Link al video della lezione tenuta su queste tematiche per l’Università popolare Antonio Gramsci
Dalla sconfitta del movimento dei consigli alla fondazione del Partito comunista
La sconfitta del movimento dei consigli di fabbrica, scarsamente appoggiato dal Partito socialista dominato dai massimalisti e avversato dalla CGL controllata dai riformisti, convince Gramsci e il gruppo dell’“Ordine nuovo” dell’incoerenza dei massimalisti che allora capeggiavano il Partito, rivoluzionari a parole ma riformisti nei fatti. Nel momento decisivo della situazione rivoluzionaria e del dualismo di potere – che si era venuto a creare nel biennio rosso (1919-20) con l’occupazione, manu militari, delle fabbriche, autogestite da parte dei consigli, versione italiana dei soviet russi – era mancata una direzione consapevole delle lotte sviluppatesi spontaneamente dopo la prima guerra mondiale nel sud del paese. In tal modo l’imponente movimento di occupazione delle terre, per l’attendismo dei massimalisti e il sabotaggio operato dai vertici della Cgl, non si era fuso con il movimento che nel centro-nord aveva portato all’occupazione delle fabbriche. Il liberale di “sinistra” Giovanni Giolitti, ancora una volta a capo del governo, invece, in modo molto abile, aveva evitato la repressione militare, invocata a gran voce dagli industriali, per paura di innescare un’insurrezione. Al contrario, Giolitti astutamente si era accordato con i sindacalisti riformisti – spaventati dal movimento rivoluzionario che si era innescato e che non erano in grado di controllare – proponendogli il controllo operaio delle aziende per far finire l’occupazione operaia, controllo che, una volta smobilitate le occupazioni, rimase la classica promessa da marinaio.
Gramsci trova così confermate le proprie tesi per cui da un lato era necessario rafforzare lo spirito di scissione nei confronti dell’ala riformista del Partito socialista – dal momento che quest’ultima non costituiva più l’ala destra del proletariato, ma era divenuta l’ala sinistra del blocco sociale dominante – e dall’altro occorresse rafforzare l’opposizione di sinistra alla direzione del partito controllata dai massimalisti guidati da Serrati. Questi ultimi avevano dimostrato, nel momento decisivo dello scontro di classe, tutta l’incoerenza e l’inconsistenza della loro concezione che, pur propugnando il programma massimo della rivoluzione sociale atta alla realizzazione di una società socialista, propugnavano la necessità di attendere in modo nei fatti passivo che le crescenti contraddizioni del modo di produzione capitalismo lo portassero al suo crollo, secondo una tesi largamente condivisa sia dall’ala destra che dall’ala sinistra della Seconda Internazionale, sempre più succube dell’egemonia esercitata dall’ideologia dominante positivista.
Gramsci diviene così pienamente consapevole che il Partito Socialista, proprio per i limiti che abbiamo visto della sua direzione massimalista, non è il partito della rivoluzione di cui c'è bisogno e, quindi, insieme ad altri esponenti dell’opposizione comunista interna, che in gran parte facevano capo ad Amedeo Bordiga (1889-1970), cerca di fondare un partito rivoluzionario non solo a parole.
Così, sebbene sostanzialmente contrario alla rottura netta propugnata da Bordiga e dalla componente maggioritaria estremista che allora capeggiava la scissione, che portava a ricompattare massimalisti e riformisti, Gramsci si risolve a lavorare per la costruzione del nuovo Partito Comunista d’Italia (1921), sezione italiana della Terza internazionale rivoluzionaria.
L’avvento del fascismo
Il Partito comunista nasce troppo tardi, nel 1921, quando l'eccezionale movimento spontaneo che ha animato il biennio rosso è stato pesantemente sconfitto e, ovviamente, i proletari di fronte a tale sconfitta tendono a perdere il coraggio, la speranza, insomma a rinchiudersi nel privato, anche a causa di una forte repressione. Inoltre, la classe dominante, che ha avuto una spaventosa paura di perdere i propri secolari privilegi, decide di utilizzare il fascismo – le squadracce di reazionari piccoli borghesi, sottoproletari o della classe media – per colpire, massacrare e distruggere tutte le forme di organizzazione dei lavoratori, per rinviare sine die la possibilità che si venga a creare una nuova occasione favorevole alla rivoluzione.
Cominciano, quindi, gli attacchi dei fascisti, coperti dagli apparati repressivi dello Stato borghese, contro tutte le forme di organizzazione dei lavoratori e dei ceti subalterni in Italia. In altri termini, nonostante il successo della tattica giolittiana durante il biennio rosso, la grande borghesia pretende il pugno di ferro contro il movimento dei lavoratori e comincia a finanziare i fascisti, per la spregiudicata e selvaggia violenza con cui devastano ogni forma di organizzazione del movimento contadino e operaio. Nonostante i costanti attacchi a cooperative e camere del lavoro, le autorità non intervengono se non per contrastare i tentativi di resistenza dei ceti subalterni. Vista la pressoché totale impunità di cui gode e i crescenti finanziamenti, la violenza fascista si diffonde in tutto il paese provocando sempre più spesso eccidi ai danni dei dirigenti del movimento dei lavoratori. Le squadracce fasciste sono essenzialmente composte da giovani borghesi e piccolo-borghesi, impiegati sottoproletari e avventurieri.
I limiti della direzione bordighista e il lavoro per la Terza internazionale
In questa situazione il Partito Comunista non è in grado di contrastare efficacemente il fascismo, perché la direzione di Bordiga ha un'impostazione dottrinaria, ritenendo necessario riprodurre in modo pedissequo quello che avevano fatto i bolscevichi in Russia nel contesto italiano. Quest’ultimo, però, era molto differente e questa impostazione dogmatica doveva portare a una rovinosa sconfitta il movimento proletario. Bordiga è un ingegnere, ha una concezione della scienza influenzata dal positivismo, per cui esisterebbe una unica modalità, scientificamente dimostrata, di realizzare il processo rivoluzionario, quella sperimentata con successo dai bolscevichi. D’altra parte, tale concezione era avversata dallo stesso Lenin che riteneva tale tattica inefficace e necessariamente perdente, in quanto pretendeva di seguire alla lettera l’esperienza della Rivoluzione di Ottobre, senza coglierne lo spirito, che Gramsci aveva lodato in un celebre articolo, dall’emblematico titolo di “La rivoluzione contro Il capitale”,in quanto tutti i marxisti dogmatici la avevano criticata, considerandola eretica rispetto alla concezione marxista che considerava la rivoluzione e la successiva transizione al socialismo possibile solo dopo che il modo di produzione capitalista si fosse compiutamente realizzato e non avesse più nulla da offrire, se non dei rapporti di produzione ormai datati che impedivano ogni ulteriore sviluppo delle forze produttive.
In altri termini, la grande lezione che Gramsci, a differenza dei dottrinari di destra e di sinistra, era riuscito ad apprendere, cogliendo lo spirito della Rivoluzione d’ottobre, era che se non si è in grado di ripensare e tradurre la teoria rivoluzionaria all’interno dello specifico contesto storico, sociale e culturale, la teoria rivoluzionaria non è più un pensiero vivo, scientifico in grado di relazionarsi alla realtà, ma diventa un dogma, cui si deve rimanere fedeli quasi si trattasse di una nuova forma di religione. Non a caso, quindi, questa politica dottrinaria si dimostrò del tutto non funzionale allo scopo, infatti il Partito Comunista in Italia non solo non riuscì a realizzare la Rivoluzione, ma tale fallimento diede la possibilità alle classi dominante, per mezzo dei fascisti, di spazzarlo via quasi completamente dal paese. A questo punto i bolscevichi, che ormai avevano assunto il nome di Partito Comunista, si rendono conto del terribile pericolo che tale sconsiderata tattica stava provocando in Italia e convocano Gramsci a Mosca, in quanto riconoscono in lui la migliore risorsa per cercare di salvare in extremis una situazione che stava ormai precipitando verso la dittatura aperta della borghesia attraverso il fascismo. Richiedono, quindi, Gramsci a Mosca e lo convincono rapidamente della necessità di aprire una battaglia all’interno del Partito Comunista per strapparne la dirigenza a Bordiga che, come abbiamo visto, portava avanti una linea incapace non solo di realizzare la rivoluzione, ma anche di impedire al fascismo di conquistare il potere.
La lotta interna nel Partito, il “partito nuovo” e il Congresso di Lione
Del resto, la situazione politica nel frattempo in Italia sta precipitando, crescono le violenze fasciste che culminano con la Marcia su Roma. Sfuggendo a un agguato ordito dai fascisti per ucciderlo, Gramsci nel 1922 è a Mosca, ma è costretto, a causa delle cagionevoli condizioni di salute a farsi curare in una clinica nei pressi della capitale, dove conosce la sua futura moglie. Rimessosi in forza e ormai pienamente convinto della giustezza delle critiche dell’Internazionale alle posizioni intransigenti ed ultra-sinistre di Bordiga, ancora segretario del PCd’I, entra nell’esecutivo dell’Internazionale comunista quale rappresentante italiano. Nel 1923 è inviato dall’esecutivo a Vienna, ancora come rappresentante italiano dell’Internazionale con lo scopo di riorganizzare il partito, duramente colpito dalla politica repressiva fascista. A tale scopo fonda il quotidiano “l’Unità” proprio perché capisce che gli operai da soli non ce la possono fare a conquistare il potere, in quanto l'Italia non è un Paese industrializzato, eccezion fatta per il Nord, e quindi reputa essenziale l'accordo con i lavoratori arretrati delle campagne e, perciò, inizia ad operare in questa direzione.
Eletto deputato, torna nel 1924 in Italia e inizia a cercare di riorganizzare il partito su una linea più realista e atta a fronteggiare il fascismo rispetto a quella portata avanti da Bordiga. Nello stesso anno Gramsci scrive una lettera al Comitato centrale del Partito comunista sovietico in cui, pur schierandosi con la maggioranza, chiede alle fazioni in lotta di abbassare il tono del confronto sempre più aspro apertosi sull’eredità di Lenin. Nel frattempo, Gramsci viene elaborando, di contro alla concezione estremista allora dominante nel PCd’I, una nuova concezione dell’organizzazione (il “partito nuovo”), esposta in Tesi per il III Congresso del PCd’I (1926), che gli consentirà di conquistare la direzione del partito. La lotta all’interno del partito si risolve, infatti, nel Congresso di Lione (1926), in cui la grande maggioranza dei delegati sostiene la linea di Gramsci contro quella di Bordiga.