Premessa
Sicuramente il lavoro che cercherò di esporre è qualcosa più grande di me, nonostante mi sia avvalsa del brillante pamphlet di Eagleton (Le illusioni del postmodernismo, 1998); ma senza sfide non si avanza né si migliora.
Molti hanno sottolineato la complessità del pensiero di Marx, mettendo in evidenza che è nello stesso tempo un economista, un filosofo, uno storico, dotato di grande vigore letterario e in questo senso un artista, oltre a richiamarsi a principi di carattere etico-politico, anche se ovviamente non ha parlato in maniera sistematica di etica. Questo suo ultimo aspetto è stato ferocemente criticato da quelli autori che, sulla scia di Max Weber, hanno identificato la scienza con il pensiero avalutativo e che hanno considerato il marxismo per il suo messaggio emancipatorio e per il costante richiamo all’impegno militante una forma di messianismo o di religione.
Con i miei grandi limiti e forse con una certa dose di ingenuo avventurismo ho cercato di ispirarmi a questa impostazione di Marx, che ne fa un autore straordinario, cercando i vari aspetti della fase storica che stiamo vivendo, in alcuni casi certamente da incompetente, ma tentando di sollecitare il vostro contributo ai temi presentati.
Prima di avanzare nel ragionamento vorrei sottolineare alcuni temi e sono sollecitata a questo dalle questioni poste dal nostro dibattito. Primo: la mia impostazione non è quella di affermare come stanno effettivamente le cose, ma quella di descrivere un problema teorico, indicando le varie posizioni per arrivare attraverso argomentazioni a delle conclusioni valide, che facciano luce sull’esistente. Il presupposto di partenza, che cercherò di dimostrare, sta nel fatto che il postmodernismo, corrente culturale trasversale, e l’attuale fase capitalistica sono tra loro connessi, e che il primo, radicato nella rivisitazione di tematiche antiche, nasce dai caratteri propri di quest’ultima.
Inoltre, non è mio obiettivo parlare di modo di produzione se non di striscio, ma di una fase di una formazione economico-sociale, con particolare riferimento ad una delle correnti ideologiche che ha dominato soprattutto nell’ambito delle scienze sociali e nelle arti. E questo perché il postmodernismo non si propone solo di smantellare il marxismo, ma tutta una concezione della storia quale si è sviluppata nel corso della riflessione che ha avuto il culmine nella modernità; concezione della storia che – come scrive Roberto Fineschi – sottolinea la presenza contemporanea di elementi di continuità e di discontinuità, una storia della lunga durata contrapposta alla breve durata, che dunque si articola in fasi o tappe. Contrapposizione che Braudel esemplifica con la metafora del mare, nel quale si distinguono le onde superficiali (che sarebbero per es. le guerre), dalle correnti profonde. Braudel fa altri esempi per spiegare questa dicotomia tra contingente e duraturo: tutte le società sono gerarchizzate, ma in forme differenti; il confine costituito dal Reno e dal Danubio ha costituito la frontiera dell’impero romano e ha diviso con la Riforma i cattolici dai protestanti.
In secondo luogo, come ho cercato di mostrare negli incontri dell’anno passato, non considero l’ideologia una pura e semplice mistificazione, e ciò sulla base di certi argomenti che non sono certo tutti farina del mio sacco. D’altra parte, se fosse pura mistificazione come potrebbe reggersi in piedi e perdura nel tempo? Inoltre, se si accettasse tale interpretazione semplicistica, si riproporrebbe l’opposizione tra quei pochi che sanno veramente e quei tanti che sono solo dei poveri imbecilli; ma allora, se così stanno le cose, come fare a distinguere i veri sapienti?
Infine, qualcosa sulla emancipazione. Bisogna parlarne in termini generali, perché il postmodernismo non è solo antimarxista, come del resto vedremo meglio più avanti, ma è antimodernista, quindi si contrappone al progetto emancipatorio che pone l’uomo al centro del mondo e che nasce con l’umanesimo in funzione antimedioevale; progetto pienamente ripreso dall’illuminismo con la sua concezione stadiale della storia, secondo cui quest’ultima si articola in diversi momenti (per. Es. caccia / raccolta, allevamento, agricoltura, società mercantile).
Avvertenza: quando citerò una generalizzazione (per es. società postmaterialista) non intendo fare un’affermazione universale; pertanto, intendo sostenere – come del resto gli inventori di questo termine – che non tutte le classi sociali hanno adottato valori postmaterialisti (la qualità al posto della quantità, il cibo biologico al posto di quello venduto al discount), ma indicare solo il comportamento di alcune di esse, in particolare quelle dominanti. Credo che le idee dei nostri avversari debbano essere prese in considerazione, perché hanno molta influenza sulla maggioranza e a loro modo ci aiutano a capire l’esistente.
Società industriale e società postindustriale
Naturalmente, non possiamo parlare di quel fenomeno culturale trasversale, che prende il nome di postmodernismo, se non ci soffermiamo prima sulle caratteristiche della società postindustriale o postmoderna, da cui esso sarebbe scaturito. Tuttavia, nel frattempo definiamolo con Alex Callinicos (1990) come opposizione alle metanarrazioni (grandi schemi) o con Terry Eagleton come rigetto delle “nozioni classiche di verità, ragione, identità e oggettività, dell'idea di progresso di emancipazione universale, delle spiegazioni monocausali, delle grandi narrazioni o dei fondamenti supremi” (1998: 7). Esso è contrario alla rivoluzione, perché non cambierebbe niente, essendo concepita sempre nell’ambito della negativissima razionalità occidentale, ma paradossalmente si considera rivoluzionario e radicale.
Come non è semplice parlare di postmodernismo, per alcuni ormai in declino, per la sua complessità e contraddittorietà, così non è facile parlare della società postindustriale e postmoderna, a partire dal suo stesso nome. Infatti, sembra che chi si è occupato dei cambiamenti che si sono realizzati nella società industriale, a partire probabilmente dal secondo dopoguerra (o forse dal lancio delle bombe atomiche sul Giappone da parte degli Stati Uniti), abbia proposto centinaia di nomi diversi. C’è chi ha parlato di “società narcisistica”, di “società dell’equilibrio”, di “società programmata”, di “postcapitalismo”, di “tardo capitalismo”, espressione utilizzata da Ernest Mandel (1973) e ripresa da Fredric Jameson, che a me sembra la più appropriata. Spiegherò più avanti perché.
Naturalmente, come sempre capita, la discussione sui nomi non è mai una pura disputa terminologica. Il nome prescelto dipende dal fattore cui si vuole attribuire centralità; per esempio, con l’espressione postindustriale si vuole mettere in evidenza, come fece Daniel Bell (1973), che una società così definita sarebbe caratterizzata dal grande sviluppo del settore terziario, dal ridimensionamento della grande fabbrica, dall’attenuarsi delle lotte operaie per l’affievolimento della polarizzazione di classe, dovuto al benessere raggiunto dalle classi popolari. In particolare, Bell colloca il passaggio dalla società industriale a quella postindustriale nel 1956, anno in cui negli Stati Uniti, il numero dei “colletti bianchi” supera quello delle tute blu [1].
Alcuni come Zbigniew Brzezinski e Ronald Inglehart hanno parlato di “società postmaterialista”, per sottolineare che il raggiungimento del benessere materiale in essa non è più centrale, essendo stato sostituito dal desiderio del miglioramento qualitativo (si pensi ai centri benessere, alla forma fisica, alle pratiche orientali etc.). Tuttavia, a mio parere, Inglehart, sociologo statunitense, sottolinea correttamente che non tutti i paesi del mondo hanno raggiunto questa fase, ora dominante in certi settori degli Stati Uniti, dei paesi scandinavi e dell'Olanda. Gli altri paesi, soprattutto quelli nella cosiddetta via di sviluppo, stanno faticando per uscire dalla fase industriale o stanno nel pieno di essa, come per esempio la Russia e l'India. Inoltre, il passaggio da una fase all'altra non implica certamente che la fase precedente venga del tutto cancellata, continuando a sopravvivere intersecandosi con le innovazioni. Questa eterogeneità fa tornare in auge il concetto di sviluppo combinato e diseguale, che coordina le differenze di avanzamento, attribuibile a Leon Trotsky, ma implicita nel pensiero di Marx, estranea ai postmoderni che sono monolitici e binari (occidente / altro).
Altri autori pongono l'accento sulla rapidità dell'informazione, sullo stretto legame tra certa ricerca scientifica e politica (si pensi al neoliberismo, a come in esso la prima diriga la programmazione economica), sull’enorme produttività del lavoro, sul cambiamento della struttura della personalità dell'uomo postmoderno (individuo flessibile di Richard Sennett, soggetto plurale, soggetto narcisista di Christopher Lasch), sulla rapidità con cui una scoperta scientifica dà vita ad un'innovazione tecnologica. Su questi aspetti così si esprime Lasch: “Il clima contemporaneo è terapeutico, non religioso. La gente oggi non aspira alla salvazione individuale… ma alla sensazione, all’illusione momentanea di benessere personale, di salute fisica e di tranquillità psichica”.
A mio parere, per avere un quadro complessivo della società in cui viviamo non dobbiamo tralasciare nessuno di questi fattori, tenendo anche in conto, come si diceva prima, che il livello di sviluppo dei singoli paesi è altamente differente. Quindi, non abbiamo di fronte un omogeneo mondo postindustriale, anche se probabilmente è in questa direzione che ci stiamo muovendo, tranne nel caso di una qualche straordinaria catastrofe naturale o provocata da chi ha in mano le armi di distruzione di massa, come d'altra parte non escludono gli scienziati atomici dell’Università di Chicago.
È curioso sottolineare che il termine postindustriale è molto più antico di quello che si pensi, giacché risale al 1914, quando il socialista britannico A. J. Penty pubblicò un'antologia intitolata Essay in post-industralism.
Il già citato Madel, di affiliazione troskista, critica le precedenti definizioni, perché trascurano del tutto le modalità impiegate dal capitalismo per superare le sue inevitabili crisi e per garantirsi tassi di profitto adeguati. Riprende la nozione di cicli o onde di Kondratiev, curve sinusoidali ascendenti e discendenti che durano circa 50 anni, e prevede la discesa economica a partire dagli anni ‘60. Il tardo capitalismo sarebbe scaturito da queste strategie, le quali sono fondate sulla libera circolazione dei capitali, sulle delocalizzazioni, sulle privatizzazioni, sulla distruzione dello Stato sociale, sul predominio del capitale finanziario su quello produttivo, sulla riduzione del costo del lavoro, sul neocolonialismo, sull'indebitamento degli Stati, la cui politica economica è ormai governata dalle agenzie internazionali e dalle corporazioni, con bilanci superiori quelli statali. Processi che erano stati descritti da Eugenio Cefis in un famoso discorso del 1972, intitolato La multinazionale ecumenica.
Come sottolinea Brzezinski, in tale contesto la distruzione fisica degli Stati (Jugoslavia, Afghanistan, Iraq, Libia) e il ridimensionamento del loro ruolo porta con sé lo sbriciolamento dei partiti e dei sindacati di massa [2], per la creazione delle filiere industriali insediate in vari paesi, per la frammentazione del mondo del lavoro, per la perdita di una anche rudimentale coscienza di classe. Dagli anni ‘60 questo processo è accompagnato dal crescere e diffondersi dei nuovi movimenti sociali (ecologisti, femministe, omosessuali, animalisti), che per realismo occorre dire non sono in grado di interferire con la grande produzione capitalista, e che spesso promuovono obiettivi parziali e settoriali, non riuscendo così ad indirizzare in un unico progetto sociale le grandi masse, divenute sempre più impotenti.
Note
[1] È interessante notare che per Luciano Canfora (2008) il 1956 costituisce anche l’anno di svolta per il socialismo reale (il XX Congresso e la rivoluzione ungherese) e per il colonialismo (la crisi di Suez).
[2] Qualcuno dice che anche oggi ci sono partiti di massa. Per comprendere cos’è un vero partito di massa si veda il documentario di Carlo Lizzani, Togliatti è tornato disponibile a questo link.
Bibliografia
Bell D., The coming of postindustrial society, New York 1973.
Bellofiore R. e Vertova, Oltre i confini della docenza, 2018
Callinicos A., Contra el postmodernismo, 1990.
Canfora L., Il 1956. L’anno spartiacque, 2008.
Cefis E., La multinazionale ecumenica,
Eagleton T., Le illusioni del postmodernismo, Editori Riuniti, Roma 1998.
Mandel E., El capitalismo tardío, México 1979.
Jameson F., Postmodernismo, ovvero la logica culturale del tardo capitalismo, Roma 2015.
Inglehart R., La società postmoderna. Mutamento, ideologia, valori in 43 paesi, Roma 1998.
Labriola A., In memoria del Manifesto dei comunisti, in Il Manifesto del Partito comunista, di K. Marx e F. Engels, Roma 1994.
Lasch Ch., La cultura del narcisismo, Milano 1979.
Mc Lellan D., Marx, Londra 1975.
Sennett R., L’uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale, Milano 2016.