La teoria del circuito monetario è il risultato di contributi autonomi degli anni ’70 e ’80 del secolo scorso di economisti italiani e francesi che hanno in comune la considerazione dell’importanza della moneta nel capitalismo e una visione alternativa alle impostazioni tipiche dell’economia classica le quali vedono nella moneta un “velo” posto sopra l’economia reale. In ciò è coerente con la visione marxiana della circolazione del capitale D-M-D’ in cui il denaro è agli inizi e alla fine del ciclo ed è l’unico scopo di questa circolazione. In Italia la figura che più ha contribuito a tale teoria è Augusto Graziani [1].
L’assunto iniziale è che le imprese non possiedono la moneta per avviare il ciclo e che quindi essa deve essere messa a disposizione dal sistema bancario, attraverso la creazione di moneta di credito. Anche non aderendo al tassativo assunto di imprenditori senza moneta, ricordiamo che Keynes – e prima di lui Kalecki – sostiene che condizione necessaria perché si realizzino profitti è che gli investimenti siano superiori ai risparmi e quindi alle imprese serve una somma superiore a quella risparmiata. Bisogna quindi che ci sia un afflusso aggiuntivo di mezzi di pagamento, impossibile da reperire in uno stato equilibrio economico generale in cui la quantità di moneta a disposizione coincide con il reddito. È indispensabile quindi l’intervento del sistema bancario che è capace, come Marx aveva già notato [2], di creare moneta di credito, e quindi potere d’acquisto attraverso il moltiplicatore dei depositi.
Quindi il sistema bancario, secondo questa teoria, crea questa base monetaria “dal nulla”. In realtà dal nulla non si crea nulla. Se è vero che la banca crea mezzi di pagamento i quali permettono la circolazione complessiva del capitale, a fronte di questa “liquidità” vengono creati debiti, di modo che le due partite si compensano. È vero però che questa creazione a mezzo di debito funziona ottimamente. Del resto la stessa moneta di stato, che funziona altrettanto bene, costituisce idealmente un debito dello stato verso il detentore. Idealmente perché con la fine del gold standard, nessuno può pretendere dallo stato la restituzione del debito.
Vediamo come avviene questa “creazione”. Il credito concesso serve al soggetto così finanziato per effettuare spese. Finché non avvengono questi acquisti tale prestito consiste in un accreditamento nel conto bancario del soggetto finanziato. Quando questa disponibilità viene spesa per acquisti, costituirà un introito per il venditore il quale, in attesa di spenderla, la depositerà in banca. E così via con un processo che moltiplica il finanziamento iniziale. Il moltiplicatore è dato dall'inverso della quota di depositi che la banca deve trattenere come riserva. Per esempio se il finanziamento iniziale è 100 e la banca deve detenere riserve pari al 20 per cento dei depositi, esso dà luogo a una disponibilità di moneta di credito di 100:0,2=500.
In questo modo il sistema bancario nel suo insieme può ricevere questa moneta in deposito nella misura in cui abbia prima concesso dei crediti. È il credito quindi che alimenta i depositi e non viceversa.
Nella versione più compatta di questa teoria si trascurano le transazioni fra imprese, che in ogni caso non generano plusvalore e quindi si bilanciano, e si considera solo il bisogno di liquidità degli imprenditori nel loro insieme per pagare i salari. Lo stesso Marx, del resto, aveva notato come il denaro impiegato per acquistare forza-lavoro (capitale variabile) costituisse un’aliquota “decisiva” [3] del capitale monetario occorrente. I salariati, da parte loro, spendono i loro salari per acquistare i prodotti presso le imprese che così rientrano nella disponibilità della moneta e possono estinguere i debiti inizialmente contratti con le banche. Queste ultime nuovamente lo presteranno per avviare nuovi cicli produttivi. Il circuito quindi si articola nelle seguenti fasi:
→ concessione del credito alle imprese,
→ produzione delle merci,
→ compravendita delle merci,
→ restituzione del prestito alle banche.
Banchieri, imprenditori e lavoratori salariati hanno scopi e possibilità diverse di accesso alla liquidità. Le banche hanno potere di scelta in merito alla concessione del credito e al tasso di interesse praticato e ciò influisce sulle scelte produttive degli imprenditori, i quali a loro volta, assumendo o meno impongono le loro scelte ai lavoratori. Infine i salariati subiscono le scelte sia degli imprenditori che delle banche.
La moneta-credito quindi non è solo unità di valore e mezzo per facilitare gli scambi, ma è indispensabile per avviare il processo di produzione che deve avvenire prima della vendita delle merci.
Le imprese però, assumendo e mettendo in azione i lavoratori, producono un valore superiore a quello anticipato in salari. Diversamente non avrebbe senso fare impresa. E inoltre questo “sovrappiù” (che noi preferiamo chiamare plusvalore per connotarlo storicamente e socialmente) deve servire quantomeno a pagare gli interessi alla banca. Anche senza contare il fatto che i lavoratori potrebbero non destinare ai consumi tutto il loro reddito (in termini keynesiani, propensione al consumi inferiore a 1), nel sistema non esiste una massa monetaria per finanziare gli acquisti del surplus produttivo. Posto che il finanziamento sia stato 100, per pagare salari per 100, mentre la produzione, al netto dei reintegri di capitale costante, è 150, i capitalisti immettono nella circolazione all'inizio del ciclo 100 e devono detrarne 150.
Anche non astraendo dal capitale costante, supponiamo ammontante nell'intero sistema economico a 200, i capitalisti, in termini marxiani nel movimento D-M, immettono in circolazione 100+200=300 unità monetarie. Alla fine del ciclo, con la vendita M'-D', devono ricavarne 350. Pertanto il denaro che deve essere disponibile per le transazioni, alla fine del circolo, deve essere di 50 unità superiore a quello messo in circolazione all'inizio. Come reperire il maggiore fabbisogno per poter realizzare il plusvalore prodotto? Se non sussiste tale realizzazione le imprese vanno in perdita, considerando che devono restituire il finanziamento iniziale più un interesse.
In termini formali, se il finanziamento alle imprese a mezzo credito (F) coincide con il fondo salari o capitale variabile (V), allora
F = V
ma il prodotto sociale, al netto dei reintegri del capitale costante, vale
V + Pv
cioè il capitale variabile più il plusvalore. Pertanto
F < V + Pv
cioè ai consumatori manca la liquidità perché gli imprenditori possano realizzare il plusvalore.
Per realizzarlo ed eventualmente rimediare anche al reddito non consumato dei salariati, in modo che sia possibile almeno pagare gli interessi alla banca, deve essere recuperata ulteriore liquidità o ricorrendo ad altri prestiti (ma così le imprese si indebitano all’infinito) o attraverso il credito al consumo, il che determina l’indebitamento dei salariati, oppure vendendo sui mercati esteri, ma ci vogliono paesi che a loro volta si indebitino, o vendendo le merci al settore pubblico, che ugualmente deve indebitarsi.
Come ebbe a dire lo stesso Marx, il commercio estero nell'alleviare la sovrapproduzione, "sposta solo le contraddizioni su una sfera più ampia e dà loro un'orbita più ampia".
“Se la moneta in circolazione è unicamente quella che le banche stesse hanno immesso attraverso le proprie operazioni di credito, le imprese stesse, nella migliore delle ipotesi, potranno riottenere le somme che esse stesse hanno speso inizialmente. Ciò significa anche che, nella migliore delle ipotesi, le imprese potranno ripagare alle banche il capitale preso a prestito, ma mai gli interessi”[4].
In sostanza, il credito è sia il presupposto [5] dell’avvio del ciclo produttivo (D-M per Marx) sia quello della sua conclusione con la realizzazione del plusvalore (M’-D’). Il finanziamento bancario alle imprese coincide con il capitale anticipato, e quello finale ai consumatori, alle imprese e allo Stato coincide con il plusvalore. Senza quest’ultimo finanziamento non si realizza il plusvalore e le imprese vanno in perdita o in pareggio se dispongono di capitale proprio e non devono pagare gli interessi.
Quando i fan dei conti in ordine si stracciano le vesti contro il debito pubblico – e in realtà avversano quello prodotto per i servizi sociali essenziali o per sostenere il sistema pensionistico, ma non fanno caso a quello prodotto per coprire il debito dei privati – dimenticano il contributo del debito alla realizzazione del plusvalore. Senza il debito il capitalismo non può funzionare. E infatti le politiche di austerità avviate a partire dalla seconda metà degli anni ’70 del secolo scorso, non soccorrendo più il debito pubblico alla realizzazione del plusvalore, hanno indotto ad allargare le maglie del credito al consumo (mutui subprime ecc.). Quando quest’ultimo è divenuto insostenibile, si è dovuto riesumare il debito pubblico, nella forma di salvataggi del sistema creditizio privato, come raccomandato dall'ultimo Draghi.
In realtà non esiste un livello del debito pubblico sempre e comunque desiderabile. Paesi con forti disavanzi nei conti con l’estero hanno avuto problemi con debiti pubblici anche assai inferiori al 60% del Pil che è il tabù dell’Euro. Paesi che invece hanno disavanzi multipli di questo parametro, come il Giappone (250%) non incontrano altrettanti problemi per due motivi: 1) la banca di emissione compra direttamente i titoli del debito che il mercato non assorbe, cosa vietata alla Bce; 2) ha dei conti con l’estero in regola e conseguentemente il suo debito può essere assorbito dai risparmiatori giapponesi.
Nel prossimo articolo esamineremo i meccanismi che rendono il debito pubblico fortemente dipendente dai conti con l'estero.
Note:
[1] Dell'economista italiano si veda sull'argomento A. Graziani, Teoria del circuito monetario, ed. Jaca Book, 1996.
[2] Cfr. K. Marx, Il Capitale, Libro III, Ed. Riuniti, 1994, pp. 555-7.
[3] Cfr. K. Marx, Il Capitale, Libro II, Ed. Riuniti, 1994, pp. 433-4.
[4] A. Graziani, La teoria monetaria della produzione, Banca Popolare dell’Etruria e del Lazio, Firenze, 1994, p. 125.
[5] Anche Marx, nella quinta sezione del terzo libro del Capitale, intitolata Suddivisione del profitto in interesse e guadagno dell’imprenditore. Il Capitale produttivo di interesse, esamina l’ipotesi che i capitalisti non possiedano disponibilità monetarie e debbano ricorrere in tutto o in parte al credito per avviare il ciclo D-M-D’. In tal caso l’imprenditore può operare solo se le banche gli concedono la moneta di credito per acquistare mezzi di produzione e forza-lavoro. K. Marx, Capitale III, cit., pp. 323-402.