Le esperienze devono venire socializzate
Link al video della lezione su argomenti analoghi tenuta per l’Università popolare Antonio Gramsci
Brecht in quanto Me-Ti, ovvero in quanto intellettuale marxista, contro ogni forma di burocratismo, che rischiava di guastare la prima grande esperienza storica di transizione al socialismo, sostiene che sia indispensabile socializzare le esperienze che è stato possibile acquisire proprio occupando una determinata carica pubblica. A questo scopo Brecht insiste nel sottolineare come non si debba “mantenere nessuno in un pubblico ufficio perché ha ‘esperienza’ proprio in quelle questioni” (146-47) [1]. Dal momento che bisogna necessariamente evitare che si possa sfruttare come una rendita di posizione, come un proprio possesso personale, in funzione della propria volontà di potenza, le abilità che sono maturate mediante l’esercizio di una determinata funzione pubblica. Al contrario l’obiettivo fondamentale nell’acquisizione di un tale bagaglio di esperienza deve venir impiegato in funzione della sua trasmissione ad altri, rendendoli così in grado, in ogni momento, di sostituire l’addetto a un determinato impiego pubblico.
Da questo punto di vista divengono evidente i principali limiti della direzione staliniana dell’Unione sovietica che, accentrando sempre più gli incarichi e le responsabilità nella gestione dei principali affari pubblici nelle mani di un solo, per quanto grande ed esperto funzionario, ha reso estremamente complesso il processo della sua sostituzione in quelle posizioni chiave al momento della sua necessaria dipartita. Più in generale, questo difetto è tipico delle società liberali e liberaldemocratiche fondate proprio sul principio della delega a professionisti, a esperti delle principali funzioni non solo burocratiche, ma politiche e sindacali. Questo favorisce la creazione di vere e proprie caste, come quella dei politicanti di professione che dovrebbero prendere le principali decisioni per quanto riguarda la vita di uno Stato nazione. In tal modo il principio di delega, come aveva già giustamente messo in evidenza J. J. Rousseau, toglie di fatto di mezzo ogni forma di sovranità popolare e di gestione democratica della res pubblica.
Discorso analogo avviene anche in un paese in cui il processo di transizione al socialismo incontra grandi difficoltà a realizzarsi, mancando i presupposti fondamentali ed essendo costretto a svilupparsi in un perpetuo stato di assedio imposto dalle potenze imperialiste ancora dominanti a livello internazionale. Avviene così, come lo storia ha dimostrato, che la dittatura democratica del proletariato venga delegata prima ai rappresentanti della sua avanguardia e poi a necessariamente grigi burocrati, che la fanno degenerare in una dittatura organica ossia burocratica. D’altra parte in entrambi i casi una buona metà delle responsabilità oltre che delle caste dei politicanti, dei sindacalisti e dei burocrati è da rinvenire nelle stesse masse popolari che, invece di operare in ogni modo per rendere effettiva la propria sovranità, hanno ritenuto più comodo continuare a delegare a “esperti” l’esercizio dei propri diritti-doveri socio-politici. In tal modo, non si emancipano da quello stato di subalternità in cui vengono mantenuti da chi gestisce in loro vece il potere e le principali funzioni pubbliche.
Da una parte, dunque, è indispensabile una effettiva partecipazione delle masse popolari per l’effettivo esercizio della democrazia, affinché nessuna funzione divenga appannaggio di un ceto burocrate che si è specializzato nella gestione di tale impiego. Dall’altra è altrettanto necessario che ogni funzionario pubblico apprenda in primo luogo a trasmettere agli altri il bagaglio di esperienze che viene accumulando nell’esercizio della propria funzione, di modo che sia sempre possibile sostituirlo, rendendo effettivo il necessario turn-over e l’intercambiabilità delle funzioni direttive che sola rende effettiva la sovranità popolare.
Proletario e proletariato
Sempre come Me-Ti, ossia come intellettuale marxista, Brecht sottolinea come “dalle opere dei classici [del marxismo] si può più facilmente apprendere, al fine di potersi esprimere a riguardo [con cognizione di causa], come si comporterà in determinate condizioni [storiche] il proletariato, piuttosto di come si comporterà un singolo lavoratore salariato. Il grande metodo [ovvero il marxismo, il materialismo storico e dialettico] consente di comprendere il movimento delle masse [popolari]. Le singole entità [i singoli proletari] sono considerati come sottoinsiemi delle masse, o essi stessi come [espressione delle] masse, in quanto anche in esse [le singole entità del movimento operaio] vengono rintracciati [dal materialismo storico e dialettico] processi [sociali] non individuali, processi [sociali] di massa” (147). In altri termini il marxismo si interessa ed è in grado di comprendere le attitudini sociali del singolo lavoratore salariato in quanto espressione di una classe sociale: il proletariato urbano moderno; dal momento che lo specifico oggetto d’indagine del socialismo scientifico sono i movimenti e i processi storici e socio-politici delle masse di subalterni, di sfruttati. Del resto il singolo sfruttato prende parte, è parte attiva nel processo storico, nella storia universale, solo in quanto esponente di una classe sociale. Proprio per questo motivo il proletario è veramente tale non in quanto in sé proletario, ovvero dal punto di vista sociologico, ma in quanto lo diviene per sé, in quanto acquisisce coscienza di classe. Più in generale i singoli individui fanno la storia solo in quanto incarnano, rappresentano, esprimono gli interessi di gruppi sociali più ampi, di classi sociali in lotta fra loro.
Indicazioni [del marxismo] per i singoli individui
“I classici [del marxismo, principalmente Marx, Engels e Lenin] non si preoccupano praticamente mai di dare al singolo proletario moderno indicazioni sul modo di comportarsi, se non in relazione al proprio modo di porsi nei confronti della classe dei lavoratori salariati nel suo complesso” (147). L’attitudine del singolo ha senso, è incisiva, è in grado di incidere in relazione al corso del mondo, solo nel rapporto dialettico che lo lega a un gruppo sociale che ha un significato precipuo nei rapporti sociali e di proprietà dominante e rispetto ai mezzi di produzione. Da qui la necessaria contrapposizione fra l’impostazione del marxismo e quella dell’esistenzialismo, ideologia di matrice liberale, piccolo-borghese e anarco-individualista, come giustamente sottolineava Lukács, con buona pace della sostanzialmente fallimentare sintesi ricercata da Sartre. Come non si stanca di sottolineare il ben più rigoroso intellettuale marxista Brecht, alias Me-Ti, i grandi classici del marxismo non si stancano di evidenziare che il singolo e, tanto più, il singolo proletario, “agisce in modo efficace solo quando opera come effettiva componente delle masse [proletarie]”, ovvero in quanto parte di un tutto, come consapevole esponente di una determinata classe sociale, quale parte attiva del conflitto sociale, vero motore della storia almeno fino alla realizzazione di una società comunista.
A proposito dell’autocomprensione storica
Brecht, alias Me-Ti, evidenzia “di aver rinvenuto nelle opere dei classici [del marxismo] solo sporadici accenni al modo di agire dei singoli individui. Nella grande maggioranza dei casi in esse si tratta delle classi o di altri ampi insiemi di uomini. In esse Me-Ti trovò molto utili considerazioni sulla prospettiva storica. Così ha raccomandato al singolo, sulla base di approfondite riflessioni, di considerarsi storicamente al contempo in relazione alle classi sociali e ai vasti raggruppamenti umani e di comportarsi egualmente in una prospettiva storica.
La vita vissuta come materiale per una biografia acquisisce un certo rilievo e può fare storia. Nel momento in cui il capitano Ju Seser [Giulio Cesare] compose le proprie memorie, si è descritto in terza persona. Me-Ti aggiunse: “si può anche vivere in terza persona” (147-48). In altri termini per poter incidere come singolo in maniera attiva sulla vita reale, sul corso storico, bisogna sempre considerarsi e contestualizzarsi nel contesto storico, politico e sociale in cui si vive e in relazione al quale si opera. È, quindi, necessario assumere un punto di vista straniato nei riguardi della propria singola individualità e considerarsi all’interno di un contesto storico e sociale più ampio che da una parte ci condiziona, in quanto ne siamo parte, ma che al contempo ci permette di poter contribuire a incidere in modo consapevole su di esso. Solo in tal modo il singolo può veramente vivere una vita degna di essere vissuta, piuttosto che lasciarsi vivere.
In altri termini il singolo in quanto parte del tutto acquisisce veramente il proprio senso, il proprio significato, il proprio ruolo, la propria capacità di incidere consapevolmente, solo in quanto componente di una totalità sociale e storica. Proprio al contrario dell’esistenzialismo che – all’interno della Kierkegaard Reinassance – pretendeva di occuparsi del singolo in quanto tale, della sua presunta peculiarità irriducibile al proprio contesto storico e sociale. Da un punto di vista marxista (e, in quanto tale, hegeliano) rigoroso, l’individuo ha la possibilità di non lasciarsi vivere, ma di divenire veramente l’artefice consapevole del proprio destino solo nel suo relazionarsi dialetticamente al contesto storico e sociale, al determinato momento storico del conflitto sociale in cui e in relazione al quale è chiamato a interagire.
Note:
[1] I brani che commenteremo in questo articolo sono tratti da B. Brecht, Me-ti. Libro delle svolte [1934-37], tr. it. di C. Cases, Einaudi, Torino 1970. Tra parentesi tonde metteremo a fianco di ogni citazione il numero delle pagine del libro in questa sua traduzione italiana. Non segnaliamo i molteplici casi in cui abbiamo considerato necessario modificare la traduzione per rendere maggiormente perspicuo il pensiero di Brecht.