“A questo mondo niente rimane uguale/ la notte più lunga eterna non è” ci ricorda Bertolt Brecht, anche se questa notte sembri non finire mai, arrivando a durare ben 4323 giorni, ovvero 12 lunghi e interminabili anni. Si tratta appunto di Una notte di 12 anni, quella che hanno dovuto subire le forze che si battevano per l’emancipazione dell’umanità durante la dittatura militare di destra che ha dominato, opprimendo i subalterni uruguayani, dal 1973 al 1985. Ma, sono anche gli anni passati da ostaggi nelle mani dei propri aguzzini da alcuni dei principali esponenti dell’organizzazione marxista-leninsta Tupamaros. Il regista uruguayano Álvaro Brechner, dopo anni di investigazioni e di raccolta di testimonianze, ricostruisce molto fedelmente la prigionia di tre rivoluzionari, sopravvissuti per miracolo alla strage dei propri compagni, realizzata da parte degli squadroni della morte i quali, ancora anni dopo, sottolineano ai prigionieri il dispiacere per non averli potuti finire di sterminare. Si tratta, in particolare, di Pepe Mujica, Eleuterio Fernández Huidobro e Mauricio Rosencof che, sebbene abbiano subito giorno dopo giorno le più disumane vessazioni da parte dei propri tanto imbecilli, quanto criminali carcerieri riescono a resistere stoicamente fino al crollo della dittatura, non più tenuta in piede dal sostegno delle potenze imperialiste in quanto, ormai, la guerra fredda contro il blocco sovietico volgeva verso il suo tragico epilogo. Tanto più che, lo stesso popolo uruguayano aveva dato il segnale di non essere più disponibile a subire tale aperto dominio dell’oligarchia sconfiggendo nettamente, nel solito blindatissimo plebiscito, il governo bonapartista regressivo. Convincendo, in tal modo, la restia classe dominante che era ormai consigliabile, per poter mantenere i proprio enormi, ma sempre più irrazionali e intollerabili privilegi, esercitare il proprio potere meno con il monopolio della violenza legalizzata e più con la capacità di egemonia.
In tal modo si è passati in modo morbido dalla dittatura militare aperta, dopo la sconfitta nel sangue del movimento rivoluzionario, alla dittatura coperta da una patina liberal-democratica, dove tutto può apparentemente cambiare, mediante le libere elezioni, affinché nella sostanza cambi poco o nulla. Tanto che è stato possibile anche consentire la vittoria elettorale del Fronte Ampio della “sinistra” nel 2004 e il suo governo. In quest’ultimo uno degli ostaggi – al quale, come si vede nel film, il nemico di classe ha, invano, fatto di tutto per farlo impazzire durante l’interminabile detenzione –, José Mujica, è divenuto, in quanto candidato più votato, Ministro. Per poi divenire addirittura presidente del paese dal 2010 al 2015, senza però che gli irrazionali e ingiusti rapporti di proprietà fossero mai messi seriamente in discussione. Tant’è che Mujica è divenuto il prototipo di capo di Stato per i revisionisti socialdemocratici, che hanno rinunciato al loro anticapitalismo, per divenire l’ala sinistra della classe dirigente borghese.
Non a caso Mujica, come prima di lui Mandela, è divenuto al contempo il prototipo del dirigente delle classi subalterne che, pur divenendo – dopo infinite vessazioni – capo del governo ha contrastato ogni forma di odio di classe e di volontà di rivincita dei subalterni. Tutto ciò in nome della salvaguardia del compromesso per il quale i rappresentanti politici dei subalterni possono pure conquistarsi la possibilità di guidare il governo – in particolare dopo un decennio di aperta dittatura oligarchica – a patto che non utilizzino il loro potere a favore della lotta di classe degli oppressi. Anzi, la funzione che finiscono per svolgere, generalmente in modo poco consapevole, è di mantenere tali i subalterni con il loro stesso consenso, propagandando un’ideologia interclassista volta ad azzerare ogni forma di coscienza di classe. Al punto che Luis Almagro, dopo esser stato ministro degli esteri del governo Mujica, è stato eletto segretario generale dell’Oas (organizzazione degli Stati americani), sfruttando tale posizione per divenire uno dei principali e più sfacciati sostenitori delle forze contro-rivoluzionarie, capeggiate dall’estrema destra, in Venezuela.
Da qui la struttura, al quanto discutibile, della (pseudo)-tragedia storica in parte rappresentata nel film. In effetti, la liberazione dei prigionieri e la loro capacità di conquistarsi il consenso delle masse e il supporto di ampi strati delle classi medie non ha prodotto l’attesa catarsi, in quanto la conclusione è stata più comica che tragica, in quanto alla fine, dopo tanti travagli e peripezie, la borghesia ha mantenuto intatto il proprio dominio di classe. Certo per far questo, come abbiamo visto, ha dovuto per il momento rinunciare alla dittatura aperta, ma ha in tal modo recuperato una tale capacità di egemonia che anche gli ex-rivoluzionari, dopo aver vinto le elezioni, giunti al governo non ne hanno messo in discussione il dominio socio-economico.
Di tutto ciò purtroppo nel film non c’è traccia, avendo scelto il regista di rappresentare una singola parte di questa tragicommedia storica, quella che va dallo sterminio e arresto dei rivoluzionari uruguayani alla loro davvero ammirevole ed esemplare capacità di resistenza, nonostante aver patito durissime forme di detenzione, fino alla loro liberazione, nel tripudio di parenti e amici, che festeggiano al contempo la fine della dittatura intonando il pueblo unido non sarà mai sconfitto.
La ricostruzione e rappresentazione della realtà nel film è volutamente molto parziale. Si è deciso, in effetti, inopinatamente di tagliare tutte le ragioni che avevano portato su posizioni rivoluzionarie questi giovani sudamericani, ovvero i Tupamaros. Si sorvola completamente sulle loro gesta rivoluzionarie, soffermandosi esclusivamente sulla loro durissima repressione prima da parte degli squadroni della morte e poi da parte di beceri militari sciovinisti, che li hanno tenuti sotto sequestro e ridotti a ostaggio per dodici anni.
In tal modo il film, per quanto meritoriamente denunci le atrocità di un regime sciovinista e la decisa superiorità morale e culturale dei rivoluzionari, è decisamente più naturalista che realista. Si limita, cioè, a fare una nitida e ben riuscita fotografia di una porzione necessariamente limitata della storia del paese, il cui significato rischia di sfuggire completamente a chi non sappia come tale frammento di storia si leghi alla storia precedente e successiva. In tal modo, per quanto appassionante ed efficace come film di denuncia, Una notte di 12 anni rimane nella ricostruzione storica alquanto superficiale.
In tal modo, il film rinuncia a cercare di far luce sulla propria epoca storica, narrando una storia del passato che sembra non avere più significativi legami con le vicende attuali. La lezione, per quanto progressiva che se ne ricava, ha un significato filosofico certo appartenente a un momento di grande sviluppo della lotta di emancipazione dell’uomo, ma che appartiene a un passato ormai molto lontano, i cui limiti storici non possono oggi che apparici evidenti. Il contenuto sostanziale che ci media il film è essenzialmente quello, sempre importante, dello stoicismo, ovvero della capacità che ha il saggio di astrarre da tutte le miserie del mondo fenomenologico che lo circonda, per conquistare, mediante una essenziale capacità di astrazione, la dimensione tutta interiore della libertà.
Per cui i tre prigionieri, pur vivendo in una situazione davvero disumana a causa dei loro aguzzini, sono certamente decisamente più liberi di questi ultimi, incapaci di andare al di là della tenebra dell’immediato, privi come sono di ogni principio speranza e spirito dell’utopia. Dunque i carcerieri, che si beano della loro vittoria più apparente che reale – magistralmente rappresentati in modo straniante – sono in realtà esemplari rappresentanti della banalità del male, fondamento di Stato totalitario, ossia uomini talmente incapaci di pensare con la propria testa e assumersi una qualche responsabilità storica e morale da poter compiere le azioni più basse e spregevoli senza nemmeno rendersene conto.
Proprio, perciò, non può che lasciare con l’amaro in bocca l’epilogo al quanto gramo di questa pur tragica vicenda, per chi ne conosce i risvolti reali. Per chi conosce la parabola storica di questi ex rivoluzionari non può che divenire ancora più cosciente del fatto che l’eccezionale spirito d’utopia, che aveva permesso ai prigionieri di rovesciare il rapporto signoria-servitù impostogli dai loro aguzzini, ha finito con l’andare del tutto perduto, proprio sul più bello. In quanto, nel momento in cui ne avranno la possibilità reale, divenendo i politici più votati e andando al governo, invece di trasformare significativamente la situazione esistente, si sono limitati a rivoluzionare le forme, lasciando da veri realisti, da meri uomini del corso del mondo del tutto immutata la sostanza dei rapporti di classe. Quindi, di quei rapporti di produzione che, denunciava a ragione Brecht, gli intellettuali che si definiscono antifascisti – ma che hanno completamente rinunciato ad agire da marxisti e tanto meno da leninisti – non si decidono mai a chiamare in causa. In tal modo rinunciano a cercare di squarciare quel velo di Maya costituito dal feticismo, dalla reificazione e dall’alienazione propri della società capitalista, che impediscono ai subalterni di sviluppare l’indispensabile coscienza di classe.
Certo, il film mantiene degli utili insegnamenti, degli utili anticorpi di contro all’estremismo quale malattia infantile del comunismo. Ovvero contro chi si illude, nel suo opportunismo di sinistra, della validità del principio, in quanto tale contraddittorio, del tanto peggio tanto meglio. Secondo tale astratta concezione diverrebbe, in modo del tutto paradossale, un grave errore combattere contro ogni forma di dittatura aperta del nemico di classe, in quanto in tal modo quest’ultimo mostrerebbe infine il suo vero volto, consentendo ai subalterni di sviluppare la coscienza di classe rivoluzionaria. Al contrario, quello che per lo più succede, è esattamente il contrario, ovvero come è possibile vedere, in modo esemplare, nel proseguo della storia rappresentata nel film, che persino eroici ex rivoluzionari come i Tupamaros finiscono con lo scambiare il mezzo con il fine. Ossia, una volta ottenuta la possibilità di governare, finiscono per confondere la riconquista del mezzo, ovvero delle condizioni più favorevoli per portare avanti la lotta di classe contro ogni forma di oppressione – a cominciare dal fondamentale sfruttamento della forza-lavoro – con il fine stesso, ossia la fine di ogni forma di oppressione dell’uomo sull’uomo.
Con l’aggravante che, quando tali posizioni revisioniste sono portate avanti da ex rivoluzionari, che si sono conquistati negli anni di dure e coraggiose lotte la fiducia nelle masse, diviene ancora più difficile smascherarne l’opportunismo di destra. Allo stesso modo, anche questo film, non a caso coprodotto da due delle peggiori potenze imperialiste (Francia e Spagna) e da uno dei paesi dell’America Latina che oggi più si è spostato a destra (l’Argentina), al di là della sua parvenza ultra-rivoluzionaria, resta un prodotto di nicchia, per quanto ben confezionato, dell’industria culturale. Una merce dell’industria dell’intrattenimento e dell’egemonia della classe dominante rivolto a quel pubblico di ben pensanti ex rivoluzionari, che si vorrebbero illudere di potersi ripulire la coscienza, rimembrando i passati tempi eroici giovanili, ormai da tempo per sempre sacrificati alla misera sussistenza garantita a ogni neo-convertito filisteo.