Segue da Parte VI
La forma estesa della metamorfosi del capitale
Riprendendo la forma e il contenuto della metamorfosi del Capitale, D-M-D', Marx osserva che, mentre il tesaurizzatore accumula denaro sottraendolo dalla circolazione, il capitalista raggiunge più intelligentemente questo scopo reimmettendolo nella circolazione ogni volta che gli ritorna.
Tuttavia la valorizzazione nell’ambito della circolazione - attraverso lo scambio di equivalenti, come vuole la regola del mercato - sembra impossibile. infatti il possessore di denaro deve comperare le merci al loro valore e rivenderle al loro valore, eppure alla fine del processo deve trarne più valore di quanto ve ne abbia immesso. Se le comprasse a un prezzo inferiore al loro valore, non creerebbe ricchezza, ma si arricchirebbe ai danni del suo venditore. Se le vendesse a un prezzo maggiore del loro valore, si arricchirebbe ai danni del suo compratore. In ogni caso, guadagni e perdite sarebbero a somma zero. Come avviene allora questo “miracolo”? Può verificarsi solo se il denaro viene scambiato con una merce il cui consumo come valore d’uso avviene producendo più valore di quanto costi. Questa merce è la forza-lavoro, che ha la capacità di conservare il valore dei mezzi di produzione consumati e di creare nuovo valore in una misura eccedente il proprio. Pertanto, dice Marx con un apparente paradosso, la valorizzazione deve avvenire nella circolazione ma non deve avvenire nella circolazione. Avviene nella circolazione se in essa è inserito il processo produttivo.
Il ciclo completo di circolazione del capitale (industriale) può essere quindi rappresentato nella sua forma estesa come
D-M(mp,fl)...p...M’-D’
D-M costituisce l’acquisto di mezzi di produzione (mp) e forza-lavoro (fl), p è il processo produttivo, M’ il prodotto risultante da tale processo, cioè una merce nuova e che contiene un valore superiore a quello immesso nella circolazione e D’ il denaro realizzato con la vendita di tale prodotto.
La circolazione delle merci generalizzata è un presupposto del capitale, ma l’altro presupposto indispensabile sta nell’esistenza sul mercato di soggetti che, avendo perso ogni possibilità di comando sui mezzi di produzione e di sussistenza, sono costretti a “mettere in vendita, come merce, la loro stessa forza-lavoro”, in quanto impossibilitati a vendere autonomamente i prodotti del loro lavoro che appartengono al capitalista. Perché sia possibile trovare sul mercato tali soggetti “liberi”, occorre che nella storia dell’umanità ci siano stati rivolgimenti tali da spossessare questi lavoratori, da renderli “liberi” anche dal possesso dei mezzi di produzione e dei mezzi di sussistenza. Rivolgimenti generalmente violenti alla base della cosiddetta accumulazione originaria.
Quindi, il capitale deve scaturire dalla circolazione, dallo scambio con la forza-lavoro, il cui risultato è la trasformazione del lavoro in capitale, in quanto dà al capitale il diritto di proprietà sul relativo prodotto. Secondo Marx, però, solo andando oltre l’esame della sfera della circolazione, dello scambio di valori equivalenti, si può comprendere quale sia la vera natura dello sfruttamento. Occorre esaminare l’uso della forza-lavoro, e non solo il suo scambio, entrare, afferma Marx, nel luogo alla cui entrata sta scritto “vietato l'ingresso ai non addetti” e dove il lavoratore “non abbia ormai da aspettarsi altro che la... conciatura” [1].
La circolazione del capitale è interrotta dal processo di produzione, che richiede tempo, così come il processo di produzione è interrotto dalla circolazione, che ugualmente lo richiede. Ma in realtà il processo produttivo deve essere il più possibile continuo, riducendo al minimo le interruzioni. Pertanto il capitale complessivo a disposizione di un capitalista, in realtà si fraziona in porzioni che si avvicendano fra di loro di modo che, mentre una porzione, per esempio, è operante nella prima fase della circolazione (acquisto di mezzi di produzione e forza-lavoro, D-M), un’altra opera nella produzione (messa in azione del processo lavorativo, M...p...M') e un'altra è ancora nella seconda fase della circolazione (vendita del prodotto, M'-D'). Al termine di ogni ciclo lavorativo, la relativa porzione di capitale ne esce per immettersi nella circolazione e un’altra porzione, quella che precedentemente era nella fase D-M, la soppianta nella produzione. Analogamente, se la lavorazione si suddivide, come di regola, in fasi, vi sarà un continuo succedersi di diverse porzioni di capitale da una fase produttiva all'altra.
Le possibilità della crisi si ampliano con la circolazione del capitale.
Riassumendo: con la produzione capitalistica si generalizza lo scambio al punto che anche la forza-lavoro, o meglio il diritto al suo uso, diviene merce. Allo stesso momento, però, con lo scambio fra capitalista e lavoratore, si costituisce il diritto dei capitalisti ad appropriarsi del lavoro altrui e del relativo prodotto e si rovescia quindi il presupposto della circolazione semplice, secondo cui ognuno è proprietario del prodotto del proprio lavoro.
La possibilità astratta della crisi, che avevamo visto essere insita nella circolazione delle merci M-D-M, si sviluppa ulteriormente sia perché con il capitale tale circolazione diviene il modo generale con cui si scambiano le merci e il “mercato” pervade ogni aspetto della vita sociale, sia per caratteristiche specifiche del ciclo D-M-D’. Infatti, fra il primo ciclo D-M e il secondo M-D’ si interpone il processo produttivo che ha i suoi tempi (in agricoltura, per esempio, spesso l’anno solare; nell’edilizia anche alcuni anni, nella manifattura da poche ore a diversi giorni (o più laddove debbano intervenire ulteriori tempi occorrenti ai processi naturali di trasformazione, come per esempio nel caso della fermentazione del vino o della conciatura delle pelli). Quindi, fra l’acquisto e la vendita possono verificarsi rivolgimenti, per esempio cambiamenti dei prezzi di mercato a seguito di innovazioni, dell’ingresso nel mercato di prodotti concorrenti ecc., che “mandano fuori mercato”, non consentono di vendere il prodotto a un prezzo remunerativo del lavoro in esso speso. Facciamo alcuni esempi. Se nel corso dell'intera metamorfosi aumentano i prezzi delle materie prime, il valore che andrò a realizzare dalla vendita del prodotto potrebbe risultare non sufficiente per un capitale di un determinato importo per riacquistare materie prime idonee ad avviare un nuovo ciclo produttivo su scala allargata, o addirittura neppure sulla medesima scala del precedente ciclo, a meno non ricorra al credito. Con ciò sarà impossibile mantenere l’occupazione dei lavoratori, che non saranno più buoni consumatori di prodotti altrui. Se invece diminuisce il prezzo del prodotto, per esempio in virtù di un'innovazione tecnologica introdotta da imprese concorrenti, cade anche il valore del prodotto finale in una misura che può ridurre il plusvalore, azzerarlo o addirittura non far riaffluire per intero, con la vendita, il capitale anticipato. Ma anche se i prezzi delle materie prime cadono prima del loro acquisto, una parte del capitale monetario disponibile viene risparmiata, non è più necessaria e, se non è possibile investirla per aumentare la scala della produzione, verrà probabilmente investita in prodotti finanziari e quindi tolta dalla circolazione delle merci, causando problemi di realizzo ad altri capitalisti.
Se aumenta invece il prezzo di mercato del prodotto, il capitalista ci guadagnerà, ma, nel caso si tratti di un prodotto intermedio, lo farà a scapito di un altro per il quale aumenterà il fabbisogno di denaro. Quello che guadagna uno, quindi lo scapita un altro e il credito può rappresentare una buona cassa di compensazione di guadagni e perdite a condizione che essi non perdurino nel tempo.
Visto il concatenamento delle metamorfosi del capitale, la disgrazia di un capitalista può ripercuotersi su altri, portando in disgrazia anche questi ultimi, nonché i loro operai, che quindi cesseranno di essere consumatori solvibili di altri prodotti.
Un’altra possibilità di interruzione della serie di metamorfosi sta nel fatto che per iniziare un’attività industriale occorre una quantità minima di capitale monetario da anticipare. Per esempio un'industria tessile richiede almeno i soldi per acquistare un telaio, il filato necessario per alimentare il telaio e la forza-lavoro necessaria per tenerlo in movimento. Con lo sviluppo delle forze produttive, diviene sempre maggiore l’importo minimo del capitale necessario per avviare un’attività industriale competitiva. Di conseguenza diviene un presupposto di tale inizio una precedente accumulazione di denaro nella misura adeguata, che probabilmente richiede un tempo superiore a un ciclo produttivo, se non addirittura anni. Nel frattempo una parte del denaro viene sottratta dalla circolazione e giace in forma di tesoro, o immessa temporaneamente nel circuito del credito per finanziare altre attività. Analogo discorso vale per le industrie già esistenti che intendono ampliarsi. La singola impresa non può espandersi linearmente, senza soluzione di continuità. Se un’industria tessile funziona con tre telai, l’anno successivo non può funzionare, per esempio, con tre telai e un terzo, ma solo dopo tre anni può avere accumulato tanto plusvalore per acquistare il quarto telaio, tanto filo quanto è necessario per alimentare anche il quarto telaio e tanta forza lavoro per farlo funzionare. Quindi per alcuni anni il plusvalore viene conservato in forma più o meno liquida in attesa di “fare il passo” che permette l’espansione della produzione attraverso il quarto telaio. È da tenere presente però che il plusvalore sociale che così viene sottratto alla circolazione dei capitali produttivi, con ogni probabilità viene temporaneamente impiegato nel comparto finanziario e potrebbe servire nel frattempo a finanziare altre imprese permettendo loro di compiere il “salto” prima ancora di aver realizzato tutto il plusvalore necessario per l’investimento. Una delle funzioni del credito è proprio questa, di poter prescindere dalla ricchezza effettivamente disponibile, di anticipare la disponibilità di guadagni futuri per sviluppare la produzione. Solo che, nel caso non si realizzino le aspettative di guadagno, il debito non potrà essere saldato e alla rovina dei debitori potrà seguire la rovina dei creditori, secondo il meccanismo tipico delle crisi, che si manifestano sotto forma di crisi finanziarie, ma le cui cause, se si va oltre l’apparenza fenomenica, risiedono nella produzione e circolazione capitalistica.
È da considerare, inoltre, che il movente predominante del capitale è l’accumulazione di ricchezza astratta, a prescindere dall’utilità dei prodotti. Il capitalista considera i bisogni in via presuntiva, come mezzo per rendere vendibile il prodotto, ma può verificare l’incontro con tali bisogni solo a posteriori. Il valore prodotto è solo valore in potenza, che deve essere validato nel mercato. Inoltre, i bisogni che contano sono solo quelli “solvibili”. Ci può essere un grande bisogno di case, ma se non ci sono i soldi per comprarle esse risultano invendibili. Si possono cercare di vendere invece prodotti di scarsa utilità, modificando mode e stili di vita, ma anche in questo caso la loro affermazione rappresenta una scommessa che non sempre viene vinta. La crisi sopraggiunge per far ritornare alla memoria la necessità di un rapporto coi bisogni, per rimediare alla tendenza del modo di produzione capitalistico a farne astrazione, dovendo tuttavia misurarsi con essi a posteriori.
Anche la funzione del denaro come mezzo di pagamento e il credito, che si dirama e si interconnette tra vari produttori, amplifica la possibilità di crisi, in quanto tende a permettere, per un po’, di continuare a produrre prescindendo dalla vendita, rendendo però più violenta la “resa dei conti” dopo avere accumulato perdite, che ci eravamo illusi fossero temporanee. Per esempio, il produttore di stivali acquista a credito cuoio dal conciatore. Se fallisce e non può onorare il suo debito, anche il conciatore andrà in difficoltà e forse non potrà acquistare le pelli grezze dall’allevatore di bestiame (o se le aveva acquistate a credito non potrà pagarle). Il fallimento di un debitore può provocare, con la sua insolvenza, il fallimento del suo creditore, il quale a sua volta non potrà onorare i suoi debiti nei confronti di terzi, innescando una reazione a catena. Per non parlare della disgrazia dei relativi lavoratori che non potranno più acquistare i loro prodotti. Lo stesso credito bancario permette di sopravvivere, di rinviare nel tempo la resa dei conti e spesso si basa sul nulla, come succede per esempio con lo sconto di cambiali di comodo emesse fingendo che dietro vi sia una vendita di merce in realtà mai avvenuta. Anche per questo motivo le crisi si manifestano generalmente come crisi finanziarie e provocano, nell'economista borghese che vede solo la superficie delle cose, l’illusione che esse siano causate nella sfera della finanza e del credito.
Per inciso, il limite dell’economia borghese di vedere solo gli aspetti fenomenici si è manifestato in molti “osservatori” che hanno individuato le cause della crisi scoppiata nel 2007 con la bolla dei mutui subprime in Usa, in una cattiva finanza. La finanza in effetti era cattiva, ma funzionale a far tirare avanti per un po’ i capitalisti. I lavoratori, sempre meno in grado di essere anche consumatori con i loro salari declinanti, lo potevano divenire grazie al credito e a un andamento favorevole del mercato edilizio che consentiva loro di accendere nuovi mutui in relazione all’aumento del valore delle proprie case. Il credito ha consentito di ritardare la crisi, rendendola più violenta alla resa dei conti, ma la causa stava nella miseria dei lavoratori e quest’ultima era dovuta alla stretta liberista resa necessaria per contrastare la caduta dei profitti che si era sviluppata notevolmente fino agli anni ’70 del secolo scorso.
Processo lavorativo e processo di valorizzazione
Il capitalista consuma la forza lavoro acquistata secondo il suo valore d’uso, cioè facendola lavorare. Visto che il lavoro deve rappresentarsi in merci, esso deve essere speso in forma utile, per la produzione di valori d’uso. Infatti “nessuna cosa può essere valore senza essere oggetto d’uso. Se è inutile, anche il lavoro contenuto in essa è inutile, non conta come lavoro e non costituisce quindi valore” [2].
Anche il processo produttivo assume due caratteristiche, una naturale e una storicamente determinata. Marx in un primo momento prende in considerazione il processo lavorativo, cioè la produzione esaminata dal punto di vista delle sue determinazioni naturali. Esso consiste nell’attività volta alla produzione di valori d’uso, in un mezzo per regolare il ricambio organico dell’uomo con la natura, cioè in un’attività di appropriazione e utilizzazione delle forze della natura conforme a uno scopo precedentemente programmato. Da questo punto di vista, tali determinazioni naturali sono comuni a tutte le società. I valori d’uso prodotti possono essere destinati al consumo o impiegati come mezzi di produzione in nuovi processi lavorativi, come fattori oggettivi della produzione da parte del “lavoro vivente” e come condizioni di esistenza del processo lavorativo. Anche questo è un aspetto comune a tutte le società: una parte del lavoro viene impiegato non solo per produrre beni di consumo ma anche per produrre mezzi di produzione, siano esse la clava o la lancia la cui punta consiste in una pietra scheggiata che consentono di catturare più agevolmente le prede. Contemporaneamente, questo processo costituisce l’unico mezzo per conservare come valori d’uso questi prodotti del lavoro, che non avrebbero nessuna utilità al di fuori di esso.
Se queste sono le determinazioni naturali, quelle storiche all’interno del modo di produzione capitalistico, del processo, visto come processo di consumo della forza lavoro da parte del capitale, sono invece le seguenti: a) il lavoratore è sottoposto al controllo del capitalista; b) il prodotto è di proprietà del capitalista; c) non è il lavoratore che utilizza i fattori oggettivi della produzione, ma il lavoro morto, “cristallizzato” nei mezzi di produzione, che utilizza e “succhia il lavoro vivo”; d) dal processo produttivo scaturisce un plusvalore, un’eccedenza rispetto al valore del capitale anticipato.
Tale processo assume quindi l'aspetto di “processo di valorizzazione del capitale” ed è possibile solo se il lavoro necessario alla reintegrazione del valore della forza-lavoro, che fenomenicamente si manifesta nel salario, corrisponde solo a una frazione della giornata lavorativa. In altre parole, se nell’equivalente pagato per l’uso giornaliero della forza-lavoro sono oggettivate un numero di ore di lavoro inferiore alla durata della giornata lavorativa prevista contrattualmente. I mezzi di produzione divengono quindi capitale non in virtù delle loro proprietà naturali ma del rapporto sociale che si instaura fra chi li possiede e il lavoratore. Solo gli economisti borghesi, che vedono nel capitalismo il modo di produzione eterno e non corrispondente a una fase della storia umana, possono confondere l'aspetto naturale con l'aspetto sociale, il mezzo di produzione con il capitale. Se si può concedere l'attenuante agli economisti che hanno preceduto Marx, questa identificazione è imperdonabile agli economisti contemporanei, che persistono nella confusione.
Note:
[1] K. Marx, Il Capitale. Critica dell'economia politica, libro I, ed. Riuniti, 1989, p. 209.
[2] K. Marx, Il Capitale, I, cit. p. 73.