sta proprio in ciò; abolire la posizione della donna come semplice strumento di produzione.”
“D’altra parte, non v’è nulla di più ridicolo di questo orrore altamente morale che provano i nostri borghesi per la pretesa comunanza ufficiale delle donne nel comunismo. I comunisti non hanno bisogno di introdurre la comunanza delle donne, essa è quasi sempre esistita. I nostri borghesi, non paghi di poter disporre delle mogli e delle figlie dei loro proletari – per non parlare della prostituzione ufficiale – considerano il sedursi reciprocamente le mogli uno dei divertimenti più piacevoli. Il matrimonio borghese è in pratica la comunanza delle mogli. Al massimo si potrebbe muovere ai comunisti il rimprovero di voler sostituire la comunanza delle donne ipocritamente mascherata con una comunanza ufficiale, palese. D’altra parte, va da sé che, una volta scomparsi gli attuali rapporti di produzione, viene meno anche la corrispondente comunanza delle donne, cioè la prostituzione ufficiale e non ufficiale”.
In queste righe troviamo un’appassionata critica della morale borghese, ma che non può essere intesa come critica di ogni forma di morale. Infatti, nota Sánchez Vásquez, in un’altra opera giovanile, Critica alla filosofia del diritto di Hegel, scopriamo quello che Marx definisce “imperativo categorico”, che ovviamente non si esaurisce in una condanna moralistica, giacché indica i passi concreti per realizzare l’autentica eliminazione della religione positiva. Così scrive il filosofo di Treviri: “La critica della religione finisce con la dottrina per cui l'uomo è per l'uomo l'essere supremo, dunque con l'imperativo categorico di rovesciare tutti i rapporti nei quali l'uomo è un essere degradato, assoggettato, abbandonato, spregevole, rapporti che non si possono meglio raffigurare che con l'esclamazione di un francese di fronte ad una progettata tassa sui cani: poveri cani! Vi si vuole trattare come uomini!”
Marx formula l’imperativo, innegabilmente morale, da attuare concretamente: rovesciare tutti quei rapporti – ovviamente in primis nella società capitalistica – in cui l’uomo è umiliato, offeso, trattato come cosa. Ovviamente si potrebbero fare tante altre citazioni dai passi, in cui nei suoi testi giovanili, condanna con vigore, e come avevano fatto altri prima di lui, l’immoralità del capitalismo.
Come ricorda il Che, ha contenuto etico anche la sua teoria dell’alienazione, presente nei già citati Manoscritti del 1844, in cui Marx scrive che il lavoro alienato fa del lavoratore un mezzo, uno strumento, un oggetto. E ancora nei Grundrisse (1857-1858) il Moro accusa il capitalismo di rubare al lavoratore il suo tempo libero, legandolo così sempre più strettamente al lavoro per garantirsi la mera sopravvivenza. Uno slancio morale è presente in uno dei suoi ultimi scritti (La critica al programma di Gotha), in cui delinea le caratteristiche di una società non alienata, non più fondata sullo sfruttamento, indicando i principi ai quali deve ispirarsi la distribuzione dei beni: nella fase socialista deve avvenire tenendo conto del lavoro apportato da ognuno, in quella comunista occorre rispettare le necessità di ogni individuo.
Concludendo questa seconda parte e rimandando alla terza di prossima pubblicazione, possiamo affermare che nelle opere di Marx ed Engels ci imbattiamo nella contraddizione riscontrata tra quegli autori marxisti, che negano o riconoscono il peso dell’etica nella teoria scientifica. Se, da un lato, il Manifesto considera la morale solo espressione dell’ideologia borghese, dall’altro, la condanna della trasformazione della dignità dell’individuo in valore di scambio, storicamente determinata e oggettivamente dimostrata, ribadisce la validità morale della dignità. Pertanto, se da un lato, Marx ed Engels concepiscono la morale (borghese) come un fenomeno strutturale da smascherare, dall’altro, le attribuiscono un ruolo importante nella critica della società da smantellare e nel progetto della società da costruire.
Note:
[1] Nel 1960 divenne primo ministro della Repubblica democratica del Congo e fu ucciso per le sue posizioni antimperialiste da un gruppo secessionista sostenuto dalle compagnie minerarie belghe.
[2] Edizione curata da F. Andolfi e G. Sgrò (2018). Nell’Introduzione ai Manoscritti Ferruccio Adolfi scrive che, benché non si possa individuare in essi “un disegno unitario”, affrontano “temi importanti che continuano ad essere meritevoli di riflessione e gravidi di conseguenze pratiche”.
Bibliografia
Marx K., Manoscritti economico-filosofici del 1844, a cura di F. Andolfi e Giovanni Sgrò Napoli-Salerno 2018
Sánchez Vásquez A., Ética, Barcellona 1984