Sull’arte pura (103) [1]
Link al video della lezione su argomenti analoghi tenuta per l’Università popolare Antonio Gramsci
In questo apologo del Libro delle svolte Brecht, in quanto Kin-jeh, ossia in quanto poeta e, più in generale, artista si rivolge a sé stesso in quanto Me-ti, ossia in quanto intellettuale marxista, domandandosi se sia lecito nei tempi oscuri del dominio nazi-fascista sull’Europa produrre poesie volte a suscitare stati d’animo prodotti dalla natura (cfr. p. 103). Come intellettuale marxista Brecht si dà, in quanto poeta, una risposta affermativa, a ulteriore dimostrazione del suo marxismo dialettico e antidogmatico. D’altra parte è il Brecht poeta a rispondere negativamente all’intellettuale marxista che è in lui, sostenendo di non aver scritto poesie del genere, in quanto si era posto il compito di consentire un’esperienza di godimento estetico per ogni lettore, ad esempio riproducendo il suono prodotto dal cadere delle gocce d’acqua. In altri termini per Brecht se dal punto di vista di una visione del mondo marxista non si può, in modo moralistico, criticare l’arte pura, la concezione dell’arte per l’arte, dal punto di vista di un poeta bisogna domandarsi se il piacere estetico da essa prodotto sia universalizzabile, ossia se lo possano godere tutti gli uomini, indifferentemente. Torna anche qui la prospettiva fortemente morale, rigorosa in senso kantiano, per cui per comprendere la validità da un punto di vista morale di una determinata azione dobbiamo porci dal punto di vista di tutti gli altri. Ossia, nel caso specifico, occorre domandarsi se tutti i potenziali lettori, in una società divisa in classi, dove vi sono ricchi e poveri, potrebbero trarre lo stesso godimento da questo tipo di arte pura, ovvero dall’arte per l’arte. Dunque, determinando la questione da una prospettiva astratta, a una situazione storicamente determinata la risposta non può che mutare. Se in astratto il marxismo come concezione del mondo non è contrario all’arte pura, all’arte per l’arte, dal punto di vista storico determinato bisogna porsi dal punto di vista di quei poveri che, non avendo un tetto in cui ripararsi, non possono certo godere come i ricchi, nelle loro confortevoli dimore riscaldate, il godimento estetico prodotto dal suono delle gocce di pioggia.
Emerge così la netta differenza fra l’artista comunista e l’artista estetista borghese e snob che, con piglio aristocratico, si pone nell’ottica nietzschiana del superuomo, del ben-nato, del signore interessato con la sua arte solo a godere del godimento estetico prodotto fra i suoi pari, con una composizione come La pioggia nel pineto di Gabriele D’Annunzio, non ponendosi nemmeno la questione di come vivrebbero quella stessa pioggia coloro i quali, a causa della società classista, non hanno un tetto sotto cui ripararsi. Questi ultimi, i mal-nati, dal punto di vista aristocratico dell’artista non esistono in quanto individui, infatti con questi ultimi lo snob non può certo identificarsi. Tanto più che non ci si può porre il problema di consentire anche ai mal-nati, ossia ai proletari – che dal punto di vista del dandy sono subumani – la possibilità di godere, anche dal solo punto di vista estetico. In quanto i lavoratori salariati possono essere ridotti a semplici fattori della produzione soltanto spersonalizzandoli e convincendoli che la vita non è altro che sofferenza (reminiscenze bibliche e schopenhaueriane).
Se infatti lo strumento di lavoro diviene cosciente di sé come essere umano, potrebbe comprendere di essere sostanzialmente uguale ai padroni e non considerare più giusto lo sfruttamento da parte loro. Tanto più se pensa che anche lui possa godere della vita, non potrà che ritenere profondamente ingiusta e anche irrazionale la vita da subalterno sfruttato che conduce e potrebbe così ribellarsi scoprendo la schiavitù del lavoro salariato, scoprendo che non è un supplizio necessario in questa valle di lacrime, da scontare a causa di un qualche peccato originale. Al contrario da un punto di vista marxista, ovvero dal punto di vista di una concezione universalista della morale, ogni uomo è eguale e una determinata azione è buona se produce un eguale beneficio a prescindere dalle esistenti differenze di classe che, non essendo più funzionali allo sviluppo del sistema, sono divenute irrazionali e, quindi, ancor più ingiuste e intollerabili.
Ecco perché dal punto di vista determinato del poeta, dell’artista, Brecht non può accettare la concezione dell’arte per l’arte, di un’arte pura, in una società impura, ingiusta, classista, fondata sullo sfruttamento delle masse a beneficio dei pochi, del cui godimento esclusivo si interessa, al contrario, il poeta decadente e, più in generale, il formalista. È proprio l’impossibilità di produrre un eguale godimento estetico tanto per i ricchi sfruttatori, quanto per gli umiliati e offesi sfruttati a impedire, da un punto di vista morale, a Brecht di produrre arte pura, arte per l’arte.
Così è ancora il Brecht marxista che, provocatoriamente, cerca di mettere in difficoltà il poeta che è in lui, sfruttando la naturale volontà dell’artista e, più in generale, dell’uomo, di produrre qualcosa che sia für ewig, ossia per sempre, eterno. La consapevolezza della nostra radicale finitezza, in effetti, ci spinge a produrre delle opere immortali, eterne, che ci faranno ricordare nel corso dei secoli e persino dei millenni. Questo non può che spingere naturalmente il poeta e, più in generale, l’artista a essere spontaneamente portato a produrre arte pura, secondo la concezione dell’arte per l’arte. Anche in questo caso Brecht, sulla scia della kantiana Critica della ragion pratica non può che considerare necessario che la ragione si imponga sulla naturale aspirazione dell’artista all’immortalità, ricordandogli il suo essere figlio di un’epoca oscura, classista, dove le masse – costrette a farsi sfruttare al massimo per poter sopravvivere – non hanno purtroppo modo di potersi godere la pura arte, come i ricchi che al contrario ne potranno compiutamente beneficiare solo in quanto vivono nell’ozio reso possibile dallo sfruttamento. Quindi, per quanto necessariamente infelice per non potere seguire questa aspirazione al für ewig, all’eterno, a una pura arte in grado di produrre godimento estetico in qualsiasi epoca, come ad esempio la citata Pioggia nel pineto, l’artista in quanto persona razionale e, quindi, morale, anche indipendentemente dal proprio parteggiare per il comunismo, rinvierà la produzione di una tale arte pura a quando inizierà realmente la storia umana, ovvero quando con il comunismo terminerà la preistoria delle società ancora divise in classe.
Dunque, se si ha la sventura di dover vivere in una società ancora classista è evidente, non solo per un artista marxista, ma anche per un artista razionale e umano che sia necessario sacrificare il proprio impulso naturale alla produzione di arte per l’arte e, si debba, al contrario, dedicarsi anima e corpo a un’arte storicamente, socialmente e politicamente impegnata. Anche perché solo in tal modo anche l’artista, prima ancora che il marxista, potrà contribuire a rendere più breve la necessaria transizione a quella società comunista, che Kant definiva il regno dei fini, in quanto non vi sarà più nessuna forma di sfruttamento e di strumentalizzazione di sé e degli altri, perché tutti avranno imparato a considerare sé e l’altro – in quanto dotato dell’eguale dignità propria di ogni persona razionale – come un fine e non come un mezzo. Da questo punto di vista il formalismo è indice di una concezione idealistica del mondo, che non tiene conto della condizione storica in cui l’artista, come ogni uomo, deve operare. Non si può fare finta di vivere già in una società giusta e razionale dove tutti abbiano la stessa possibilità di godere esteticamente l’arte per l’arte. Se lo si fa o si è ciechi o si è ipocriti, ossia si finge di poter astrarre da una condizione storica, perché non si ha il coraggio di prendere posizione contro i tutori dell’ordine (ingiusto e irrazionale) costituito.
Proprio per questo è necessario criticare come idealista la posizione comune a tanto cosiddetto marxismo occidentale o a tanta parte della cosiddetta nuova sinistra che in nome di una critica giusta, per quanto astratta, allo zdanovismo, ovvero all’imposizione da parte dello Stato socialista di un certo tipo di arte e di gusto – cosa in quanto tale impossibile – finisce per fare propria, in modo acritico, l’ideologia dominante, ovvero la visione del mondo del nemico di classe, degli sfruttatori che – in modo peraltro altrettanto irrazionale e inaccettabile – intendono imporre (in questo caso però per perpetuare lo sfruttamento) la concezione formalista, antirealista e antisocialista dell’arte.
Al contrario si dovrebbe, seguendo Brecht, prendere le distanze dalle concezioni dogmatiche del marxismo, che pretendevano di stabilire una volta per tutte dei canoni per definire le opere d’arte, come se fosse possibile stabilire a priori come debbono essere fatte le opere per essere belle, per essere realmente artistiche. Tanto più bisogna, però, contrastare la pretesa opposta e politicamente reazionaria della borghesia di imporre come canone di bello e di autentica arte l’arte pura, l’arte per l’arte, il formalismo antirealistico. Occorre, infine, considerare il compito dell’artista non in modo idealistico, come se potesse vivere separato dal mondo in una torre d’avorio, ma in modo storico e materialistico, considerando l’artista un uomo del proprio tempo, nel caso specifico operante all’interno di una società classista, fondata sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo.
In effetti, non è rifiutando idealisticamente questa dura realtà che si può contribuire al suo superamento dialettico, ma al contrario soltanto comprendendola nel modo più spietatamente realistico sarà possibile farne emergere le contraddizioni, sviluppando le quali sarà poi possibile risolverle in un ordine superiore, contribuendo così, effettivamente, all’emancipazione del genere umano. L’artista, infatti, prima ancora che come marxista, come uomo dovrebbe porsi il problema di prendere parte, di schierarsi nel millenario conflitto fra le forze che lottano per portare a compimento l’emancipazione del genere umano e le forze che si battono per frenare, arrestare o addirittura capovolgere e rendere per sempre impossibile tale processo di liberazione. Evidentemente l’artista dovrà prendere partito in tale lotta non solo in astratto come uomo, ma nel suo specifico di artista e un discorso analogo vale per il critico d’arte o anche solo per chi cerca di affinare la propria capacità di giudizio riflettente in una determinata epoca storica. Anche in questo caso non si può pretendere di trarsi di impaccio assumendo la posizione pilatesca dell’anima bella che rifiuta di schierarsi, perché non vuole divenire unilaterale in quanto partigiana. Questo suo presunto rimanere super partes, non agire in nome della non violenza, è in realtà un modo ipocrita per non schierarsi con chi coraggiosamente decide, al contrario, di battersi contro un ordine costituito ingiusto e irrazionale.
Note:
[1] I brani che commenteremo in questo articolo sono tratti da B. Brecht, Me-ti. Libro delle svolte [1934-37], tr. it. di C. Cases, Einaudi, Torino 1970. Tra parentesi tonde metteremo a fianco di ogni citazione il numero delle pagine del libro in questa sua traduzione italiana. Non segnaliamo i molteplici casi in cui abbiamo considerato necessario modificare la traduzione per rendere maggiormente perspicuo il pensiero di Brecht.