[segue da Parte 3]
Premessa
È giunto finalmente il momento di leggere direttamente il breve scritto del Che, Il socialismo e l’uomo a Cuba, lettera indirizzata a Carlos Quijanos, giornalista uruguaiano, che la pubblicò nel marzo 1965 sulla rivista Marcha. Il Che l’aveva scritta mentre si stava recando in Africa per mettere in atto la sua politica internazionalista.
Per comprendere la relazione tra etica e marxismo nel pensiero del Che, innanzitutto bisogna tenere in conto il pensiero di José Marti (1853-1895), autore intellettuale della Rivoluzione cubana, profondamente influenzato dall’etica cristiana rielaborata da pensatori come il sacerdote Félix Varela (1788-1853), emigrato negli Stati Uniti per il suo anticolonialismo spagnolo.
Secondo Armando Dávalos tre sono i principi dell’etica martiana: l’utilità della virtù, in quanto legata all’intelligenza, alla bontà ed alla felicità; il principio dell’equilibrio nella sfera naturale e sociale, violato dalla politica espansionistica degli USA; la considerazione della cultura come fondamento della politica e come strumento integrale per realizzare attraverso quest’ultima finalità etiche.
Ernesto Che Guevara era famoso per la sua intransigenza, la sua austerità, la sua franchezza, il suo senso del dovere e del sacrificio, della disciplina e per la capacità non diffusa di autocriticarsi. Taluni raccontano che divenne ministro dell’industria solo per aver mal inteso le parole di Fidel, di cui si considerò sempre discepolo: “ho bisogno di un buon economista”. Il Che rispose che lui era disponibile perché aveva capito “comunista”.
Per prepararsi al nuovo incarico nel 1961 organizza in seno al Consiglio dei ministri un seminario dedicato al Capitale, facendosi inviare dall’Unione Sovietica uno studioso di Marx, che era un repubblicano fuggito dalla Spagna dopo la vittoria di Franco e che quindi era di madrelingua spagnola. Non contento si mette anche a studiare matematica dedicando gran parte della notte allo studio.
Il Che comincia la sua lettera polemizzando giustamente con la concezione capitalistica, secondo la quale il socialismo “sarebbe caratterizzato dalla negazione dell’individuo, sacrificato sull’altare dello Stato”. Aggiunge che non confuta questa opinione dal punto di vista teorico, ma facendo riferimento a quello che sta accadendo in quel momento a Cuba. Ricostruendo la storia della Rivoluzione, il Che sottolinea come la guerriglia costituisse il “motore propulsivo del movimento, generatore di coscienza rivoluzionaria e di entusiasmo combattivo”. In questo contesto l’individuo – osserva - opera come “fattore fondamentale”. Commenta: “Fu questo il primo periodo eroico, in cui ci si batteva per ottenere incarichi di maggiore responsabilità e di maggior pericolo, senza altra soddisfazione che l’adempimento del proprio dovere… Nell’atteggiamento dei nostri combattenti già si delineava l’uomo del futuro”.
Come si vede, il modello di uomo che il Che apprezza è quello di chi non è spinto da motivi grettamente utilitaristici ed individualistici. La sua è un’etica eroica, la quale dovrebbe alimentare tutto il processo rivoluzionario ed anche quello successivo di istituzionalizzazione della Rivoluzione, come del resto segnala in un suo scritto il filosofo cubano Miguel David Limia.
Come ho detto, questa concezione antiutilitaristica dell’etica, nel senso che va al di là degli immediati interessi dell’individuo e mira alla realizzazione di quanto è importante per la collettività, ha una lunga storia, che qui non possiamo ripercorrere nella sua complessità. Pertanto, mi limiterò a riprendere alcuni passaggi fondamentali dai Manoscritti del 1844, dove il giovane Marx, riallacciandosi a Feuerbach, definisce l’uomo come essere generico. Che vuol dire? Questo aggettivo indica il carattere che distingue l’uomo dall’animale e che si basa sulla capacità del primo di innalzarsi al di sopra dell’esistenza individuale e particolare. Scrive Ludwig Feuerbach, spiegando che la coscienza distingue l’uomo dall’animale: “Si ha coscienza in senso stretto quando un ente ha per oggetto il suo genere (Gattung), la sua essenzialità. L’animale ha sì per oggetto se stesso come individuo – perciò ha sentimento di sé -, ma non come genere; perciò gli manca quella coscienza che deriva il suo nome da scienza. Dov’è la coscienza c’è facoltà di scienza (wissenschaft). La scienza è la coscienza dei generi… L’animale ha solo una vita semplice, l’uomo duplice: nell’animale la vita interiore coincide con quella esteriore – l’uomo ha una vita interiore e una esteriore. La vita interiore dell’uomo è la vita in rapporto al suo genere, alla sua essenza universale” (2018, nota 18 p. 138). Purtroppo, noi viviamo in un mondo in cui in generale gli uomini non hanno fatto questo salto e vivono chiusi nella loro gretta dimensione individuale, non comprendendo neppure che su di essa si riversano i perversi influssi che sconvolgono la collettività.
Continuiamo con il testo del Che. Il primo governo rivoluzionario si forma nel 1959 con Fidel primo ministro e con esponenti della borghesia imperialistica, ma la pressione delle masse costringe alle dimissioni il Presidente Manuel Urrutia, liberale e cristiano e perciò non inviso agli Stati Uniti. Infatti, le masse si aspettano di più dal nuovo regime politico e tornano con forza sulla scena politica. Il loro protagonismo sollecita il comandante Guevara a riflettere teoricamente sulla stessa natura di queste ultime. A proposito di questa natura scrive: “Questa entità multiforme [la massa] non è la somma di elementi di una medesima categoria…che agisce come un gregge mansueto… Le masse hanno partecipato alla Riforma agraria e al difficile compito dell’amministrazione delle imprese statali; sono passate attraverso l’esperienza eroica di Playa Girón…hanno vissuto uno dei momenti decisivi della storia moderna con la crisi di ottobre e oggi continuano a lavorare per la costruzione del socialismo”.
Ora, l’affermazione la massa “non è la somma di elementi di una medesima categoria…” ha di fatto una portata filosofica importante, perché qui il Che si sta schierando contro quello che abbiamo chiamato in precedenza “individualismo metodologico”, ossia contro quella concezione della società intesa come mera somma di individui, i quali proprio per questo costituiscono entità autonome e indipendenti dalla collettività. Come si è già sottolineato, si tratta della concezione propria del liberalismo, da cui scaturiscono i diritti umani, ossia quei diritti la cui esistenza precede la costituzione della comunità e pertanto da questa non possono essere violati. Una conquista certo importante, ma che a seconda dei contesti, può essere usata in senso progressivo o regressivo. Per esempio, il neoliberalismo ne ha fatto quest’ultimo uso, smantellando quelle istituzioni sociali che garantivano concretamente i diritti individuali.
Come ho già scritto nella precedente puntata, questa concezione si oppone al cosiddetto “collettivismo metodologico”, già presente in Aristotele per il quale l’uomo era un animale politico, secondo il quale l’individuo non è tale se non collocato in una collettività, di cui al contempo fa parte e a cui dà esistenza.
Ovviamente il Che si richiamava a questo assunto metodologico, da cui poi scaturisce un diverso atteggiamento da assumere dinanzi alla vita collettiva e le sue dinamiche.
Ritornando alla questione dell’atteggiamento delle masse, il Che tratteggia un forte rapporto di sintonia tra queste e Fidel, basato sulla capacità di comprensione da parte di quest’ultimo dei bisogni delle classi popolari, e sul mantenimento delle promesse fatte. Tuttavia, come hanno sottolineato osservatori intelligenti quali Jean Paul Sartre e Eric J. Hobsbawm, spesso si è scambiata in America Latina, e non solo, questa relazione simpatetica per una forma avanzata di democrazia diretta, la quale invece ha bisogno del dibattito, del confronto e della polemica. Aspetti che si possono realizzare solo nel contesto di specifiche riunioni assembleari non investite dall’emotività, come accade invece nelle pur necessarie mobilitazioni di massa. Come scrive Roberto Fineschi, il pericolo di questo tipo di relazione sta nella possibile formazione di puri ideologemi di carattere propagandistico volti a suscitare un’adesione strumentale immediata e non una comprensione riflessiva di una vera e propria ideologia politica. Certo, in questo caso importanti sono anche le capacità e le conoscenze del capo, per es. Fidel non assomiglia certo a Nicolás Maduro.
Continuando il Che riconosce che talvolta lo Stato commette errori e questo ha gravi ripercussioni sull’entusiasmo delle masse. Porta ad esempio di ciò la vicenda di Anibal Escalante (1910-1970), il quale aderì sin da giovane ai gruppi comunisti cubani ed entrò nel segretariato dell’ORI, entità che raggruppava i principali movimenti sostenitori della rivoluzione. Fu espulso dall’ORI, si recò in Unione Sovietica da cui tornò nel 1967. Dette vita alla cosiddetta micro fazione, che aveva come obiettivo il completo inserimento di Cuba nella sfera sovietica, in opposizione al governo rivoluzionario che intendeva mantenere una certa indipendenza. Fu condannato per settarismo e attività controrivoluzionaria a 15 anni di carcere che egli scontò fino all’ultimo giorno.
Apro una breve parentesi per dare informazioni sul PCC, cui come è noto Fidel non apparteneva, essendo membro del Partido del pueblo de Cuba o ortodoxo. Esso nasce nel 1925, successivamente si trasforma in PSP e finisce con l’appoggiare il governo di Battista tra il 1940 e il 1944, essendo l’intellettuale Juan Marinello uno dei ministri. Nel 1953 diventa illegale, condanna tuttavia l’assalto al Moncada ed assume un atteggiamento ambiguo verso il Movimento rivoluzionario del 26 di Luglio. Nel 1960 con il M26 costituiscono l’ORI, le organizzazioni rivoluzionarie integrate, da cui 1965 scaturisce il nuovo partito comunista di Cuba.
Tornando all’etica eroica prima evocata dal Che, egli ritiene che per la Rivoluzione sarebbe assai importante “trovare il modo di perpetuare nella vita quotidiana questo atteggiamento eroico” delle masse. A questo proposito – giustamente dal mio punto di vista – Luciano Canfora sottolinea che, le continue pressioni degli Stati Uniti sull’isola caraibica, hanno mantenuto in vita una certa tensione rivoluzionaria, che però credo purtroppo si stia esaurendo in particolare nelle masse giovanili, che non hanno fatto esperienza né della dittatura di Batista né della vittoria della Rivoluzione.
Questo è un tema fondamentale dello scritto che stiamo qui commentando ed è legato a quello che il Che definisce “lo straordinario e appassionante dramma rappresentato dalla costruzione del socialismo”, in cui l’individuo opera sia come singolo che come membro della comunità. È interessante osservare che per il Comandante Guevara l’individuo è un “essere non fatto”, un “prodotto non terminato”. Infatti, “le tare del passato si trasmettono al presente nella coscienza individuale e c’è bisogno di un lavoro continuo per sradicarle. Il processo è duplice: da un lato è la società che agisce con l’educazione diretta e indiretta; dall’altro è l’individuo che si sottopone ad un processo continuo di autoeducazione”.
Bisogna tenere conto del fatto che, all’interno della società capitalistica, continua il Che, “l’uomo è guidato da un ordinamento impersonale che, in genere, sfugge alla sua comprensione. L’essere umano, alienato, ha un cordone ombelicale invisibile che lo lega alla società: la legge del valore, nella quale ovviamente si annida il lavoro non pagato e quindi lo sfruttamento. Essa agisce in tutti gli aspetti della sua vita, modellandogli la strada e il destino”.
Ovviamente il “guerrillero heroico” non ritiene che la vittoria della rivoluzione socialista a Cuba significhi l’immediata instaurazione del socialismo; significa piuttosto che Cuba, come l’antica Unione Sovietica ma con meno risorse, è entrata in una lunga fase di transizione in cui le istituzioni capitalistiche, dalle quali scaturiscono le categorie capitalistiche come merce, legge del valore, salario, denaro etc. continuano ad essere operanti e ad agire in maniera distorcente sulla coscienza dell’uomo. Il problema è quello, da un lato, di appropriarsi dell’eredità in termini di tecnologia, amministrazione, efficienza lasciata dai monopoli capitalistici a Cuba; dall’altro, consapevoli della persistenza delle categorie capitalistiche nella società di transizione, forzare giorno per giorno la loro incidenza per giungere alla loro scomparsa.
Qui è inevitabile un rimando allo stesso Marx, il quale ribadisce il carattere sociale delle categorie e così le definisce “forme di pensiero socialmente valide, quindi oggettive, per i rapporti di produzione di questo modo di produzione storicamente determinato della produzione di merci”.
Per comprendere a fondo il pensiero del Che, oltre che analizzare i suoi scritti sul sistema preventivo di bilancio da lui contrapposto al sistema del calcolo economico sostenuto in particolare da José Carlos Rodriguez, dirigente dell’INRA (Instituto Nacional de la Reforma Agraria), bisogna tenere conto di un’opera frammentaria, scritta tra il 1965 e il 1966, in cui egli sviluppa una serie di importanti osservazioni sul Manuale di Economia politica dell’Accademia delle scienze dell’Unione Sovietica (1963), da molti considerato una specie di Bibbia. Questi appunti non sono stati pubblicati per decenni ed hanno visto la luce sole nel 2006 diffusi dalla piccola casa editrice australiana Ocean Sur, che detiene i diritti delle opere del Che.
Debbo inevitabilmente dare le definizioni dei concetti su segnati: il sistema preventivo di bilancio ingloba tutte le imprese in un unico sistema, finanziato direttamente dallo Stato, il secondo sistema, quello del calcolo economico, prevede invece relazioni mercantili tra le varie unità produttive, che intrattengono tra loro rapporti di scambio.
In questi scritti, in forma di appunti su menzionati, (in particolare il Prologo che contiene Alcune riflessioni sulla transizione socialista tratte da un frammento di una lettera inviata a Fidel nell’aprile del 1965) un punto che mi sembra rilevante è l’osservazione del Che sulla Critica al Programma di Gotha, nel quale Marx tratteggia le due tappe che sarebbero seguite al superamento del capitalismo: il socialismo (a ciascuno secondo il suo lavoro) e il comunismo (a ciascuno secondo i suoi bisogni). A suo parere, con la sua teoria dello sviluppo diseguale, dell’anello debole, Lenin avrebbe introdotto una terza tappa, nella quale si collocavano tutti quei paesi del socialismo reale, anche se l’Unione Sovietica e la Cecoslovacchia pretendevano di essere già entrate nella fase socialista. Questa fase è costituita dalla società in transizione verso il socialismo. Tuttavia, nella difficile situazione dell’Unione Sovietica di quegli anni, dal 1921 Lenin intraprende la strada che lo conduce alla NEP, con la quale si sarebbe instaurato il capitalismo di stato o secondo Guevara il capitalismo pre-monopolistico. Se Lenin fosse vissuto più a lungo, egli ritiene che avrebbe modificato le relazioni sociali instaurate dalle NEP, che avevano portato a copiare molti aspetti del capitalismo. Ad esempio, il Che non vede nessuna differenza tra il taylorismo, ripreso dai sovietici, e lo stacanovismo, che a suo parere si fondano sullo sfruttamento del lavoro a cottimo sia pure rivestito di orpelli retorici.
Come è noto, questa scelta politica suscitò un intenso di dibattito all’interno del gruppo dirigente sovietico; per esempio, alcuni rivoluzionari, tra i quali Nikolaj Bucharin, sostenevano che questa opzione costituiva “una deviazione bolscevica di destra, che minaccia di far imboccare alla rivoluzione la via del capitalismo di Stato”. A queste critiche Lenin rispose: in realtà, “il capitalismo di Stato costituirebbe per noi un passo avanti. Se noi riuscissimo in poco tempo a realizzare in Russia il capitalismo di Stato, sarebbe una vittoria”. E poco oltre: “Che cos’è il capitalismo di Stato sotto il potere sovietico? In questo momento attuare il capitalismo di Stato significa applicare quell’inventario e quel controllo che le classi capitalistiche hanno già applicato. Abbiamo un esempio di capitalismo di Stato in Germania”; il riferimento è all’economia di guerra tedesca, in cui lo Stato aveva posto sotto il proprio controllo interi settori produttivi. Lenin aggiunge: “se lo avessimo in Russia, il passaggio al pieno socialismo sarebbe facile, […] perché il capitalismo di Stato è qualcosa di centralizzato, di calcolato, di controllato e socializzato, ed è proprio questo che a noi manca”.
Una sola osservazione conclusiva: se avessimo seguito Lenin ed Ernesto Guevara nella convinzione di quanto sia complesso costruire il socialismo e di quanto sia lunga e tortuosa la fase di transizione, forse ora molti non sarebbero disposti ad accettare con tanta superficialità l’ipotesi che il socialismo è fallito, dato che di fatto non era stato possibile costruirlo pienamente.
Bibliografia:
Dávalos A., La Ética en J. Martí, http://scielo.sld.cu/scielo.php?script=sci_arttext&pid=S1729-519X2007000500002).
Fineschi R., https://www.lacittafutura.it/unigramsci/populismo-punti-di-partenza
Giacchè V., Il concetto di capitalismo di Stato in Lenin, https://www.sinistrainrete.info/marxismo/11954-vladimiro-giacche-il-concetto-di-capitalismo-di-stato-in-lenin.html
Marx K., Manoscritti economico-filosofici del 1844, a cura di F. Andolfi e G. Sgrò, Othotes Editore, Napoli-Salerno 2018 https://www.ecured.cu/An%C3%ADbal_Escalante