(segue da Parte V)
La metamorfosi della merce e la critica alla legge di Say
La circolazione delle merci avviene attraverso una serie di cambiamenti di mano fra merci e denaro. Il venditore, per il quale la merce è immediatamente solo depositaria di valore e non valore d’uso, cerca di scambiarla con denaro, quale forma di equivalente socialmente valida, per realizzare così effettivamente il valore che tale merce conteneva in potenza. Avendo a disposizione il denaro realizzato, potrà appropriarsi di un’altra merce che sia finalmente per lui oggetto d’uso. Il fine della metamorfosi della merce è pertanto il cambiamento del valore d’uso a disposizione, per lui inutile con un altro. Tale cambiamento avviene con la mediazione del denaro e quindi si scinde in due mutamenti di forma: a) trasformazione della merce in denaro (Merce – Denaro o M-D); b) trasformazione del denaro in merce (Denaro – Merce o D-M).
In ciascuno di questi due momenti il soggetto trova al polo opposto un altro soggetto. Nella prima trasformazione (M-D), la vendita, il soggetto deve trovare un compratore; nella seconda (D-M) deve trovare un venditore. Secondo Marx la difficoltà maggiore, il “salto mortale della merce” è nel primo cambiamento (M-D) che può avvenire solo se il possessore della merce trova un compratore interessato al suo valore d’uso e che reputi congruo il suo prezzo, dunque solo se la merce è utile e prodotta senza spreco di lavoro. In altre parole, lo scambio avviene se il lavoro impiegato si dimostra a posteriori speso in forma socialmente utile.
Alla vendita del possessore di merce (M-D) deve corrispondere un acquisto da parte di un altro soggetto (D-M). Così pure la conclusione della metamorfosi, il secondo momento dello scambio, l’acquisto (D-M), coincide necessariamente con l’inizio di un altro scambio per un altro soggetto, cioè con la vendita da parte di quest’ultimo (M-D). In tal modo vengono a intrecciarsi fra di loro numerosissime metamorfosi della merce, come tanti anelli di una catena.
La mediazione del denaro è un vantaggio notevole: non rende necessario che si incontrino due soggetti che reciprocamente siano interessati l’uno al valore d’uso dell’altro. Come abbiamo visto, infatti, il compratore della mia merce non sarà in genere il venditore della merce che io acquisterò successivamente. Si superano in questo modo i limiti del baratto, dello scambio immediato fra merci, limiti spaziali (non è necessario che i due atti si svolgano nello stesso mercato) e temporali (non è necessario che avvengano nello stesso momento).
Il processo di scambio nel suo insieme, M-D-M, differisce dallo scambio immediato anche per un’altra caratteristica cruciale: la mediazione del denaro spezza questa metamorfosi in due fasi, M-D e D-M. L’inizio (M-D) coincide con la fine (D-M) di un ciclo analogo. La conclusione della mia metamorfosi (D-M) è anche l’inizio di un altro ciclo (M-D) per il soggetto che mi si contrappone. Se l’intero ciclo M-D-M va a buon fine, si realizza lo scopo della metamorfosi, quello di impossessarsi di un diverso valore d’uso. Ma i soggetti che ho avuto di fronte nel corso della metamorfosi sono due e non uno solo, e con il secondo movimento (D-M) il mio venditore ha iniziato un suo nuovo ciclo, un suo M-D e potrà (ma potrebbe anche non farlo) procedere all’acquisto di un altro valore d’uso (D-M). Le metamorfosi sono quindi concatenate fra di loro e ciascuna di esse costituisce l’anello di una catena, al di fuori del controllo dei soggetti in relazione. Pertanto, la rottura di un anello, perché una merce non può essere venduta, interrompe la catena e si propaga determinando altre rotture. Per esempio, se il produttore di bibbie non riesce a venderle, non potrà a sua volta comprare salsicce dal macellaio e quest’ultimo avrà meno denaro per comprare soprammobili, e così via. L’interruzione è resa possibile proprio dalla separazione del ciclo in due fasi. Tale possibilità costituisce anche la possibilità dell’esistenza delle crisi, ma solo la possibilità astratta, perché la spiegazione delle cause reali della crisi non è possibile esaminando la semplice circolazione della merce, ma presuppone di conoscere alcune contraddizioni presenti nella produzione e nella circolazione capitalistica.
Quindi Marx, partendo da questa forma astratta della metamorfosi della merce, formula una critica rigorosa alla legge degli sbocchi o legge di Say, dal nome dell’economista Jean Baptiste Say. Secondo questa legge, in realtà formulata per primo da James Mill, non può esserci crisi generalizzata di realizzo perché ognuno vende per acquistare, si procura cioè con la vendita il denaro che gli è utile per gli acquisti futuri, e quindi ogni offerta dà luogo a una domanda di pari importo. Marx osserva invece che lo spezzarsi in due fasi della metamorfosi, il fatto che il venditore possa differire il suo successivo acquisto, tesaurizzare il denaro o comprare una merce all’estero, determina la possibilità della crisi, anticipando un’analoga critica da parte di John Maynard Keynes il quale la formula senza ammettere debiti verso precedenti confutazioni, affermando che la legge di Say è valida solo per le economie basate sul baratto.
Criticando questa legge, Marx osserva che sebbene nella sua formulazione vi vengano immesse “di contrabbando le figure del venditore e del compratore mutuate dal processo di circolazione”, in realtà essa descrive il baratto. È vero che il fine della metamorfosi è lo scambio di un valore d’uso con un altro, M-M, ma tale cambiamento non avviene come un’unità, bensì in due fasi indipendenti. La distinzione tra queste due fasi costituisce anche “la forma generale della rottura e separazione” della catena di scambi, la “forma generale e astratta” delle crisi [1].
Il denaro non è solo l’intermediario dello scambio, ma anche il mezzo per dividerlo in due atti autonomi, separati nello spazio e nel tempo. Sono atti complementari: la loro unità è necessaria, devono realizzarsi entrambi, ma sono invece indipendenti fra di loro. Se non fossero separabili, se il denaro non potesse uscire dalla circolazione, per esempio tesaurizzandosi o rinviando nel tempo l’acquisto, non ci sarebbe la possibilità della crisi. “La difficoltà di trasformare le merci – il prodotto particolare del lavoro individuale –” nel suo opposto, cioè nel denaro che invece rappresenta lavoro sociale generale, è “insita nel fatto che chi ha venduto e quindi possiede la merce nella sua forma di denaro, non è obbligato a ricomprare immediatamente, a riconvertire il denaro in un prodotto particolare del lavoro individuale”. La facilità con cui il compratore può differire l’acquisto corrisponde alla difficoltà della vendita. “La crisi non è altro che l’affermazione violenta [della necessità] dell’unità di fasi [...] che si sono rese indipendenti l’una rispetto all’altra” [2].
L’affermazione che domanda e offerta sono di identico valore e devono corrispondersi non tiene conto del fatto che tale valore può realizzarsi, trasformarsi in denaro, solo se il valore d’uso della merce prodotta viene apprezzato nel mercato. L’incontro fra valore d’uso e valore non è però una certezza. L’“equilibrio metafisico” fra compera e vendita avviene perché a ogni compera corrisponde una vendita, per ogni compratore esiste un venditore. Tuttavia, in determinati periodi le merci diventano invendibili e chi non può vendere non può nemmeno comprare.
“Non ci può essere nulla di più sciocco del dogma che la circolazione delle merci implichi la necessità dell’equilibrio delle vendite e delle compere, poiché ogni vendita è compera e viceversa. Se ciò significa che il numero delle vendite compiute è identico allo stesso numero di compere, avremo una banale tautologia. Ma ciò dovrebbe dimostrare che ogni venditore porta al mercato il suo proprio compratore. Vendita e compera sono un atto identico come relazione reciproca fra due persone polarmente opposte, possessore di merce e possessore di denaro. Come azione della stessa persona, costituiscono due atti polarmente opposti. L’identità di vendita e compera implica quindi che la merce diventi inutile quando, gettata nell’alambicco alchimistico della circolazione, non ne esce come denaro, non è venduta dal possessore di merci, e dunque non è comprata dal possessore di denaro. [...] Nessuno può vendere senza che un altro comperi. Ma nessuno ha bisogno di comprare subito per il solo fatto di aver venduto” [3].
E qui compare di nuovo la critica alla confusione borghese fra carattere naturale della riproduzione sociale e sua forma storicamente determinata. La legge di Say, infatti, per dimostrare l’impossibilità della crisi identifica l’economia capitalistica con l’economia di baratto, privandola così di ogni determinazione specifica del modo di produzione capitalistico e della stessa economia di mercato.
“Per dimostrare che la produzione capitalistica non può condurre a crisi generali, vengono negate tutte le condizioni e tutte le determinazioni formali, tutti i principi e le differerntiae specificae, in breve la produzione capitalistica stessa, e in realtà si dimostra che, se il modo capitalistico di produzione, invece di essere una forma specificamente sviluppata, particolare della produzione sociale, fosse un modo di produzione rimasto dietro i suoi più rozzi inizi, non esisterebbero le sue antitesi particolari, le sue contraddizioni, e quindi neppure la loro esplosione nelle crisi” [4]
La merce, in cui esiste l’antitesi fra valore d’uso e valore di scambio, viene relegata a semplice prodotto, a solo valore d’uso. Si retrocede non solo dietro la produzione capitalistica, ma anche dietro la semplice produzione di merci. Si nega la crisi negando la produzione di merci e il loro scambio con denaro. Si nega ogni determinazione specifica del modo di produzione capitalistico. In sintesi, si potrebbe dire: se non ci fosse il capitalismo non ci sarebbe la crisi.
Marx respinge anche la teoria quantitativa della moneta, accettata pure da Ricardo. Questa teoria, partendo dall’identità fra la massa monetaria in circolazione (D) moltiplicata per la velocità di circolazione (V) e il valore complessivo delle merci (quantità, Q, per prezzi, P), in formula D*V = Q*P, afferma che un aumento della massa monetaria, per esempio attraverso l’emissione da parte dello Stato, non incide sul livello della produzione reale, ma solo su quello generale dei prezzi, generando inflazione. È evidente che al numero di transazioni nell’unità di tempo, per esempio un anno, moltiplicate per il prezzo unitario, cioè al valore delle transazioni, deve corrispondere un pari movimento di denaro (massa monetaria per velocità di circolazione, cioè per il numero di volte che quella massa entra in circolazione nella medesima unità di tempo). Se nella formula sopra riportata incrementiamo D, restando fermo tutto il resto, l’uguaglianza viene soddisfatta aumentando nella stessa proporzione P. E viceversa avviene una diminuzione dei prezzi nel caso di una riduzione della massa monetaria in circolazione. La moneta sarebbe quindi un “velo” che incide solo sul livello generale dei prezzi lasciando inalterata ogni altra grandezza economica. A questa deduzione Marx ribatte che è possibile che variazioni della massa monetaria incidano su V, e cioè che un’emissione di moneta suppletiva non necessariamente si traduca in una maggiore quantità di moneta in circolazione, determinando un aumento dei prezzi, ma possa essere trattenuta, riducendo la velocità di circolazione della moneta stessa. Anche in questo caso la teoria quantitativa prescinde dalle diverse funzioni del denaro, che non è solo quella di intermediario degli scambi, ma anche di stoccaggio della ricchezza, di mezzo di concessione dei crediti e di pagamento dei debiti o delle imposte, consentendo che la circolazione possa, entro determinati limiti, prescindere anche dalla quantità di denaro in circolazione. Ciò avviene a maggior ragione quando circola in forma cartacea o di semplici scritture contabili, per non dire delle attuali forme di pagamento digitale e dei bitcoin.
La metamorfosi del capitale
Proseguendo nello sviluppo della sua analisi, Marx introduce la “metamorfosi del capitale”, cioè la forma con cui circolano i capitali.
Abbiamo visto che il denaro è valore reso autonomo dalle altre merci. È un coagulo di lavoro astratto oggettivato, è valore, una potenza sociale. Il fine ultimo del modo di produzione capitalistica non è scambiare valori d’uso: lo scambio di merci è solo lo strumento per realizzare il vero fine, l’accumulazione di ricchezza astratta, di denaro.
Il ciclo M-D-M, quindi, non riesce a spiegare il fondamento di tutta una serie di fenomeni tipici di un modo di produzione che ha compiuto, attraverso il capitale, il balzo verso la generalizzazione della produzione di merci. Nella forma della metamorfosi della merce il primo e l’ultimo termine sono due merci di valore equivalente; il movente dello scambio è l’appropriazione di un valore d’uso che renda possibile la soddisfazione di determinati bisogni. Anche nella produzione capitalistica questo è un aspetto inevitabile del processo di scambio. Per esempio, ecco cosa si potrebbe affermare a proposito dello scambio tra capitale e forza-lavoro: 1) il capitalista cerca di realizzare, con la vendita, il valore dei suoi prodotti e trasformarli in denaro (M-D); 2) attraverso il denaro può ora appropriarsi di merci aventi una forma materiale a lui utile al fine di iniziare un nuovo ciclo produttivo, forza-lavoro e mezzi di produzione (D-M). Ugualmente il lavoratore trasforma ciò di cui dispone, la propria capacità lavorativa, l’uso della sua forza-lavoro, in denaro, cedendolo come una merce al capitalista in cambio di salario (M-D), visto che la forza-lavoro è anch’essa una merce, in modo che possa impiegare tale denaro per accedere ai mezzi di sussistenza disponibili in forma di merci (D-M).
Se le cose si presentano effettivamente in questi termini, l’analisi dei fenomeni da questa angolatura non riesce a svelare i rapporti cruciali del modo di produzione capitalistico. Non ci spiega sufficientemente, per esempio, quale sia il movente che induce a ripetere questo ciclo in forma capitalistica e su scala allargata.
Modificando il punto di partenza e quello finale del processo di scambio, partendo dal denaro e ritornando al denaro, interpretiamo più efficacemente la realtà. Non si tratta di un puro espediente analitico: porre il denaro all’inizio e alla fine del processo, quale forma generale della ricchezza, consente di percepire la reale natura della produzione capitalistica, la quale è produzione di ricchezza astratta fine a se stessa e il suo continuo incremento. Facendo astrazione dal contenuto materiale della circolazione delle merci, dallo scambio dei valori d’uso, troviamo che il suo ultimo prodotto è il denaro. Il denaro è la prima forma fenomenica del capitale. Nel processo D-M-D il processo di scambio ha senso solo se l’ultimo termine è superiore quantitativamente al primo, in quanto qualitativamente si tratta della stessa merce, denaro. Pertanto, è più consono rappresentarlo come D-M-D’ dove D’ è maggiore di D, è D più un delta. Il denaro immesso nella circolazione diviene valore che si conserva e si accresce, diviene cioè capitale.
Tuttavia, anche la quantità di denaro che esce dal ciclo, superiore a quella immessa, è limitata, come lo era quella anticipata. Se venisse spesa improduttivamente cesserebbe definitivamente di essere capitale; se venisse tesaurizzata non avrebbe la possibilità di accrescersi nuovamente. Essa deve essere messa di nuovo in circolazione. Il “capitale valorizzato”, la fine di ogni ciclo, diviene così per Marx l’inizio di un nuovo ciclo. Ecco perché solo con la produzione capitalistica si generalizzano la produzione e la circolazione delle merci.
“Il possessore di denaro diventa capitalista, nella sua qualità di veicolo consapevole di tale movimento. La sua persona, o meglio la sua tasca, è il punto di partenza e di ritorno del denaro. Il contenuto oggettivo di quella circolazione – la valorizzazione del valore – è il suo fine soggettivo. Egli funziona come capitalista, ossia come capitale personificato, dotato di volontà e di consapevolezza, solamente in quanto l’unico motivo propulsore delle sue operazioni è una crescente appropriazione della ricchezza astratta. Quindi il valore d’uso non deve essere mai considerato il fine immediato del capitalista. E neppure il singolo guadagno, ma soltanto il moto incessante del guadagnare” [5].
Note:
[1] K. Marx, Per la critica dell’economia politica, ED. Riuniti, 1959, d’ora in poi Per la critica, pp. 76-8.
[2] K. Marx, Storia delle teorie economiche, Vol. II, Giulio Einaudi Editore, 1955, d’ora in poi Storia II, pp.558-9.
[3] K. Marx, Il Capitale. Critica dell’economia politica. Libro I, ed. Riuniti, 1989, d’ora in poi Capitale I I, pp. 145-6.
[4] K. Marx, Storia II, p. 553.
[5] Capitale I, p. 186.