Prima di toccare il tema vorrei fare una breve premessa teorica, mettendo insieme alcune riflessioni di Lenin e di Gramsci [1], che sono in sintonia con i vari dati statistici disponibili [2]. Direi che ci troviamo di fronte a una crisi organica o crisi di autorità, i cui caratteri sono sommariamente:
1. impossibilità per le classi dominanti di conservare il dominio senza modificarne la forma, necessità di riavviare una ristrutturazione, tenendo presente che il capitalismo è un sistema a equilibrio instabile caratterizzato da dinamismi e capacità di rinnovarsi;
2. aggravamento dell’angustia e della miseria delle classi oppresse, che possono incunearsi in questa crisi delle classi dominanti a loro vantaggio;
3. crisi di egemonia delle classi dominanti dimostrata statisticamente dalla sfiducia delle classi oppresse nei confronti delle istituzioni (in America latina è bassissima, il Italia complessivamente il 14,6% mostra fiducia nelle istituzioni, tuttavia Mattarella sembra essere amato almeno dal 55% con un leggero calo). Altro elemento importante è la separazione delle masse dai propri partiti, nel caso dell’Italia inesistenza di questi partiti. La crisi pandemica non ha fatto altro che squadernare dinanzi agli occhi di tutti i privilegi di alcuni, le disuguaglianze, le ingiustizie inerenti al sistema capitalistico, di qui l’idea che essa potrebbe avere esiti rivoluzionari, idea tutta da discutere. Ciò naturalmente ha messo in crisi l’immagine che il capitalismo, coniugato alla democrazia formale, sia il regno della libertà, del benessere e dell’uguaglianza (idea che si continua a propagandare), limitando per esempio in maniera vistosa tutte le voci radicalmente dissidenti e concedendo un minimo spazio ai critici moderati (come il prof. Montanari) oppure concedendo spazio a generiche e vacue voci buoniste (Papa e Mattarella appunto).
4. In questa fase dovrebbe esserci anche un rilevante aumento dell’attività delle masse, che per le cause suddette dovrebbero essere spinte a un’azione storica indipendente. Tratto mancante nel caso dell’Italia, presente altrove in particolare in America Latina vedi Cile, Colombia, poi Usa, Francia etc. ma in forma non organizzata.
Ora in questa situazione, dove è necessaria una ristrutturazione non solo economica per garantire i profitti, ma anche politica (rafforzamento degli esecutivi, gli ultimi presidenti del consiglio sono stati direttamente designati dai potentati economici) e ideologica, la classe dominante ricorre nell’immediato a due mezzi: laddove c’è un’azione cosciente o no delle masse impiega la repressione anche brutale, vedi Cile, Colombia, USA, dall’altro deve necessariamente ricostruire il consenso (caso europeo, italiano, Usa). Cercherò di trattare brevemente: la ristrutturazione ideologica, che poi non introduce argomenti particolarmente nuovi.
Dati disuguaglianze
L’aumento delle disuguaglianze è diventato un luogo comune anche nei media dominanti. Niente di più mistificante è il concetto di ripartenza, giacché la crisi attuale come hanno scritto gli economisti marxisti ha radici antiche, risale alla fine degli anni 60 e si è aggravata nel 2008. D’altra parte, gli economisti ortodossi ne hanno ignorato l’origine e i caratteri, perché non fa parte del loro strumentario intellettuale la nozione di “rischio sistemico”.
Utilizzando i dati forniti da Clementi e Schettino, si può affermare che a livello mondiale dalla crisi del 2007-2008 povertà e disuguaglianza sono aumentate. Si sono registrati miglioramenti in Asia (Cina), ma complessivamente nell’ultimo decennio il numero dei poveri è cresciuto di pari passo con l’aumento della popolazione mondiale [3].
Passiamo alle cifre fornite dal rapporto di Oxfam del gennaio 2021 presentato al World Economic Forum di Davos. Le cifre appaiono ancor più preoccupanti se si considera che, dall’inizio della pandemia, «il patrimonio dei primi 10 miliardari del mondo è aumentato di 540 miliardi di dollari. Sono risorse che sarebbero sufficienti a fornire il vaccino anti-Covid a tutti, impedendo che chi sta peggio diventi ancora più povero. La pandemia ha aggravato i problemi dei poveri e arricchito i ricchi: a dicembre la ricchezza dei miliardari nel mondo era di 11.950 miliardi di dollari, ossia quanto messo a disposizione da tutti i paesi del G20 per affrontare il coronavirus.
Lo stesso è accaduto anche in Italia: 36 miliardari italiani si sono trovati in tasca è 45,7 miliardi di euro in più, pari a 7.500 euro per ognuno dei 6 milioni più poveri degli italiani. La differenza tra lo stipendio di un lavoratore e quello di un alto dirigente è enorme.
Le 1.000 persone più ricche del mondo hanno recuperato in nove mesi tutte le perdite provocate dall'emergenza della quarantena e addirittura hanno accumulato altra ricchezza, mentre i più poveri per riprendersi dalle disastrose conseguenze economiche e sociali della pandemia ci metteranno probabilmente più di 10 anni.
Per la prima volta in un secolo, rileva Oxfam sulla base di un sondaggio svolto tra 295 economisti (non so di quale tendenza) in 79 paesi, si può osservare un aumento della disuguaglianza economica ovunque. L’87% degli intervistati ipotizza infatti “un rilevante aumento” della disuguaglianza di reddito nel proprio paese. In assenza di un’azione adeguata e opportuna da parte dei governi, do cui sinora abbiamo visto solo briciole, la Banca Mondiale prevede inoltre che entro il 2030 oltre mezzo miliardo di persone in più vivranno nella povertà, con un reddito inferiore a 5,50 dollari al giorno.
Quanto all’Italia, utilizzando l’indice Gini, che misura il tasso di disuguaglianza, nel periodo tra il 1987 e il 2016 esso è passato dallo 0,29 allo 0,34, con una disuguaglianza dei redditi più elevata della media Ocse. Cina, USA e Russia e India stanno allo 0,40. (117-18). l governo Draghi favorisce di nuovo le imprese, che hanno già ricevuto già parte dei sussidi, con lo sblocco dei licenziamenti e con nuove regole degli appalti.
Secondo la Banca d’Italia, durante il primo confinamento avvenuto nel marzo 2020, metà delle famiglie italiane dichiarava di aver subito una riduzione del proprio reddito e il 15% di aver perso la metà delle entrate, con solo il 20% dei lavoratori autonomi che non aveva subito contraccolpi. A fine estate nel 20% delle famiglie con figli minori uno o tutti e due i genitori aveva ridotto l’orario lavorativo o era rimasto a casa per accudirli. Mentre il 30% affermava di non avere soldi sufficienti per far fronte a spese essenziali nemmeno per un mese.
Misure prese e blocco licenziamenti
L’ultimo blocco dei licenziamenti previsto dal governo Draghi prevedeva due termini distinti: al 30 giugno 2021 per i lavoratori delle aziende che dispongono di Cig ordinaria e Cig straordinaria (soprattutto industria e edilizia); al 31 ottobre 2021 per i lavoratori delle aziende coperte da strumenti in deroga (soprattutto terziario).
Come sottolinea Emiliano Brancaccio, l’idea, che privilegia la flessibilità, secondo la quale se si è facilmente licenziabili e con altrettanta rapidità si può essere assunti, è del tutto sballata e dimostrata falsa da ricerche empiriche. Inoltre, già ci troviamo in una situazione drammatica se si prendono in conto i dati Istat. Nel periodo pandemico sono andati perduti 945.000 posti di lavoro secondo l’Istat, e da gennaio 2021 a fine maggio sono arrivati solo 123 mila nuovi posti; alla perdita del lavoro si aggiungono 700.000 inattivi (sulla validità di questa categoria ho seri dubbi). Naturalmente i contratti precari e a tempo determinato sono dominanti, calano ai minimi termini quelli stabili e le partite Iva crollano ai minimi storici.
Ogni lavoratore sa che, se perde un posto stabile difficilmente ne ritroverà un altro alle medesime condizioni, sarebbe sufficiente questo dato per mettere in discussione quanto viene continuamente propagandato, secondo cui il capitalismo distrugge e crea occupazione, generando la famosa “distruzione creativa”.
I dati sopra riportati dimostrano che, nonostante il divieto di licenziamenti collettivi, per via della pandemia, si sono persi tantissimi posti di lavoro, i 20mila creati nell’ultimo bimestre sono quasi solo a tempo determinato. Naturalmente quel dato delle statistiche ufficiali viene letto come la fotografa della ripresa occupazionale, che non c’è. D’altra parte, bisogna aggiungere che la perdita dei posti di lavoro si verifica in un contesto caratterizzato dall’ampia estensione del precariato nella scuola, nell’università, nella pubblica amministrazione, settore privato che ha fatto di questi lavoratori i più colpiti dalla pandemia. Si tenga conto che in Europa ci sono 27 milioni di precari, in Italia 3 superata dalla Spagna che sta peggio di noi.
Nonostante questa catastrofica situazione, il governo ha deciso che dal 1° luglio le imprese dell’industria e dell’edilizia potranno scegliere se utilizzare la cassa integrazione ordinaria in modo gratuito, risparmiando così mediamente una cifra di ben oltre il 10% della retribuzione, o licenziare.
Inoltre, per favorire la famosa ripartenza, si è deciso di stravolgere la normativa sugli appalti, prevedendo la libertà di subappaltare a imprese più piccole o cooperative il 50% dei lavori. Come se ciò non bastasse, questa normativa vale fino a ottobre 2021 ed è probabile che dopo questa data possa essere introdotta la piena libertà di subappaltare, come chiede a gran voce l’Ue. Altre “semplificazioni” riguardano consistenti esoneri dall’effettuazione di gare, e l’estensione delle gare basate sulla “massima convenienza", che significa gare al ribasso e condizioni lavorative pericolose.
Soluzione crisi
PNRR. Si ricorda che nel quadro della grande crisi i trattati europei sono stati sospesi, rientreranno in vigore nel 2023 e che i fondi messi a disposizione dalla Ue, rispetto alle perdite subite in seguito agli ultimi drammatici eventi, costataci finora circa 160 miliardi, sono poca cosa.
Un esperto di fondi europei come Andrea Del Monaco ha ricordato – il suo saggio “Recovery Fund, i conti sui sussidi danno saldo negativo per l’Italia” lo si trova sulle pagine web di Huffington Post e Sinistra in rete del 20 dicembre 2020 – come una parte consistente delle risorse del Recovery Plan siano, in realtà, soldi che ritornano al nostro paese. Nel sessennio 2012-18 sono stati versati, infatti, al bilancio UE, 112,85 miliardi; e ne sono stati ricevuti 76,49 (saldo netto negativo per 36,3 miliardi). Inoltre, il saldo sarà negativo – insiste Del Monaco – sia per il Quadro Finanziario Pluriennale 2021-27 che per il Recovery Fund; diventa realmente positivo solo grazie ai prestiti, mentre per i soli contributi a fondo perduto rimane negativo.
In sintesi, per il settennio in corso, il saldo sarà negativo per 35,6 miliardi.
Ulteriori elementi di chiarezza emergono dall’intervento di Emiliano Brancaccio – già citato in precedenza – nella trasmissione “Eresie” su Radio Uno dello scorso 29 gennaio.
Lo studioso in questione propone i suoi dati sulla cifra complessiva di 209 miliardi, quella precedente all’“aumento” della dotazione finanziaria del Recovery Fund con parte delle risorse del Fondo Sviluppo e Coesione. Egli ricorda che la maggior parte delle risorse sono prestiti (127 miliardi) e che l’autentico risparmio su di essi è dato dal differenziale tra i tassi d’interesse nazionale e quello europeo. Rispetto all’arco temporale in cui dovranno essere spesi i fondi europei è di 500 milioni annui, ossia 3 miliardi nel sessennio.
Quanto poi alla parte costituita dai trasferimenti a fondo perduto (82 miliardi), Brancaccio evidenzia che c’è un problema di copertura degli stessi (tassa sulla plastica) ed è molto probabile che si ricorra al contributo dei singoli Stati membri al bilancio europeo. La qual cosa, con le attuali ripartizioni, comporterebbe per l’Italia un esborso intorno ai 40 miliardi. La conseguenza è che i sussidi che arriverebbero direttamente sarebbero intorno ai 42 miliardi.
Interessante a questo proposito è anche l’intervista rilasciata alla Stampa dall’ordoliberista Daniel Gross nell’aprile del 2020, che suggerisce all’Italia di sospendere per 7 anni il versamento dei fondi di finanziamento alla Ue, dato che in questo modo avrebbe a disposizione immediatamente il denaro e risparmierebbe 105 miliardi. E ciò invece di accettare l’aiuto europeo.
Ovviamente sarebbe lungo soffermarsi sulle 5 missioni del piano nazionale di ripresa e resilienza (anche qui è importante una notazione semantica: il ricorso insistente su certe parole come resilienza ripetuto all’infinito come ripartenza per infondere fiducia e ottimismo), tuttavia in generale si può dire che i fondi finora erogati per la crisi sono andati per il 70% alle imprese e che Salvini è andato al governo per partecipare al banchetto. Il governo è già avanzato in un processo di ristrutturazione che non affronta le cause reali della crisi e che mette a disposizione delle imprese e delle attività non moribonde (zombi) i fondi necessari per rilanciarle. In questo modo favorisce un enorme processo di concentrazione dei capitali, il fallimento di piccole e medie imprese e la conseguente perdita di lavoro di molti lavoratori. Non interviene per esempio sull’allevamento intensivo degli animali – una dei fattori scatenanti la crisi pandemica – come chiesto tra l’altro da Greenpeace, nonostante l’accento sulla transizione ecologica.
Lo Stato si trasforma in una enorme agenzia che decide quali attività sostenere e verso cui i fondi debbono essere convogliati, mostrando ancora una volta la natura classista di questa istituzione che rilancia la produzione capitalistica, con lo scopo di garantirne i profitti senza nessuna preoccupazione per i problemi cruciali del nostro tempo: problema climatico, crisi pandemiche, povertà, disuguaglianze, impossibilità di accesso al vaccino da parte dei paesi poveri, in cui la persistenza della pandemia costituisce un rischio anche per i paesi ricchi (variante Delta di cui quasi non si parla). Problemi che potrebbero essere affrontati solo in una prospettiva di pianificazione e di centralizzazione dell’economia, che mette in discussione l’attuale assetto, nulla di più distante da quello che si vuole fare.
Questa valutazione è confermata dalla composizione del governo Draghi. Alle figure tecniche, a lui più strettamente legate, sono stati affidati i principali ministeri di spesa: Economia (Daniele Franco), ambiente, che si chiamerà ministero per la transizione ecologica (Roberto Cingolani), infrastrutture e trasporti (Enrico Giovannini), istruzione (Patrizio Bianchi), università e ricerca (Cristina Messa), giustizia (Marta Cartabia) e interno (Luciana Lamorgese). Poi c’è il ministro senza portafoglio Vittorio Colao, che ha le deleghe all’innovazione tecnologica e alla transizione digitale. E pur essendo un dicastero senza portafoglio, avrà un ruolo centrale nella spesa dei fondi del Next generation Eu destinati all’innovazione tecnologica.
In questo processo di ristrutturazione si è fatto strame della Costituzione, la quale per es. (altro settore) attribuisce alla scuola e all’università la funzione di sviluppo delle coscienze e di avanzamento sociale dei ceti meno abbienti. 9 miliardi vengono stanziati alle relazioni università imprese nella prospettiva di insistere nella trasformazione già avviata di queste istituzioni in agenzie per la preparazione più o meno qualificata per il mercato del lavoro.
Se così stanno le cose, la soluzione paventata, che comporterà l’indebitamento e una nuova austerità per i lavoratori (chi paga le tasse garantisce in ultima istanza i debiti dello Stato), sarà a tutto vantaggio di quei potentati economici già forti, il cui strapotere è correlato all’aumento delle disuguaglianze e della povertà, e dissolverà quello che resta della tanto decantata “democrazia”.
Non posso non citare un’altra mistificazione: la tanto propagandata tassa alle multinazionali del 15% decisa nell’ultimo G7. Da quanto scrivono Marco Bersani e Andrea Fumagalli, se venisse introdotta finirebbe per ridurre le già irrisorie tasse che pagano grazie a vari meccanismi, come l’impiego di paradisi fiscali nel cuore dell’Europa (Olanda, Lussemburgo, Irlanda).
Narrazione crisi
A mio parere ci sono due modi raccontare questa crisi epocale, per taluni peggiore di quella 1929. Il primo si presenta come non ideologico e puramente fattuale sulla scia della cosiddetta fine delle ideologie, mentre è intriso dell’ideologia liberista (v. Sole 24 e Belpietro), ed è proprio degli economisti ortodossi e in Italia della Confindustria. A proposito dell’abrogazione del blocco dei licenziamenti, per es. la Confindustria sostiene che essa favorirà le assunzioni, smentendo quanto invece risulta da analisi empiriche (v. Brancaccio). Minimizza alcuni dati, per es. sostenendo che l’abrogazione non provocherà nessuna tempesta, e isola i dati dal contesto generale della disoccupazione, messa tra parentesi quasi non esistesse. Le manca la nozione di totalità, l’unica che consente di comprendere i fenomeni dalla loro radice. Tutto lo sforzo dei suoi intellettuali organici è quello di mostrare che la soluzione della crisi è un problema meramente tecnico, che non implica un’impostazione politica di fondo, va a vantaggio dell’intero paese secondo il consunto assioma che l’arricchimento dei padroni produrrà automaticamente l’aumento dell’occupazione e il benessere dei lavoratori. Ipotesi ampiamente contraddetta dalla concentrazione dei capitali, dalla deregolazione del lavoro, dal predominio del potere economico sempre più diretto sulle istituzioni politiche.
Ideologicamente la Confindustria descrive la crisi come un meteorite, occultato i problemi pregressi. Propone una visione positiva nelle parole di Carlo Bonomi: “A fine 2022 il lungo recupero dell'economia italiana porterà alla completa chiusura del gap generato con la crisi pandemica”. Così il presidente di Confindustria Bonomi sulle stime del rapporto del Centro studi Confindustria. “Altri grandi paesi europei recupereranno prima, la Germania già a fine 2021”, osserva Bonomi, sottolineando che per la ripresa dell'Italia sarà fondamentale “la rapidità del piano vaccinale, l'implementazione efficace e rapida del Next Generation Eu e alcune cruciali scelte di politica finanziaria, quali l'allungamento dei prestiti bancari alle imprese e la riconsiderazione dei criteri di sostenibilità”.
La Confindustria chiede un allungamento del rimborso dei debiti che avrebbe un impatto positivo sul Pil di +0,3% nel 2021 e di +0,2% nel 2022. Il recupero degli investimenti privati sarà sostenuto da quelli pubblici, con incrementi del +19% annuo nel 2021-2022, fino al 3,6% del Pil. La ripartenza dell’economia italiana, secondo il Csc, è complicata dall’aumento dei prezzi delle materie prime, incrementatosi tosi dall’inizio 2021, che riguarda i metalli e gli alimentari, oltre al petrolio.
Definisco la seconda narrazione buonista e propria di quella che possiamo chiamare “sinistra democratica”; i suoi rappresentanti si trovano a vari livelli sociali come papa, Mattarella, intellettuali (il prof. Montanari, ora aspirante rettore, Di Battista considerato un radicale da Conte, Landini).
Questi personaggi mettono l’accento sui diritti umani e sulla nozione astratta di persona, non negano la crisi globale, sottolineando spesso che non sono pericolosi sovversivi o addirittura dei bolscevichi. Si fa appello al cosiddetto buon senso e alla necessità di difendere i più vulnerabili, senza spiegarci le ragioni dell’esistenza di questi ultimi.
Afferma Landini in un’intervista pubblicata sul Manifesto fattagli da Luciana Castellina lo scorso aprile: Occorre prendere atto che il modello di crescita che si è affermato fino a oggi mette in discussione la vita delle persone sul pianeta o quanto meno la sua qualità, innescando un nuovo meccanismo di selezione tra ricchi e poveri. È questo il terreno nuovo, difficile, su cui il sindacato deve operare. Il tema di “cosa produrre, come produrre, per chi produrre” diventa decisivo se non si vuole che a pagare il conto della crisi sia il mondo del lavoro.
Continua Landini sul suo progetto vago di nuovo modello sociale, proponendo un misterioso “sindacato di strada”: “Io penso invece che cambiamento voglia dire dare vita a un progetto di trasformazione sociale che si sostanzia del rapporto concreto con le persone. Anche per questa ragione riteniamo fondamentale la tenuta del rapporto unitario con Cisl e Uil. È un rapporto che va rilanciato e che, nel vivo dell’esperienza concreta, deve saper prospettare un nuovo sindacato confederale unitario, plurale, partecipato, democratico. Oggi tra l’altro, c’è una condizione nuova, non scontata, ma che potrebbe consentire di andare in quella direzione: non esistono più le divisioni prodotte dalla guerra fredda”.
A parte l’ingenua ignoranza della conflittualità delle relazioni internazionali attuali, Landini parla di persone non di classi, concetto che costituisce la chiave di volta per la comprensione del sistema capitalistico. In generale questa “sinistra” buonista è utilissima perché accantona la questione di classe, parla di valori (Damiano), di umanitarismo, di uguaglianza ma del tutto formale, di accoglienza, di dialogo, di negoziazioni (orribile francesismo) con l’altro. Descrivono un mondo inesistente in cui con la buona volontà si superano i rapporti di forza. Nella tradizione marxista questo è il moralismo. Naturalmente questo atteggiamento di fatto non offre nessuna sponda alle reali esigenze dei lavoratori spingendoli verso le demagogiche promesse della destra.
Purtroppo l’abbandono del concetto di classe è avvenuto con l’insorgere dei movimenti a partire dal 68, tutti movimenti che per loro natura non sono classisti, ma che in una visione corretta possono essere intesi come tonalità della nozione di classe; il concetto di classe è stato ritenuto puramente economicistico, quindi riduttivo, tutte le questioni sono diventate puramente culturali e la soluzione dei problemi è divenuta puramente individuale: ognuno di noi deve dare volontariamente il suo contributo.
L’altro punto dell’ideologia buonista è la coesione sociale, tema sempre agitato da Mattarella, il cui ruolo evidente è quello di occultare i conflitti e convincere i lavoratori che dobbiamo essere tutti spronati alla realizzazione un fantomatico e vago bene comune.
Concludendo, quindi è urgente riprendere il concetto di classe e utilizzarlo come punto di partenza unitario per comprendere la società contemporanea: i lavoratori dei paesi periferici sono accomunati a quelli dei paesi avanzati dal fatto di essere ingabbiati nello stesso rapporto di classe (Conferenza Baku 1920), le lavoratrici sono nella stessa condizione, sia pure con ulteriori e gravi svantaggi, dei lavoratori. Solo il concetto di classe offre l’opportunità di ricomporre l’attuale frammentazione del mondo del lavoro e costituisce la base realistica di una vera trasformazione.
Note:
[1] v. Dal Maso, Il marxismo di Gramsci, 2020
[2] Schettino e Clementi, Crisi, disuguaglianze, povertà, 2020.
[3] “La polverizzazione delle norme sul mercato del lavoro ha consentito ovunque (in Italia, come in Germania e Francia, per non parlare degli Usa) il ritorno dei cosiddetti working poors ossia di quei salariati che, pur erogando forza lavoro in maniera continuativa, la scambiano con un ammontare di denaro inferiore al minimo per la sussistenza come certificato dalle stesse autorità che legalizzano tali contratti di lavoro…” (Ivi p. 145)