1. Populismo ha significato - e significa - varie cose, anche di segno se non opposto, almeno contrastante. Solo guardando al passato se ne riscontrano accezioni potenzialmente progressiste - come nel caso del Populismo russo -, conservatrici - per es. l’americano People’s Party -,ambigue, ambivalenti e problematiche come ad es. il peronismo che in Sudamerica si ritiene di poter coniugare sia da destra che da sinistra. Con il tempo, nel lessico novecentesco, ha sicuramente prevalso un’accezione negativa. Ciò è dovuto assai probabilmente anche al consolidarsi, dopo la seconda guerra mondiale, di organizzazioni politico-istituzionali che valutavano negativamente alcune delle sue caratteristiche salienti: le democrazie parlamentari per un verso, il socialismo reale per un altro consideravano la mancanza di mediazione tra istanze del “popolo” e l’esercizio della funzione politica come un aspetto da evitare, e il ruolo dei partiti come organizzatori, educatori, anello nella catena della pratica e partecipazione politica era qui centrale.
Nel caso del cosiddetto socialismo reale, anche il soggetto cui ci si riferiva presentava probabilmente aspetti problematici, in quanto meglio del popolo, la classe, o i blocchi storici di classi, esprimevano le soggettualità in gioco in maniera più adeguata. Anche i “fronti popolari” erano tali in quanto organizzati, fronti appunto. Aspetti populistici - non popolari - venivano d’altra parte chiaramente individuati nei vari fascismi che, pur non dichiarandosi populisti, sicuramente si sentivano e si autoproclamavano emanazione diretta di un fantomatico “popolo”. Tornano qui alla mente i vari miti millenari, improbabili revival imperiali, il concetto nazionalsocialista di “völkisch” e via dicendo.
Si potrebbe, del resto, parlare a lungo del significato stesso della categoria “popolo” e delle sue potenziali ambiguità, o quanto meno dell’uso strumentale che ne è stato fatto nei diversi fronti politici contrapposti nella storia novecentesca e non solo. Da una parte, infatti, il “popolo d’Italia” era un generico accumulo dei - non meglio definiti - italiani, a prescindere dalla classe sociale di provenienza. In questo senso, il popolo diviene una categoria fondamentalmente reazionaria perché privilegia la comune “etnia”, “tradizione”, “religione” (trasfigurato dunque attraverso mitologie le più curiose e variegate, tutt’ora riemergenti) sopra quella di classe (fino ai “pueblos” latino-americani, o al popolo della parrocchia, vale a dire una composizione sociale trasversale). Questo popolo include anche le classi dominanti che però guardano alla sua componente bassa come un animale più o meno docile da domare attraverso gruppi aristocratici o, in casi estremi, una figura leaderistica che ne sappia comprendere ed incarnare le pulsioni; la comune appartenenza non cancella insomma una legittima gerarchia sociale.
ll fronte popolare si richiama a un’eccezione più antica per la quale il popolo non è tutta la società, ma una parte, vale a dire quella componente che si distanzia, distingue e contrappone ai, detto genericamente, ceti dominanti, dove però questi ultimi si caratterizzano per una più spiccata connotazione di classe. Dissipare questa genericità è la chiave della risposta, perché proprio qui si annida il rischio di quel passaggio che ha permesso una confusa indistinzione tra le due accezioni. Il modo in cui viene rappresentato il populus, contro o di fronte al senatus se si vuole richiamare alla memoria il motto – S.P.Q.R., Senatus popolusQue Romanorum - inciso sulle effigi romane, cambia la prospettiva tra populista e popolare. La parola è quindi la stessa, ma il contenuto è assai diverso, sia culturalmente che politicamente; si tratta in buona sostanza di includere o mascherare il conflitto di classe. Un punto chiave pare quindi comprendere quali elementi fanno di una comunità un popolo e quindi stabilire quali siano le modalità in cui il popolo si organizza.
L’essenza del popolo incentrata sulla sua etnia, religione, “tradizione” e via dicendo è un Leitmotiv del pensiero reazionario moderno, a partire dal romanticismo in poi, da Burke a Heidegger. Su questo si può leggere con profitto la ricostruzione che ne ha fatto Nicolao Merker [1]. I vari nemici sono la riforma protestante, l’illuminismo, la rivoluzione francese, il liberalismo democratico, il laicismo e via dicendo. Si tratta del classico armamentario reazionario emerso negli ultimi due secoli di cultura europea conservatrice. In questo contesto, saltare le mediazioni tra basso ed alto, cioè eliminare gli organi rappresentativi e i processi sociali e le strutture che mirano a formare i cittadini di modo che essi possano effettivamente farne parte, è uno degli elementi chiave; tale dinamica procede di pari passo con il fastidio, se non l’odio, verso le istituzioni nelle sue varie forme, tutte incapaci di rappresentare i bisogni della massa, o in grado di farlo in maniera inadeguata e strumentale. Questa disillusione e conflittualità verso le strutture ed organizzazioni rappresentative nasce sicuramente dalle dinamiche perverse che nascono in seno ad esse ed alla loro strumentalizzazione di classe. Il leaderismo che ne può conseguire è un’uscita reazionaria da questa difficoltà obiettiva e si caratterizza come un secondo elemento fondamentale del populismo.
2. Siccome tutti gli aspetti positivi della modernità si sono sviluppati insieme agli aspetti negativi, allo stesso tempo e contraddittoriamente in seno e grazie al modo di produzione capitalistico stesso, l’anticapitalismo può, essenzialmente, svilupparsi in due direzioni completamente differenti: la rivolta anti-moderna che vuole tornare indietro, quindi respingere in blocco tutto ciò che si è sviluppato grazie al capitalismo perdendo tutte le acquisizioni storiche ottenute grazie a esso, inclusi i diritti sociali e civili, con la nostalgia di un mondo passato o il sogno astratto di un mondo completamente altro; oppure andare in avanti, vale a dire criticare la forma sociale del capitalismo ormai autodistruttiva e salvarne le acquisizioni epocali che sarebbe solo regressivo e conservatore voler perdere.
Se non si comprende la natura contraddittoria del modo di produzione capitalistico che allo stesso tempo produce libertà e sfruttamento, ricchezza e povertà, l’uomo universale e la sua alienazione e via dicendo e si cerca di superarne in maniera progressiva la forma oramai inadeguata di riproduzione sociale, si ricade in un “prima” o “altro” che, per gli standard civili e sociali su cui si basa la nostra vita comune, significa semplicemente barbarie. Confondere la rivolta romantica anticapitalistica con la critica del modo di produzione capitalistico produce, alla fine della catena delle mediazioni, il fascismo. Il populismo è una degli anelli di questa catena degenerativa.
Il populismo corrente si può avvantaggiare di una nuova strumentazione tecnologica. Il canale diretto tra il leader e la massa è, come si fa notare da vari fronti, agevolato dall’emergere di nuovi mezzi di comunicazione che consentono di agire direttamente sul singolo a un livello di personalizzazione inimmaginabile fino a pochi giorni fa, captando, cavalcando ed incanalando le pulsioni più disparate. Ciò, tuttavia, non produce ideologia, vale a dire una visione del mondo in qualche modo coerente, ma meri ideologemi, singoli contenuti ai quali si dice sì o no, per poi lasciarsi convincere da chi un’ideologia vera e propria invece ce l’ha, o meglio da chi ha un preciso programma di classe ma del quale non fa cultura, bensì solo propaganda.
Questa dimensione puramente propagandistica è però probabile segnale di una fase di crisi dell’egemonia, dove pare si rinunci in linea di principio alla dimensione del consenso convinto, della cultura, ma si proceda piuttosto in una dimensione di adesione strumentale immediata di una massa informe, nel tentativo di produrla come neutra (stupida) ed infinitamente plasmabile, come molecole che si combinano a piacere tra le mani dell’ingegnere sociale. L’incapacità di produrre cultura può essere la spia di una crisi di egemonia reale e di un passaggio a una fase dispotica tout court, dove il dominio passa attraverso l’instupidimento di massa e la circonvenzione di incapaci.
A conclusione di una sua interessante voce sull’argomento di qualche tempo fa [2], Bongiovanni notava, seppur al condizionale, che il disfacimento della nozione tradizionale di popolo nel senso migliore del termine, fosse contadino o operaio, finiva per produrre una polverizzazione amorfa di individui, una “folla solitaria”, una moltitudine di uni, un “populismo senza popolo”. A ben vedere è proprio la “people” inglese, la somma generica di singoli legati di volta in volta da elementi sociologici estrinseci e non da un nesso funzionale di sistema, la “gente” insomma; il trionfo dell’ideologia borghese più trita, la società come sommatoria di individui indistinti.
Discorsi di questo tenore, in certi casi anche acuti e precisi, che si sentono ripetere da più parti possono descrivere più o meno genericamente una situazione, ma non permettono di comprenderla, quindi tanto meno di cambiarla. Il primo punto nodale in senso critico che è emerso e continua a emergere nei vari dibattiti che si susseguono sul tema del populismo è spesso la mancanza di un elemento chiave, vale a dire niente meno che spiegare - o almeno tentare di spiegare - come questi processi si tengano insieme con la dinamica odierna del capitalismo. Non semplicemente del modo di produzione capitalistico di cui parlava Marx a un livello di astrazione altissimo, ma del capitalismo nella sua fase tarda, nel contesto più concreto della sua dinamica sistemica che include stati, livelli diversi di sviluppo, temporalità determinate e diversità subsistemiche. Se questo è a dir poco incredibile in pensatori cosiddetti di sinistra, è francamente sorprendente in generale: come si possono affrontare questioni complesse senza considerare la dinamica storico-epocale del modo di produzione capitalistico?
Questo è un limite soprattutto di molti politologi e filosofi che, almeno così pare, danno per scontato il capitalismo, così scontato che neppure lo menzionano. Questo è ovviamente un risultato dei tempi e della crisi del marxismo pratico e teorico, ma è una tendenza che non nasce adesso; essa si è annidata in seno al marxismo stesso: la paura di essere tacciati di determinismo economicistico sempre più ha portato a orientarsi verso un approccio culturalista, “sovrastrutturale” e via dicendo, in cui intenzionalmente si lasciava in secondo piano la questione cruciale del nesso sociale complessivo di produzione di cose e di idee, fino al paradosso che il tema è scomparso. Considerazioni analoghe si potrebbero fare riguardo alla critica del Neoliberismo, talvolta condotta senza neanche nominare monsieur le capital.
Per andare oltre la descrizione o la pur comprensibile condanna morale, si tratta di comprendere come l’ideologia populista sia concettualmente e realmente possibile nella dinamica tarda del modo di produzione capitalistico; quali elementi strutturali la rendano socialmente praticabile. Anche qui la confusione è tanta e forse vale la pena ripartire dalle basi, ricordando che con ideologia non si intende semplicemente il prevalere di questo o quel discorso, ma l’affermarsi di una concezione del mondo già esistente in una prassi sociale effettiva, che riannoda a sua volta a posizioni di classe precise. Quindi, finisce per avere carattere estremamente limitato e scarsamente efficace la critica “morale” dell’inumanità o dell’ingiustizia del plebiscitarismo, del razzismo, della crisi delle istituzioni democratiche che in genere si associano al populismo; esistono processi sociali obiettivi che rendono queste deprecabili idee socialmente appetibili, perché rispondono o danno voce a prassi sociali già obiettivamente in atto.
La comprensione di come il capitalismo “crepuscolare” riconfiguri forme di soggettualità - e quindi di percezione sociale - la cui forma fondamentale è l’atomo individuale irriducibile che si somma come “popolo”, “moltitudine” e via dicendo, è la sfida teorica e pratica che ci sta di fronte. Perché è estremamente facile cadere vittima di questa parvenza e sostenere addirittura che questa moltitudine di atomi sia, come tale, un soggetto potenziale capace di combinarsi trans-individualmente in varie forme; fino a convincersi che tale massa informe sia “popolo”. Ciò significa prendere la parvenza fenomenica del modo di produzione capitalistico non come la necessaria manifestazione di esso, ma come la sostanza stessa del processo. Già capire questo passaggio è un importante passo in avanti, ciò tuttavia non basta, perché si tratta di mostrare le ragioni per cui questa parvenza viene presa per essenza, vale a dire è parvenza oggettiva. Si tratta parallelamente di individuare obiettivamente gli effettivi soggetti storici nella loro configurazione complessa e mediata rispetto al vecchio schematismo binario operai-capitale. Questo però è possibile farlo solo attraverso Marx e una corretta ricostruzione della sua teoria delle classi a un livello di astrazione più basso di quella della teoria astratta del modo di produzione capitalistico [3].
Insomma, se posizioni potenzialmente populiste sono esistite a partire dal romanticismo, la cosa da spiegare non è che il populismo esista, ma come esso possa diventare egemone [4]. Questa è la sfida teorica e pratica.
Note:
[1] Nicolao Merker, Filosofie del populismo, Roma-Bari, Laterza, 2009.
[2] Bruno Bongiovanni, voce “Populismo” sulla Enciclopedia delle scienze sociali Treccani (1996).
[3] Tentativi in questo senso sono quelli di Alessandro Mazzone su “Proteo” di alcuni anni fa: 1. Le classi nel mondo moderno, 2) Le classi nel mondo moderno. La complessità del conflitto (Seconda parte), 3) Le classi nel mondo moderno (parte terza) Nuove frontiere della produzione e dello sfruttamento. Mi permetto di rimandare anche alla mia distinzione tra “forme” e “figure” sviluppata nella terza parte di Un nuovo Marx, Roma, Carocci, 2008 (una introduzione sintetica al tema la si può trovare in: Epoca, fasi storiche, Capitalismi).
[4] Ho cercato di iniziare a rispondere a questa domanda in Violenza e strutture sociali nel capitalismo crepuscolare, in Violenza e politica. Dopo il Novecento, a cura di F. Tomasello, Bologna, Il mulino (in uscita).