Per avere un’idea dell’attuale crisi del capitalismo e del suo carattere sistemico è necessario guardare ai dati di lungo periodo. La sola informazione statistica sui cambiamenti di breve o brevissimo periodo può infatti distogliere l’attenzione dalle radici di una crisi che non nasce durante l’attuale pandemia e nemmeno nel 2007-2008, in occasione della crisi dei subprime scoppiata alla negli Stati Uniti e che ha investito tutto il mondo occidentale, ma compare molti anni prima e ha a che vedere con le tendenze dell’accumulazione capitalistica.
Con ciò non si nega che il Covid-19 abbia inferto un eccezionale accelerata alla crisi, ma occorre tenere presente che il corpo in cui si è abbattuta la la pandemia era già malato. E occorre avere chiaro quale fosse questa malattia.
Fra il 1950 e il 1973 le economie sviluppate crebbero, tra gli alti e bassi tipici del ciclo economico, a un ritmo medio del 5% annuo, cioè il doppio del periodo che andava dal 1870 all’inizio del primo conflitto mondiale. Tale crescita era stata trainata principalmente dagli investimenti in capitale fisso (+5,5% annuo). Ciò stava a significare che il rapporto fra il capitale fisso e il lavoro andava crescendo fino ad approssimare la marxiana composizione organica del capitale.
Per spiegare questa poderosa crescita non va sottovalutato il suo carattere imperialistico in quanto si concentrò in un’area ristretta del globo terrestre a scapito dei paesi del terzo mondo.
Per una serie di motivi sia politici che economici, una fetta rilevante di questa crescita fu appannaggio delle classi lavoratrici dei paesi sviluppati. Infatti la quota di reddito che va al lavoro salì dal 63% del 1950 al 65% dei primi anni ’70. Considerato che anche la torta da dividere era cresciuta in maniera esponenziale, il tenore di vita dei lavoratori crebbe in maniera spettacolare, come può testimoniare chiunque abbia vissuto in quel periodo.
Tuttavia sia l’aumento della composizione del capitale, sia l’aumento del salario sociale (salario diretto più le prestazioni del welfare) determinarono una caduta del saggio di profitto. Il dato di cui disponiamo, quello dell’economia Usa, ci dice che, se nel 1948 il saggio del profitto era del 18%, precipitò all’8% nel 1960 e si mantenne, con forti oscillazioni, intorno a questo valore fino al 1976, dopo di che scese fino al 5,5% del 1988.
Nel frattempo l’economia Usa si andava indebitando al punto che, nel 1971, Nixon decise di sospendere la convertibilità del dollaro, che però rimase la moneta principe degli scambi internazionali, favorendo così il disordine nei mercati di tutto il mondo.
La reazione del capitale alla crisi di profittabilità fu l’abbandono delle politiche keynesiane e l’affermazione del modello liberista a partire dall’esperimento nel Cile di Pinochet per poi affermarsi negli anni successivi negli Usa di Reagan, nell’Inghilterra della Thatcher e nell’Unione Europea.
Dal ’73 fino alla fine degli anni ’90 il ritmo di crescita mondiale si mantenne inferiore al periodo precedente (+3%) ma si invertì il rapporto fra il ritmo dei paesi sviluppati e quello del terzo mondo che viaggiava intorno al 6%, con la Cina che raggiunse e superò il 10%. L’area russa invece regredì del 5% e in queste cattive condizioni dovette fronteggiare, sfinendosi, la corsa agli armamenti promossa dagli Usa.
La scomparsa del blocco socialista fu un altro motivo dell’abbandono delle politiche keynesiane in quanto venne meno il pungolo dovuto alla necessità dei paesi capitalisti di competere sul piano dei diritti sociali con un diverso sistema. Con il crollo del muro di Berlino non andò in crisi solamente il movimento comunista internazionale, ma si esaurirono gli spazi per ogni politica riformistica. Tant’è vero che oggi si denomina riformismo il processo di smantellamento delle riforme ottenute durante la fase “virtuosa” del capitalismo.
Caduto il blocco socialista, gli anni ’90 furono quelli della globalizzazione che impose a mezzo mondo regole e condizioni le quali, pur rallentando la crescita, contrastavano la caduta del saggio del profitto. Negli Usa, per esempio, nonostante la crisi del 2007, il saggio di profitto, che aveva oscillato per 15 anni intorno all’8%, salì, sempre fra sbalzi congiunturali, fino al 10% del 2012.
In questo periodo il ritmo di accumulazione del capitale è stato superiore al ritmo di incremento del reddito, visto che buona parte di tale reddito andava ad accrescere la ricchezza dei capitalisti. Quindi l’inaugurazione delle politiche liberiste ha coinciso con l’accentuazione delle disparità.
A farne principalmente le spese sono stati i lavoratori e in parte i ceti medi. I redditi da lavoro infatti sono scesi al 61% del Pil. Questa diminuzione non dà ragione di tutta la perdita effettiva subita dai lavoratori, perché non tiene di conto dell’ulteriore regresso in termini di servizi pubblici goduti (scuola, istruzione ecc.) oggetto di ripetuti tagli – determinando la necessità di far fronte a tali bisogni con quote di reddito –, della riduzione della progressività delle imposte – l’aliquota massima che nel 1980 era mediamente dell’80% è scesa al 43% nel 2010, mentre la minima è passata dal 10% al 23% – e dell’inasprimento delle tariffe pubbliche.
Non va sottaciuto che prima il divorzio fra Banca d’Italia e Tesoro, poi le regole di Maastricht e la perdita della sovranità monetaria, non bilanciata da politiche fiscali solidali, hanno fortemente contribuito all’inasprimento delle politiche liberiste per rincorrere la competitività nei mercati internazionali. L’aumento della produttività del lavoro decisamente superiore a quello dei salari, ha nei fatti consentito di rallentare la caduta del saggio del profitto.
Altra caratteristica di questo lungo processo di vera e propria restaurazione è l’impennata del processo di centralizzazione dei capitali. Tanto che oggi, secondo le stime del team di Emiliano Brancaccio, l’80% dei capitali è detenuto dal 2% della popolazione. Sempre secondo Brancaccio, questa concentrazione della ricchezza porta inevitabilmente con sé la concentrazione del potere e riduce drasticamente gli spazi democratici.
Un’altra caratteristica della svolta liberista è il trasferimento di molte lavorazioni verso i paesi emergenti in cui il costo del lavoro è ridotto. Per avere un’idea, nel 1998 le rilocalizzazioni di produzioni nei paesi emergenti superavano di 20 volte il numero di quelle del 1970. Tali rilocalizzazioni sono una delle spiegazioni dello spostamento del baricentro produttivo in Asia a scapito delle economie mature e sono anche uno dei motivi della perdita di potere contrattuale della classe lavoratrice. Infatti in un mercato mondiale globale, il capitale si disloca dove più gli conviene e può attuare un ricatto nei confronti dei lavoratori, dissuadendoli da rivendicazioni eccessive. Inoltre, forte del suo potere di ricatto, induce gli stati ad abbassare la tassazione dei profitti e dei capitali e a ridurre la progressività delle imposte.
Oltre a ciò, gli investimenti diretti all’estero sono anche il segnale che una quota del capitale non riesce a essere impiegato in maniera profittevole all’interno.
Questa situazione era così evidente che lo stesso ex presidente Usa Obama durante la sua amministrazione auspicò un ritorno di alcuni capitali per non perdere definitivamente la battaglia dell’egemonia mondiale. A tale auspicio sono seguiti alcuni segnali di un’inversione di tendenza, grazie anche agli aumenti di salari e diritti riscontrabili in Cina, sono visibili.
Per avere un’idea, nel 2007 l’insieme dei paesi Ocse (approssimativamente il blocco “occidentale”) investivano all’estero quasi 1.900 milioni di euro, di cui 1.220 l’Unione Europa, mentre la Cina investiva solo 20 milioni di dollari. Nel 2020 però i paesi Ocse erano scesi a 425 milioni mentre la Cina saliva a 110 milioni, superando l’Ue scesa a 87 milioni e soprattutto superando gli investimenti stranieri in Cina.
In termini di stock, nel 2020, i capitali stranieri in Cina sono ancora superiori (21,4% del Pil) a quelli cinesi all’estero (16,2%). Ma rispetto al 2007 i primi sono cresciuti di soli 2-3 punti (erano il 19,8) mentre i secondi sono quadruplicati (erano il 4%)!.
A partire dal 2008, le multinazionali interessate al ritorno nei paesi d’origine sono state circa 400. Il 59% di esse rientrano dalla Cina. Le italiane che lo hanno fatto sono una bella quota, un centinaio, e tra i paesi di provenienza, oltre alla Cina, hanno un grosso peso le nazioni dell’Est Europa. Ciò nonostante, non sembra allentarsi, nei confronti del mondo del lavoro e del governo, il ricatto dell’ipotesi di delocalizzazione.
I movimenti di capitale appena descritti ci portano a un’altra considerazione. Solitamente i paesi imperialisti esportano capitali più di quanti ne importino; se sta avvenendo il contrario, e in modo accentuato per l’Italia, ciò non significa che diminuiscono le ambizioni imperialistiche del nostro paese, ma vengono meno le basi materiali per l’affermazione dell’imperialismo nostrano.
Tornando alla dinamica del Pil, nei primi 5 anni di questo secolo rallenta ancora la crescita (2,6%), peggiorano ulteriormente le condizioni dei lavoratori (la loro quota di reddito scende al 58,8%), mentre le aree emergenti sembrano avere ingranato la marcia: l’Europa dell’Est cresce del 6,6%, la Cina dell’8,7%, l’India del 6%, L’Africa e il Medio Oriente del 4%. Peggio di tutti fa l’America latina (1,7%).
Nonostante un aumento della produttività del lavoro decisamente superiore all’aumento dei salari, a partire della seconda metà degli anni ’60, come si è visto, il ritmo di crescita tende a diminuire in maniera costante. E fa peggio là dove le economie sono mature. Anche gli investimenti decrescono. Se nel ’74 superavano il 25% del Pil, nel 2019 non raggiungono il 22%, neppure se vi si include il poderoso sviluppo degli investimenti cinesi. Gran parte dei profitti abbandonano i settori produttivi e se ne vanno nella finanza.
Per contrastare la diminuzione della domanda, dovuta all’impoverimento dei lavoratori e alla riduzione degli investimenti, si utilizza il debito. Per i lavoratori sarà il debito al consumo, con i famosi mutui ipotecari subprime e la loro cartolarizzazione che darà luogo, una volta scoppiata la bolla immobiliare, alla crisi del 2007-8. Tale crisi pertanto, non è dovuta alla cattiva finanza, ma alla pretesa del capitalismo di tenere bassi i salari per sostenere i profitti e nel contempo impedire la caduta della domanda. Da questa crisi l’economia globale non si è più risollevata e alla vigilia della pandemia attenti osservatori hanno previsto un nuovo scoppio della bolla finanziaria.
Dovendo sintetizzare, dopo la crisi del 1970 rimasta irrisolta, il saggio del profitto ha registrato una lieve ripresa a partire della fine degli anni ’70 dovuta alla svolta neoliberista, alla scomposizione della filiera produttiva, dislocabile in parte anche nei paesi aventi un minor costo del lavoro in virtù delle nuove tecnologie, alle innovazioni finanziarie che hanno alimentato bolle speculative utili a distruggere e a centralizzare capitale.
Venendo al nostro paese, il declino rispetto alla media dei paesi Ue non è dovuto alla minore produttività essendo questa infatti pari a quella della Germania e superiore a quella del Giappone. Il problema è che tale produttività è cresciuta molto più dei salari (il 20% contro meno del 10%!). La causa del declino sta nella bassa partecipazione al mercato del lavoro e nella disoccupazione. Prima della pandemia, nel 2018, il reddito reale delle famiglie italiane, si è ridotto dello 0,4% rispetto all’anno precedente. Considerando che tutti i dati indicano un aumento delle disuguaglianze, la deduzione ovvia è che i bassi redditi hanno avuto un arretramento superiore rispetto alla famiglia media. Nel 2019 oltre un quarto della popolazione italiana risultava a rischio di povertà o di esclusione sociale (42% al Sud). Su questa situazione si è abbattuta la pandemia.
Se nel 2019 il prodotto interno lordo ammontava a 1.726 miliardi, con una crescita dello 0,3%, nel 2020 scendeva a 1.573 con un tonfo dell’8,8%. I dati leggermente positivi del primo trimestre del 2021 vanno quindi letti tenendo presente ciò. Una ripresa rispetto all’anno del lock down non è da considerarsi di per sé un successo ed è probabile che non sia sufficiente a indicare che stiamo uscendo dalla crisi.
Nel nuovo anno si registra infatti un aumento importante ma non eccezionale (+0,9%) del Pil rispetto al trimestre precedente. Ma mentre energia, beni intermedi e strumentali sono in crescita, diminuiscono dell’1,5% i beni di consumo. La crescita comunque è da attribuire per intero al mese di gennaio, mente i mesi successivi sono in contenuta diminuzione. Il mese di marzo, addirittura, è inferiore dell’1,2% rispetto a febbraio.
È in aumento significativo anche l’indice della produzione delle costruzioni (+0,6 nel trimestre dicembre-febbraio rispetto al trimestre precedente). Un rapporto del Cresme per la Camera dei deputati del novembre 2020 lamentava un rallentamento della produzione nel comparto edilizio dovuto al rinvio di lavori in attesa dei numerosi bonus e superbonus. Sarebbe utile verificare in che misura questa ripresa sia dovuta all’avvio di alcuni lavori precedentemente rinviati e alla sblocco di alcune opere pubbliche.
Un fortissimo incremento tendenziale si registra invece rispetto al marzo dell’anno precedente (+37,7%), quando invece c’era il lockdown e rimasero chiuse gran parte delle attività con eccezione delle produzioni e dei servizi essenziali. I motivi appaiono abbastanza ovvi.
All’interno di queste cifre c’è un divario fra la produzione di beni di consumo (+28,1%) e energia, beni intermedi, beni strumentali ecc. che crescono di una media di oltre il 66%.
Il fatto che la modesta crescita sia trainata dai beni intermedi non dai beni di consumo è un ulteriore sintomo della perdita di potere d’acquisto dei redditi da lavoro a vantaggio dei redditi da capitale e dell’aumento della sua composizione organica.
Ai dati moderatamente positivi della produzione non fa riscontro il miglioramento del mercato del lavoro. Occorre a questo proposito chiarire che le statistiche sull’occupazione non dicono tutta la verità. Sono infatti definiti occupati quelle persone con età superiore a 15 anni che nella settimana hanno svolto almeno un’ora di lavoro compresi i coadiuvanti familiari non retribuiti. Un’ora di lavoro alla settimana significa occupazione?
D’altra parte i disoccupati sono definiti come persone non occupate (quindi si escludono nuovamente quelle che lavorano un’ora) tra i 15 e i 74 anni che hanno effettuato almeno un’azione attiva di ricerca di lavoro nelle quattro settimane precedenti e sono disponibili a lavorare (o ad avviare un’attività autonoma) entro le due settimane successive. Gli sfiduciati che non si recano più all’ufficio di collocamento, che ormai non è più il canale principale per trovare lavoro, vengono anch’essi esclusi. I numeri che interessano sono quindi più le variazioni che il dato complessivo.
Aumentano le diseguaglianze, diminuisce l’occupazione femminile e giovanile, aumenta la precarietà.
I posti di lavoro a tempo determinato aumentano di 63mila unità, di 10 mila i lavoratori indipendenti fra cui le partite Iva fasulle, mentre si riducono di 38mila quelli a tempo indeterminato.
Nel complesso, la ripresa occupazionale rispetto al trimestre precedente è modesta (+0,3%, cioè 1/3 dell’aumento del Pil) mentre dall’inizio della pandemia sono stati persi 900mila posti di lavoro.
La quasi totalità degli studi in materia, anche di organismi istituzionali, concorda nel concludere che la precarietà del lavoro non porta occupazione, ma porta diminuzione dei redditi da lavoro e aumento delle disuguaglianze. Ciò nonostante le linee del governo, attraverso lo sblocco dei licenziamenti e la liberalizzazione degli appalti, prosegue lungo il sentiero della precarizzazione.
La sintesi di tutto ciò è che i capitalisti hanno preso a pretesto la crisi per operare una profonda ristrutturazione ai danni del lavoro che è sempre più precarizzato e privo di tutele. L’aumento del saggio di sfruttamento e della produttività non ha comportato né una ripresa dell’occupazione né incrementi salariali.