“Il movimento operaio è l’erede della filosofia classica tedesca”. E' questa la frase finale che, a mo’ di conclusione delle considerazioni precedentemente svolte, F. Engels appone al suo saggio L. Feuerbach e il punto di approdo della filosofia classica tedesca. Pubblicato inizialmente nel 1886 sulla rivista Die neue Zeit, fu poi edito autonomamente nel 1888 e, come sua appendice, Engels inserì le Tesi su Feuerbach di Marx, redatte nel 1845. Quindi, dopo più di quarant’anni ed a pochi anni dalla morte di Marx, Engels ritorna sullo snodo fondamentale che portò i due sodali alla formulazione della concezione materialistica della Storia. Si trattava, allora, di una resa dei conti con la loro formazione giovanile, della presa di distanza dalle posizioni dei giovani hegeliani e, segnatamente, dal materialismo di Feuerbach tramite un confronto critico serrato con il pensiero hegeliano. In estrema sintesi: nello scritto in questione Engels, mettendo in rilievo i limiti del materialismo feuerbachiano, ribadisce il carattere rivoluzionario della dialettica hegeliana, e ne rivendica con forza l’ eredità, quale componente essenziale del materialismo storico.
Poiché questo tema era stato già trattato nel corso di filosofia dell’autunno del 2016, che aveva come oggetto la disanima critica delle Tesi su Feuerbach, si è pensato, per il corso della primavera del 2017, di risalire alle origini della dialettica hegeliana, ovvero di esaminare il debito teorico contratto da Hegel nei confronti di Kant nel corso del suo confronto-scontro con il criticismo, costantemente presente in tutte le tappe di sviluppo del suo sistema di pensiero, fin dalle opere giovanili.
Sulla base di tale impostazione, la dizione eredità della filosofia classica tedesca verrebbe quindi a coinvolgere, oltre all’idealismo classico (Hegel e i suoi antecedenti Fichte e Schelling), la filosofia critica di Kant. Da qui il proposito di individuare le articolazioni teoriche e i passaggi concettuali che, nella Critica della Ragion pura, hanno dato un contributo fondamentale, seppure in senso negativo, agli sviluppi futuri della dialettica, in senso hegeliano.
Data l’esiguità del tempo a disposizione (due lezioni di poco più di un’ora ciascuna), i nodi tematici individuati non hanno potuto essere adeguatamente approfonditi e, inoltre, si è dovuto di necessità rinunciare a una più ampia trattazione, che affrontasse la questione anche dalla prospettiva della seconda e della terza Critica kantiana.
Per dare inizio all’esposizione del tema ci si è avvalsi di una delle rarissime metafore presenti nel vasto corpus della produzione filosofica kantiana: si trova alla fine della Analitica trascendentale, al Capitolo terzo, relativo alla “distinzione degli oggetti in generale in Fenomeni e Noumeni”. Si tratta, precisamente, della metafora dell’isola stabile e sicura dell’intelletto (Verstand), entro i cui confini immutabili è circoscritta tutta la possibilità della conoscenza umana; essa è circondata dalla vastità dell’oceano tempestoso, mondo dell’apparenza e fonte di illusioni e di speranze, che mai potranno essere realizzate, sebbene la natura degli uomini sia tale che essi non vi potranno mai rinunciare. Questo è il mare nel quale si avventura la ragione (Vernunft) allo scopo di trovare una soluzione ai problemi sempre ricorrenti in sede di metafisica tradizionale e che concernono gli oggetti della Metaphysica specialis: Uomo, Mondo, Dio, ovvero le Idee della Ragione, delle quali Kant si occupa nella seconda parte della Logica trascendentale: la Dialettica trascendentale.
Che cos’è un’Idea nell’accezione propriamente kantiana? L’Idea è “un concetto della Ragione cui non corrisponde alcunché di empirico”; per cui, non ricadendo nel campo dei fenomeni, non essendo, cioè, oggetto di esperienza possibile, rimane preclusa alla conoscenza finita dell’uomo. Ma prima di esaminare più dettagliatamente la complessa articolazione del mare della Ragione, è opportuno dapprima soffermarsi sul territorio stabile e sicuro dell’Intelletto.
Se consideriamo il pensiero moderno dal punto di vista storico, il criticismo kantiano rappresenta il momento di sintesi degli sviluppi della teoria della conoscenza derivanti del principium inconcussum veritatis della soggettività, inaugurato da Cartesio. La netta distinzione (stabilita da Cartesio per dare un fondamento conoscitivo alla nascita della scienza moderna), tra res cogitans e res extensa, tra pensiero ed estensione, ovvero tra soggetto e oggetto sta alla base dei vari tentativi e delle proposte teoriche avanzate per risolvere il problema gnoseologico, il possibile accordo di soggetto e oggetto.
Semplificando: il contrasto, che, nel corso del XVII e del XVIII secolo, ha caratterizzato in linea di massima la divisione tra l’indirizzo filosofico razionalista e quello empirista, verte principalmente sulla diversa specie di giudizi conoscitivi adottati dalle rispettive scuole. Kant se ne occupa nell’introduzione alla Critica, laddove illustra la differenza tra i Giudizi analitici a priori tipici del Razionalismo ed i Giudizi sintetici a posteriori tipici dell’ Empirismo.
Il pregio dei primi consiste nel fatto che posseggono il carattere della necessità (non possono essere diversamente da come sono)e della universalità (non ammettono alcuna eccezione e valgono in modo incondizionato). L’esempio riportato da Kant è il seguente giudizio: Tutti i corpi sono estesi; il predicato dell’estensione viene dedotto analiticamente dal concetto del soggetto corpo perchè in esso originariamente contenuto, per cui, nel momento in cui mi rappresento il concetto di corpo, non posso pensarlo privo dell’attributo di estensione. La deduzione del predicato dal soggetto è del tutto a priori, poiché in questa operazione analitica il pensiero-soggetto che formula il giudizio non ricorre assolutamente all’esperienza, ma, per così dire, rimane presso di sé. Pertanto il carattere necessario e universale di detti giudizi è garantito esclusivamente dalla loro aprioricità.
Tuttavia i giudizi analitici a priori sono sterili, non mi forniscono una conoscenza aggiuntiva sulla “natura” del soggetto; una volta che il giudizio è stato formulato, non si è ottenuta nessuna nuova nozione intorno al soggetto del giudizio: il contenuto conoscitivo iniziale non ha subito alcuna estensione, sebbene, tramite il giudizio analitico mi si è reso esplicito e manifesto quel contenuto che era implicito nel concetto del soggetto.
In conclusione, con il lessico di Kant: i Giudizi analitici a priori sono necessari e universali, ma non aggiuntivi, sono semplicemente esplicativi.
Con i Giudizi sintetici a posteriori dell’Empirismo pregi e difetti sono invertiti: sono aggiuntivi perché sintetici, ma non sono né necessari né universali, perché a posteriori. Su questo ultimo punto, Kant si rivela essere fedele alla lezione di Hume: qualsiasi conoscenza che avvenga a posteriori, proprio perchè frutto della mera esperienza empirica, non può assurgere al valore dell’universalità e della necessità. Tuttavia i giudizi sintetici sono aggiuntivi, estendono il campo della conoscenza, senza, peraltro, poter fornire alcun criterio a garanzia della loro oggettiva validità.
La situazione appare bloccata: né l’approccio razionalista, né quello empirista sembrano in grado di uscire dall’ aporia. La soluzione più sensata consisterebbe nel prospettare la possibilità di giudizi tali da mantenere i pregi di entrambi gli indirizzi di pensiero e di eliminarne, i difetti: sono questi i Giudizi sintetici a priori, aggiuntivi perché sintetici, e necessari e universali perché a priori. Invero, tutta l’impostazione critica di Kant è mossa ed è sorretta dalla domanda fondamentale: “come sono possibili giudizi sintetici a priori?” Non è una domanda di pura accademia, ma è una domanda intrisa di drammaticità e con carattere di urgenza, perché con essa si gioca la partita sulla epistemicità della fisica moderna galileana-newtoniana, sulla validità, cioè, del principio di causalità che ne sta a fondamento, messo a dura prova dalla critica scettica di Hume.