Segue da: “Gli Stati Uniti dal primo dopoguerra al crollo della borsa di Wall Street”
Link al video della lezione tenuta per l’Università popolare Antonio Gramsci su questo argomento
Il razzismo, il proibizionismo e il gangsterismo
Durante i governi della destra repubblicana degli anni venti raggiunge il suo culmine la repressione negli Stati Uniti delle attività culturali e politiche di opposizione o presunte tali. La vera e propria politica di caccia alle streghe lanciata dagli apparati ideologici dello Stato contro le sinistre e gli immigrati porta, fra l’altro, alla condanna a morte di due immigrati italiani: Sacco e Vanzetti, sebbene innocenti e nonostante la grande campagna internazionale per la loro liberazione. Il razzismo, volto a distrarre le classi subalterne dalla lotta di classe condotta dalle classi dominanti, si scatena, come da tradizione, contro gli immigrati più recenti oltre che contro i suoi tradizionali obiettivi: gli afroamericani, i nativi, gli asiatici, gli ebrei, ma anche italiani, polacchi e irlandesi, in quanto cattolici. Il Ku Klux Klan, squadracce organizzate per seminare il terrore razzista fra le classi subalterne, rappresenta l’avanguardia della violenza razzista e anticomunista, coperta dagli apparati repressivi dello Stato e sostanzialmente incoraggiata dai grandi mezzi di comunicazione. La proibizione delle bevande alcoliche, resa necessaria dai disumani ritmi di lavoro imposti dall’introduzione delle catene di montaggio in primis nelle industrie Ford, favorisce il gangsterismo. Tale proibizione vale, con la solita ipocrisia puritana, per le sole classi subalterne, che debbono essere sempre nelle migliori condizioni per poter massimizzare il loro sfruttamento, mentre le bevande alcoliche sono commercializzate dalla malavita organizzata a beneficio del blocco sociale dominante, che si gode il plusvalore estorto al proletariato. In tal modo si assiste a un vero e proprio boom della criminalità organizzata, esaltata sino ai giorni dall’industria culturale, anche perché funzionale a un’apologia indiretta della società capitalista, nonostante la sua conclamata crisi.
Il crollo della borsa di Wall Street (1929)
Esauritasi la possibilità di investire all’estero i capitali sovraprodotti in patria e dopo aver portato subdolamente le classi subalterne a indebitarsi ben oltre le proprie possibilità, grazie all’invenzione della truffaldina vendita a rate – funzionale a mantenere l’egemonia del capitale finanziario sui subalterni nonostante l’erosione dei salari – riesplode la ciclica crisi di sovrapproduzione, sempre su scala allargata. Al solito la forma fenomenica della crisi, per come si manifesta e viene presentata all’opinione pubblica, è il crollo della principale borsa nel paese più sviluppato in senso capitalistico, nel caso specifico quella di Wall Street (1929). Dietro il crollo vi è l’esplosione di una spaventosa bolla speculativa, in quanto la caduta tendenziale del tasso di profitto aveva spinto i capitalisti a investire sempre più in attività speculative, ovvero in scommesse, in primo luogo sulle attività produttive quotate in borsa mediante le azioni. L’aumento delle investimenti aveva fatto crescere il prezzo delle azioni troppo oltre il valore reale di riferimento e, così, nel momento in cui gli ignari piccoli investitori avevano finito di investire, seguendo al solito la corrente, in azioni, i grandi capitalisti che controllano la borsa ritirano improvvisamente i propri investimenti, facendo precipitare il valore dei titoli ben al di sotto del loro valore reale. In tal modo tutti i “risparmi” dei piccoli e medi investitori – spesso, in realtà, mero salario differito, investito in assicurazioni, fondi pensioni etc. – passò in un lasso di tempo brevissimo nelle mani dei grandi investitori-speculatori, realizzando in tal modo la vera rapina del secolo, da far impallidire i delitti dei gangster.
La crisi, inoltre, è ampiamente sfruttata dal grande capitale finanziario, di una dimensione sempre più sovranazionale, per inglobare o costringere alla chiusura le piccole e medie imprese, che ancora osavano far concorrenza ai trust, imponendo prezzi di monopolio, ovvero drenando ancora più ricchezze dai ceti medio-bassi, che vivevano di redditi fissi, nella mani dei grandi capitalisti. Il fallimento e la chiusura, spesso pilotata dai grandi trust, di piccole e medie imprese aumenta in modo esponenziale il numero dei disoccupati, funzionale ad ampliare l’esercito industriale di riserva, indispensabile a mantenere la media dei salari al di sotto del valore della forza lavoro. Ecco così garantito il tanto agognato, anche dagli odierni socialisti piccolo-borghesi, salario minimo.
Oltre a sfruttare la crisi per saccheggiare le già ridotte risorse dei ceti medio-bassi, il grande capitale finanziario, sempre più transnazionale, tende a scaricare gli effetti negativi della crisi sui paesi capitalisti più deboli, dipendenti dagli investimenti dei più potenti. In tal modo il grande capitale finanziario, dopo aver sovrainvestito in un determinato paese, per farvi convergere il “risparmio” del “parco buoi” (piccoli e medi risparmiatori), ritira improvvisamente i propri capitali producendo un effetto a catena che non solo polverizza i risparmi degli sprovveduti medio-piccoli investitori, ma che mette in ginocchio i paesi capitalisti più instabili.
La destra repubblicana, che ingenuamente si ostina a credere nei mantra dell’ideologia liberale, per cui lo Stato deve essere ridotto a guardiano notturno delle (grandi) proprietà private, non comprende la necessità, in una fase di crisi, di sfruttare a vantaggio del grande capitale la crisi sfruttando le politiche keynesiane. Tali politiche economiche – per altro essenziali per mantenere anche in fase di crisi l’egemonia sui decisivi ceti medi da parte del blocco sociale dominante – sono essenziali per socializzare le perdite delle imprese colpite dalla crisi e delle banche espostesi eccessivamente nelle attività speculative. Tali imprese e banche, incapaci di uscire da sole dalla crisi, sono rilevate dallo Stato, a prezzi ovviamente favorevoli per i proprietari privati, che si fa carico dei debiti altrimenti inesigibili verso i grandi investitori, che i privati non avrebbero potuto onorare finendo in bancarotta. In tal modo cresce in maniera esponenziale il debito pubblico, che comporta necessariamente una proporzionale espansione del credito privato dei grandi fondi speculativi, che in tal modo prendono il controllo della politica economica del paese, eliminando nei fatti ogni parvenza di democrazia, ovvero di sovranità popolare, sulle questioni strutturali, ovvero sull’essenziale, sul sostanziale. In tal modo lo Stato, indebitandosi, rifinanzia le imprese in crisi, ne salda i debiti, le ristruttura e, quindi, con la ripresa economica le restituisce ai privati a prezzi di saldo, per garantire dopo la socializzazione delle perdite, la privatizzazione dei profitti. Infine le politiche keynesiane costituiscono degli strumenti essenziali per rallentare la caduta tendenziale del tasso di profitto e consentire, così, anche al capitalismo in uno stadio avanzato di putrefazione, di perpetuare la propria esistenza da morto vivente, capace di sopravvivere solo succhiando sempre più sangue alla forza lavoro viva. In effetti gli interventi dello Stato capitalista in economia, oltre a socializzare le perdite in fasi di crisi, sono funzionali a rilanciare gli investimenti pubblici a beneficio dei privati (facoltosi). In effetti, in momenti di intensa caduta del tasso di profitto, a causa della sovrapproduzione di capitali, gli Stati capitalisti con il rilancio degli investimenti pubblici consentono in generale ai capitali con basi in quel paese, o in altri paesi imperialisti alleati, di poter investire senza il rischio di non riuscire a non intascare i profitti, dal momento che si produce su ordinazione dello Stato e non per il libero mercato. Inoltre, come avviene di regola nelle società capitaliste, dove i vizi privati sono considerati pubbliche virtù (mantra del liberismo), i capitali che si aggiudicano, con la doverosa corruzione, che favorisce i partiti dell’ordine al governo, i bandi pubblici, si vedono assicurati ultra profitti a spese di un’ulteriore espansione del debito pubblico, che favorisce l’imposizione di politiche di austerity per quanto concerne le spese sociali, con conseguente riduzione del salario indiretto.
In tal modo, a furor di popolo, gli ormai anacronistici politici liberali repubblicani sono sostituiti dai democratici, che ritornano al potere proprio promettendo di introdurre politiche keynesiane, per altro essenziali per ogni rivoluzione passiva che si rispetti, volta a isolare le forze sovversive e governare con il consenso dei subalterni. In tutto ciò si dimostra maestro l’ultra populista Franklin Delano Roosvelt che, dopo aver preso il controllo del Partito democratico, diviene presidente, mantenendo tale carica fino alla morte, anche nei lunghi anni in cui è fiaccato da una grave malattia, grazie proprio alle sue eccezionali doti di demagogo. Per quanto le sue politiche economiche keynesiane siano sostanzialmente analoghe a quelle sperimentate in paesi totalitari, come l’Italia fascista, Roosvelt riesce a governare con il consenso attivo delle classi subalterne, grazie alla formazione nei decenni precedenti di sindacati neo-corporativi spesso controllati dalla stessa malavita organizzata. In effetti, a differenza di Mussolini che aveva dovuto sobbarcarsi il lavoro sporco di mettere fuori gioco con le buone o con le cattive i sindacati conflittuali, Roosvelt ebbe la fortuna che tale lavoro era stato realizzato già dai repubblicani con il concorso attivo di criminalità organizzata e fascisti del Ku Klux Clan. Queste forze reazionarie, sfruttando abilmente come abbiamo visto il razzismo, avevano inoltre completamente decapitato il movimento dei lavoratori. Perciò, Roosvelt poté tranquillamente governare senza dover palesemente violare le leggi dell’ordine costituito e sarà costantemente accusato di essere un dittatore, quasi esclusivamente dall’opposizione di destra, resa per altro poco credibile per le proprie malcelate simpatie per i regimi totalitari nazi-fascisti. D’altra parte, i liberali repubblicani accusano Roosvelt di aver imposto una sorta di socialismo di Stato, avendo introdotto elementi di pianificazione nell’economia e per il crescente intervento statuale nelle attività economiche.
Segue nel numero 269 on-line dall’otto febbraio 2020.