Se la strada potesse parlare di Barry Jenkin Usa 2018
Il film certamente merita la candidatura all’oscar per la migliore sceneggiatura non originale, tratta da un’ottima opera del grande scrittore rivoluzionario James Baldwin. La sceneggiatura e di conseguenza il contenuto sostanziale del plot vale da solo tutto il film, che risulta piuttosto debole dal punto di vista della regia. Debolezze peraltro già evidenziate dal mediocre precedente film di Jenkin: Moonlight, assurdamente vincitore del premio di miglior film agli Oscar dell’anno scorso. Se la strada potesse parlare ha, dunque, un contenuto rivoluzionario che denuncia come gli afroamericani, anche negli ultimi decenni, negli Stati Uniti vivono in condizioni davvero drammatiche. I pesantissimi pregiudizi razziali e la furia liberale nel criminalizzare la povertà li porta per i motivi più futili a essere incriminati, in primo luogo dalle forze dell’ordine borghese, in prima fila nella repressione violenta degli umiliati e offesi per ragioni razziali e sociali.
Inoltre, per il meccanismo davvero perverso del sistema dell’(in-)giustizia borghese a stelle e strisce si trovano nella assurda condizione di dover provare la propria innocenza senza potersi permettere un avvocato decente, anche perché i pochi disponibili a difendere gli afroamericani dalle accuse false e pretestuose che li colpiscono subiscono il tacito ostracismo da parte del sistema e dei loro stessi colleghi, che gli rende impossibile fare carriera. Inoltre, visto che le giurie popolari, molto spesso composte di soli bianchi, e i giudici in massima parte espressione della classe dominante che condivide tutti i correnti pregiudizi volti a mantenere gli afroamericani nel sottoproletariato, per impedire al proletariato statunitense di assumere posizioni rivoluzionarie. In tal modo gli imputati neri – spesso sulla base di semplici testimonianze più o meno estorte ad altri umiliati e offesi dai tutori del (dis)ordine borghese – sono costretti a patteggiare per ricevere un numero limitato di anni di carcere, consapevoli che in caso contrario rischierebbero di passare la vita in prigione.
Peraltro, per un afroamericano passare la vita in carcere è generalmente un eufemismo, in quanto subiscono ogni sorta di angheria e umiliazione da parte dei secondini, certi della completa impunità. Anche perché la testimonianza di un afroamericano pregiudicato – condizione diffusissima fra i giovani afroamericani per le ragioni che abbiamo visto – non ha praticamente nessun valore legale e chi prova a denunciare i propri aguzzini è certo di subire ogni sorta di ritorsione da parte dei loro sodali colleghi, in cui lo spirito di corpo ha la meglio su qualsiasi norma etica o morale. Senza contare che, generalmente, i carcerati sono nei fatti condannati ai lavori forzati presso aziende che mirano a realizzare extra-profitti, portando lo sfruttamento dei detenuti a un livello disumano. Infine, con le carceri sempre più privatizzate, subappaltate e sovraccariche all’inverosimile di detenuti, fra questi ultimi vive la più crudele legge della giungla, per cui i più deboli e meno rozzi finiscono generalmente per divenire schiavi sessuali dei più violenti.
Così, sempre più afroamericane finiscono per divenire ragazze madri e sempre più i loro figli possono incontrare il proprio padre unicamente in carcere. Tale situazione finisce per perpetuare la marginalizzazione e la esclusione sociale, che rende spesso necessario per gli afroamericani, per poter arrivare a fine mese e pagare l’avvocato per i propri congiunti, a ridursi a manovalanza a buon mercato per la malavita organizzata.
In tal modo anche le cose più semplici e naturali, come ad esempio mettere su famiglia, per gli afroamericani divengono delle imprese epiche. In effetti, già poter affittare una casa decente a un prezzo non stratosferico diviene un’impresa, in quanto nei loro riguardi vigono sostanzialmente le stesse norme razzistiche che rendono una vera e propria impresa per un extra-comunitario avere un alloggio dignitoso a un prezzo non da strozzino. Visto che le persone “normali” non se la sentono di affittare loro una casa, anche per non avere noie con il resto dei condomini e, dunque, i nuovi paria finiscono generalmente nelle mani di speculatori senza scrupoli che sfruttano il loro stato di assoluto bisogno per imporgli delle condizioni disumane. Ancora più arduo è poi sposarsi, avere un lavoro stabile e non al nero e poter crescere in un ambiente sano i propri figli.
Occorre poi considerare che proprio la costante precarietà porta la maggiorana degli afro-americani a non riuscire a elaborare intellettuali a loro organici. Anzi, molti di loro appaiono incapaci di ragionare autonomamente criticamente con le proprie teste, per una cronica carenza di istruzione, in un sistema per cui le scuole pubbliche sono ridotte a semplici depositi per i figli dei proletari, mentre i figli dei borghesi soltanto hanno accesso alle scuole private che sono le uniche – non avendo valore legale il titolo di studio – che consentono di svolgere lavoro intellettuali, non precari e non talmente sottopagati da ridurre nella condizione di working poor. In tal modo, divengono facile preda dell’ideologia dominante, generalmente di quella sottocultura che gli viene propinata per uniformarli al modello sociale loro imposto di poveri non rispettabili, in quanto sottoproletari costretti a vivere di espedienti, che costituiscono un costante pericolo per la stabilità e la coesione sociale, visto che essendo ridotti a plebe non hanno nessun interesse al mantenimento dell’ordine costituito. In tal modo, diversi afroamericani divengono facili prede degli intellettuali delle diffusissime sette religiose, che quando non sono direttamente strumento di egemonia della classe dominante, lo sono comunque in modo indiretto e inconsapevole.
Proprio al contrario Il corriere - The Mule di Clint Eastwood, Usa 2018, è un buon film a livello formale, opera di un regista che conosce ormai benissimo il proprio mestiere, ma è assolutamente insopportabile dal punto di vista del contenuto che media. Il film è infatti veicolo dell’ideologia del repubblicano di destra Clint Eastwood, fra i pochissimi rappresentanti del mondo della cultura da subito schieratosi a spada tratta con Trump, di cui condivide in pieno i pregiudizi ultra-reazionari.
Dal punto di vista del contenuto, abbiamo un’ode elegiaca al piccolo imprenditore fallito, in quanto la sua piccola impresa non può reggere la concorrenza delle grandi imprese. Naturalmente ciò non è compreso dal personaggio e, tantomeno, dal suo interprete Clint Eastwood, che se la prende, al solito in modo reazionario, con la modernità, con la perdita dei tradizionali valori comunitaristi e con lo sviluppo tecnologico (e scientifico). L’interprete inoltre si impersona totalmente nel suo personaggio, impedendo al pubblico di poter assumere uno sguardo distaccato e critico su quanto vede. In effetti, il regista condivide in pieno i pregiudizi reazionari del suo personaggio, dal disprezzo verso i giovani di oggi, all’odio per lo sviluppo tecnologico, dal razzismo, al sessismo.
Cosa ancora più grave, Eastwood condivide in pieno l’agire del proprio personaggio che, dopo aver sacrificato la famiglia allo sviluppo della sua impresa, quando quest’ultima fallisce – per recuperare la credibilità perduta – non esita a divenire uno dei più micidiali corrieri della droga, legandosi ai più sanguinari narcotrafficanti messicani e rendendosi complice della diffusione di micidiali stupefacenti fra i giovani del suo stesso paese. Alla faccia dell’uomo tutto di un pezzo, fedele ai buoni e antichi valori patriottici, della libera impresa e della famiglia. In tal modo, infatti, si giustifica del tutto il fatto che i piccoli imprenditori falliti possano cercare di rifarsi entrando a far parte delle organizzazioni più criminali e reazionarie. Tanto che il protagonista finisce per incarnare nel modo migliore il cittadino modello di un regime totalitario, uno che si limita a eseguire gli ordini dell’organizzazione criminale e reazionaria di cui è parte, senza mai interrogarsi sui risultati delle proprie azioni. È, dunque, il tipico esponente dell’uomo che rifiuta di riflettere criticamente sul proprio operare e si limita ad agire sulla sola base della propria individualistica volontà di potenza. Dunque, per quanto il protagonista impersoni nel modo più completo la banalità del male, alla base del totalitarismo, il suo regista e interprete – altrettanto disinteressato a riflettere sul portato delle proprie azioni – ne sposa l’azionismo irrazionalista, portando, cosa ancora più criminale, in modo subdolo lo spettatore a far proprio questo modo intollerabile di rispondere alla crisi, da cui storicamente sono sorti i fascismi e il nazismo.
Al solito a rendere sopportabile e a tratti persino godibile il film di Eastwood è che la sua intollerabile ideologia è controbilanciata dalle sue doti artistiche che lo portano, dal punto di vista formale, a rigettare la del tutto l’insopportabile ideologia dominante post-moderna e a realizzare opere per diversi aspetti realiste.
Concludiamo con una breve recensione – anche perché altro non merita – de L'uomo dal cuore di ferro di Cédric Jimenez (Francia, USA, Gran Bretagna, Belgio 2017). Il film è piuttosto interessante nel ricostruire la resistibile ascesa al potere di un uomo meschino, sadico, privo di qualsiasi valore se non la incrollabile determinazione a imporre la propria irrazionale volontà di potenza. In tal modo Heydrich, dopo esser stato cacciato con disonore dalla carriera militare, riesce a ritrovare un impiego grazie alla compagna – figlia della vecchia aristocrazia decadente, che conta di poter tornare ai fasti dell’ancien régime mediante l’adesione al nazionalsocialismo. In tal modo, viene raccomandato a Himmler che lo assume per il suo cinismo e la sua spietatezza. L’incarico attraverso cui fa carriera ha del tragicomico, in quanto consiste nel contrastare la presenza di infiltrati in un partito che ha come capo indiscusso proprio un informatore che la polizia aveva infiltrato in tale organizzazione.
Il film perde completamente quei tratti realistici che aveva nella prima parte, divenendo nella seconda parte il tipico scadente prodotto dell’industria culturale, la solita mediocrissima americanata rivolta a un pubblico che si vuole mantenere nella più completa incapacità di comprensione critica della realtà. Particolarmente significativo è il paragone fra la versione del tutto conforme all’ideologia dominante di questa azione della resistenza ceca antinazista de L’uomo dal cuore di ferro, rispetto alla versione ben più realistica, interessante e significativa del film incomparabilmente superiore di Fritz Lang Anche i boia muoiono. Nonostante che lo sceneggiatore del film, il grandissimo Bertolt Brecht, lo abbia del tutto disconosciuto, rifiutando che il suo nome fosse associato a questa pellicola – cui aveva lavorato unicamente per poter sopravvivere in esilio – in quanto l’industria culturale hollywoodiana lo aveva ridotto a una mera merce funzionale alla propaganda dell’ideologia dominante.
È quindi interessante comparare questi due film per comprendere come la crisi irreversibile del modo di produzione capitalistico non sia soltanto di natura strutturale, ma anche sovrastrutturale, ossia essa impedisce lo sviluppo delle forze produttive – per difendere degli ormai del tutto irrazionali rapporti di proprietà – non solo economiche, ma anche culturali.