Quando lo spirito si è ritirato da una costituzione e dalle sue leggi, e per i suoi mutamenti non corrisponde più ad esse, sorge un desiderio, un’aspirazione verso un qualcosa di altro che viene subito individuato in un qualcosa da cui sorge una molteplicità di immagini, di forme di vita, di esigenze e di attese che, se a poco a poco divergono tanto da non poter più stare l’una accanto all’altra, operano finalmente un’esplosione e danno vita ad una nuova forma universale, ad un nuovo legame degli uomini; e quanto più lento è questo legame, quanto più lascia disuniti, tanto più c’è in esso il seme di nuove diseguaglianze e di nuove esplosioni [1].
Hegel è lo studente modello “del quale la sorella Christiane ricorderà (in una lettera scritta alcune settimane dopo la morte del filosofo) i successi e i premi annuali conseguiti nelle scuole che frequentò, ove fu sempre fra i primi e, nell’età fra i dieci e i diciotto anni, il migliore della sua classe”[2]. Durante i primi anni della formazione di Hegel, passati nella natia Stoccarda, il processo di rischiaramento delle coscienze, cui il giovane aderisce entusiasticamente, appare lungi dall’essersi compiuto, in particolare in Germania, in quanto nel popolo prevalgono ancora riti e credenze superstiziose. Come osserva malinconicamente Hegel, dopo aver esposto le credenze barbare delle popolazioni primitive, “proprio così essi pensavano le loro divinità; e le rappresentazioni di gran parte degli uomini della nostra epoca così celebrata e illuminata non sono fatte altrimenti” [3]. In tal modo Hegel coglie il limite elitario della rivoluzione culturale illuminista mostrando, con un’attitudine rousseauiana, i lati oscuri del progresso storico prodotto dalla modernità borghese. D’altra parte, coerentemente con la concezione del dispotismo illuminato liberale, Hegel sembra cogliere in tali concezioni “barbare” della divinità una sorta di necessità: “il volgo di tutti i popoli attribuisce alla divinità attributi sensibili ed umani, e crede in ricompense e punizioni arbitrarie” [4].
È possibile intravedere in queste pagine la genesi di un concetto decisivo nella riflessione hegeliana degli anni successivi: la religione popolare (Volksreligion). Quest’ultima viene intesa come una sorta di termine medio tra le pure astrazioni della teologia e la superstizione della plebe, uno strumento indispensabile per tenere a freno la rozza sensibilità delle masse. Come osserva a tal proposito Hegel “queste opinioni sono del resto il più forte freno alle passioni; i principi della ragione e di una più pura religione non sarebbero sufficientemente forti contro di esse” [5]. Come nota a ragione Paolo Cassetta: “insomma, se qui a Stoccarda abbiamo uno Hegel del tutto alieno da ansietà religiose e ben partecipe del «pelagianesimo» così tipico della teologia razionale settecentesca, non ci troviamo però di fronte a un fanatico dell’intelletto o ad un negatore tout court della dimensione della sensibilità” [6]. I “sospetti” nutriti già dallo Hegel di questi anni per un dominio incondizionato dell’intelletto sono certamente il portato dell’influenza delle teorie rousseauiane, che avevano fatto breccia anche nel tardo illuminismo tedesco. Hegel ne deduce la necessità di un vaglio critico di tutte le rappresentazioni e credenze tradizionali, che devono essere giudicate di fronte al tribunale della ragione, senza tuttavia disprezzare, sulla base dell’insegnamento di Lessing, i popoli meno sviluppati del passato in quanto: “dalla loro storia noi impariamo quanto è facile, a causa dell’abitudine e dell’attaccamento a certe rappresentazioni, ritenere come ragione le più grandi insensatezze, come saggezza le più vergognose follie” [7]. Siamo, dunque, ancora lontano da ogni forma di idealizzazione dell’antichità classica.
La seconda composizione del giovane Hegel giunta sino a noi, Di alcune differenze caratteristiche dei poeti antichi [Über einige charakteristische Unterschiede der alten Dichter] dell’agosto 1788 [8], si apre con la considerazione, destinata ad avere ampi sviluppi nella filosofia hegeliana, che “nei nostri tempi il poeta non ha più un ambito d’influenza molto esteso” [9]. La stratificazione sociale e di conseguenza culturale ha di fatto impedito che i poemi epici tedeschi fossero diffusi “come sarebbe potuto accadere se i nostri rapporti pubblici fossero stati simili a quelli dei greci” [10]. Ciò è dovuto allo scarso rilievo che ha avuto la mitologia teutonica per il popolo tedesco e allo scarto tra la cultura popolare, ben viva nel mondo antico, e la cultura raffinata, la “fredda erudizione” dell’epoca moderna. “Le gesta famose degli antichi e dei moderni tedeschi non sono più intrecciate con la nostra costituzione, né il loro ricordo viene conservato dalla tradizione orale. Noi impariamo a conoscerle soltanto dai libri di storia, in parte stranieri, ed anche questa conoscenza è limitata alle classi più colte” [11]. Si tratta di un elemento costante nella riflessione di Hegel, che lo porterà sempre a criticare chiunque si sforzasse di restituire una mitologia autoctona al popolo tedesco. Le vere origini sono sempre da ricercare nel concetto, che è giunto nel mondo germanico attraverso il mondo orientale e il mondo greco-romano.
Così, se i poeti antichi hanno rappresentato “gli aspetti esteriori della natura visibile che essi conoscevano con precisione, quelli che colpiscono i sensi”, i moderni sono “meglio informati sul «gioco interno delle forze»” e conoscono, soprattutto, “le cause delle cose più che il modo in cui esse appaiono” [12]. La predilezione per la cultura antica, che traspare da questo lavoro, non deve tuttavia essere considerata come una decisa rottura rispetto alla concezione della storia del saggio precedente; Hegel, per lo meno, non ne sembra consapevole [13]. Egli pare qui far riferimento a un topos proprio di un’altra componente della cultura illuminista, che ha la sua origine in Rousseau [14]: l’idea di rivitalizzare la civiltà moderna sulla base di una cultura primigenia – che si verrà specificando come ellenica attraverso la lettura di Winckelmann – recuperandone l’originalità, la semplicità, l’immediatezza, per essere così in grado di superare la rottura tra cultura, popolo e natura che caratterizza l’epoca moderna. Nonostante l’influsso di Winckelmann su questo scritto, Hegel rifiuta sin d’ora la soluzione neoclassica che, proprio per la sua distanza dallo spirito del popolo, gli appare esteriore, artificiosa, un degno prodotto, quindi, dell’intellettualismo moderno: “Se i tedeschi si fossero raffinati poco a poco da se stessi, senza influenze culturali straniere, il loro spirito avrebbe intrapreso senza dubbio un cammino diverso, ed avrebbe ora un suo proprio teatro tedesco, invece di doverne mutare la forma dai greci” [15]. Come osserva Rosenzweig: “La cultura autoctona degli antichi diventa modello, non per l’imitazione però – e questo è elemento nuovo per l’epoca – ma per un’analoga evoluzione del popolo tedesco (…). Dal discorso emerge anche un altro punto che può avere una certa importanza, l’idea cioè che il passato storico debba essere «intessuto» nella costituzione moderna, mentre non vi è traccia di quell’accettazione «negativa» della storia, che è tratto tipico e predominante del rapporto illuministico con il passato” [16].
Note:
[1] Hegel, G.W.F., Scritti teologici giovanili, tr.it di E, Mirri, Guida, Napoli 1989 (3ed.), p. 564-65.
[2] Lacorte, C., Il primo Hegel, Firenze, Sansoni 1959, p. 60. Hegel è nato nel 1770, dunque nello stesso anno del futuro compagno di studi Hölderlin e appartiene alla stessa generazione di Schelling, Schleiermacher, Novalis, F. Schlegel e Humboldt.
[3] Hegel, G.W.F., Scritti giovanili I, tr. it. di E. Mirri, Guida, Napoli 1993, p. 87.
[4] Ivi, p. 90.
[5] Ibidem.
[6] Cassetta, P., Il perdono nel giovane Hegel, La città del sole, Napoli 2001, p. 25.
[7] Hegel, G.W.F., Scritti giovanili, op. cit., p. 91.
[8] Studi filologici relativamente recenti hanno fortemente limitato l’originalità dello scritto del giovane Hegel, dimostrando che i primi quattro capoversi – ovvero più di una metà del lavoro – sono andati poco al di là di una parafrasi da Garve, C., Considerazioni di alcune diversità nelle opere degli scrittori antichi e moderni, in particolare dei poeti del 1770, mentre il resto appare come una compilazione di nozioni derivate da Aristotele, Orazio, Sofocle e Tibullo, oltre a Klopstock, Lessing e Wieland. Di particolare interesse sono per noi le nozioni derivate dai poeti romani che caratterizzano l’ultima parte della composizione (cfr. Hegel, G.W.F., Scritti giovanili, op. cit., pp. 95-6) e che testimoniano ancora una volta l’attenzione rivolta dal giovane Hegel alla poesia drammatica, in particolare alla tragedia e alla commedia antiche, di cui indaga qui l’origine per mostrare in maniera esemplare come siano in ogni caso “le circostanze a dare una direzione al genio dei primi grandi inventori” (Ivi: p. 95).
[9] Hegel, G.W.F., Scritti giovanili, op. cit., p. 93.
[10] Ibidem.
[11] Ibidem.
[12] Ivi, p. 94.
[13] Del resto anche la passione tedesca per il mondo greco ha le sue radici ben saldamente piantate nel XVIII secolo, in un autore come Winckelmann fortemente intriso di cultura illuminista. Su tale questione cfr. Rosenzweig, F,. Hegel e lo stato [1920], tr.it., Il Mulino, Bologna 1976, p. 6.
[14] Hegel la fa sua, presumibilmente, attraverso la ripresa nelle opere di Feder, di cui è più volte testimoniata la conoscenza diretta in questi anni di Stoccarda.
[15] Hegel, G.W.F., Scritti giovanili, op. cit., p. 95.
[16] Rosenzweig, F., Hegel e lo stato, op. cit., p. 31. Di parere diverso Mirri, che ci sembra a tratti troppo unilaterale nel suo tentativo, peraltro giusto, di ricondurre alla cultura illuministica questa parte della produzione giovanile di Hegel: “in secondo luogo il saggio ha interesse perché il suo tema appare quasi complementare rispetto a quello del saggio precedente, sì da darci, con quello, il panorama per così dire completo degli interessi e della riflessione del giovinetto ormai prossimo a lasciare il ginnasio: lì la critica illuministica della religione, qui l’assunzione neoclassica dell’antichità a modello dell’‘Aufklärung’” Mirri, E., in Hegel, G.W.F., Scritti giovanili, op. cit., p. 76.