Il delitto Mattarella di Aurelio Grimaldi, drammatico, Italia 2020, voto: 7-; caso molto raro di film debitamente curato dal punto di vista del contenuto ed estremamente carente dal punto di vista formale. Dopo che, con la fine guerra fredda, si è affermato il formalismo come pensiero unico estetico dominante, in particolare nei paesi imperialisti e filoimperialisti, è davvero difficile imbattersi in film come questo, molto coraggioso e avanzato nel denunciare gli strettissimi legami fra Democrazia cristiana, fascisti e mafiosi, mentre decisamente sciatto dal punto di vista formale. È, davvero, un peccato perché come strumento di denuncia, peraltro molto ben documentato, risulta decisamente efficace e istruttivo.
I Am Greta – Una forza della natura di Nathan Grossman, documentario, Svezia 2020, voto: 6,5; un buon documentario che mostra come l’impegno di un singolo se riesce a interpretare un bisogno reale è in grado di innescare una poderosa mobilitazione, come quella per il clima, purtroppo finita in secondo piano con lo scoppio della pandemia. Colpisce, inoltre, la forza e il coraggio di questa giovane adolescente che, senza mezzi termini, mette dinanzi ai grandi della terra le loro enormi responsabilità e le continue menzogne sul loro presunto impegno nel contribuire alla lotta per i cambiamenti climatici. Il limite del documentario è la prospettiva acritica e di fatto apologetica nei confronti di questa adolescente diversamente abile. In effetti, per quanto per molti versi ammirevole, colpisce anche negativamente la sua impostazione moralista, volta a responsabilizzare il singolo, piuttosto che comprendere che si tratta di cambiare radicalmente il modo di produzione. A tratti si rischia così di scadere nel sottoconsumismo e per farsi involontariamente strumentalizzare da personaggi molto poco raccomandabili, dal momento che manca completamente la conoscenza del materialismo storico.
Il primo anno di Thomas Lilti, drammatico, Francia 2018, voto: 6,5; buon film di denuncia dell’assurdo sistema del numero chiuso nelle facoltà universitarie, in particolare di medicina. Si tratta di un sistema che finisce con il favorisce non chi è veramente appassionato e interessato, ma chi è avvantaggiato dalla famiglia di provenienza. Per cui spesso i più meritevoli, nonostante gli enormi sacrifici, sono tagliati fuori, mentre i figli di papà hanno accesso anche senza avere nessuna vocazione per questa professione. La catarsi, comunque salutare, risulta purtroppo alquanto idealista, poco verosimile e del tutto atipica. Con il figlio di papà che cede volontariamente il proprio posto a chi è più interessato, ma ha condizioni di partenza maggiormente svantaggiate.
Il barbiere di Siviglia di Mario Martone, Orchestra e Coro dell'Opera di Roma, direttore Daniele Gatti, voto: 6,5; messa in scena ripensata per la televisione, vista l’impossibilità di una esecuzione dal vivo. Si tratta di una messa in scena certamente superiore al livello generalmente molto mediocre del Teatro dell’opera di Roma. Il regista sfrutta bene lo spazio della platea e non sacrifica il canto al teatro, come spesso avviene con un regista teatrale e cinematografico, con l’eccezione forse dell’interprete di Bartolo, inchiodato sulla sedia a rotelle. Peraltro, questa scelta è fra le meno riuscite perché rende ancora più inverosimile e poco significativa quest’opera comica, in quanto ancora più assurda appare la pretesa di Bartolo di sposare la propria pupilla. Anche gli inserti cinematografici introdotti in due soli momenti dell’opera risultano delle trovate piuttosto estemporanee, che soprattutto nel primo caso tendono a distrarre dalla celeberrima aria con cui entra in scena Figaro. In generale la messa in scena di Martone è senza infamia e senza lode, senza infamia perché non appesantisce l’opera con il gusto reazionario postmoderno dominante, ma al contempo non è in grado di darne una interpretazione produttiva e progressista. L’opera resta così uno splendido divertissement privo degli elementi rivoluzionari presenti non solo nel romanzo di Beaumarchais, da cui è tratta, ma anche nella decisamente più profonda opera di Mozart: Le nozze di Figaro.
Little Joe di Jessica Hausner, drammatico, Austria, Gran Bretagna, Germania 2019, voto: 6+; film di denuncia abbastanza riuscito sui rischi delle manipolazioni genetiche e sull’industria culturale che pretende che le persone possano essere felici, nonostante la società repressiva in cui vivono. A non convincere, oltre la mancanza di una catarsi alla tragedia e una prospettiva di superamento dialettico, vi è la solita distopia per cui mediante la sviluppo tecnologico-scientifico si potranno controllare le menti umane. In questo caso è addirittura una pianta, prodotto di manipolazioni genetiche, che diviene in grado di dominare completamente, in modo del tutto inverosimile, le menti umane. Per il resto il film è decisamente ispirato alla visione del mondo di Theodor W. Adorno, condividendone pregi e difetti. Dunque, un’efficace critica dell’industria culturale e della pretesa dell’ideologia dominante di spacciare l’esistente come razionale e, al contempo, l’individuazione quale via elemento di rottura dell’opera d’arte che, mediante la sua forma dissonante, metterebbe in discussione il pensiero unico.
La candidata ideale di Haifaa Al-Mansour, commedia drammatica, Arabia Saudita 2019, voto 6+; interessante film sull’abominevole realtà dell’Arabia Saudita, il paese più reazionario del mondo, degno alleato di Stati Uniti e Israele. Il film è un abile strumento della nascente industria culturale per mostrare le riforme di facciata operate ultimamente nel regno, in modo gattopardesco. D’altra parte tali riforme sono, come al solito, in primo luogo il prodotto di coraggiose lotte contro la mentalità ultra retrograda di questa tirannide orientale. Certo il film è una commedia, con lieto fine, piuttosto edulcorata rispetto alla tragica realtà per cui, per esempio, le donne che si sono coraggiosamente battute per poter guidare, sono finite in carcere dove sono state violentate e torturate.
Mai raramente a volte sempre di Eliza Hittman, drammatico, Usa 2020, voto: 6+; interessante film di denuncia della condizione di una minorenne, rimasta incinta da un uomo che non la ama e che molto probabilmente la maltratta o addirittura ha abusato di lei. La situazione è resa ancora più problematica dalla situazione economica non florida e da una famiglia cui non può chiedere aiuto in questa situazione. Inoltre venendo da un piccolo centro, il consultorio è controllato da integralisti cattolici. È, quindi, costretta senza mezzi a raggiungere New York. Peccato che la vicenda, per quanto toccante, è narrata in modo naturalistico e non realistico. Finisce così per non riuscire ad andare molto al di là della superficie dei problemi, anche sostanziali, che affronta.
The Midnight Sky di George Clooney, Usa 2020, voto: 5-; come ormai di consueto si dà per scontato che dinanzi al futuro bivio l’umanità non potrà che scegliere la strada della barbarie, cioè della crisi della civiltà, dato che la possibilità stessa di una transizione al socialismo non è neanche presa in considerazione neppure dai film di fantascienza. Certo resta il realismo per cui la crisi del capitalismo, se non interrotta, non può che portare a un futuro catastrofico, in cui la stessa vita sulla terra per gli esseri umani sarà posta in serio pericolo. Tuttavia, appare più plausibile l’esodo verso un altro pianeta abitabile, piuttosto che modificare in senso razionale l’attuale modo di produzione. Per cui la fantascientifica catarsi si riduce al ritorno a Adamo ed Eva, che inizieranno una nuova storia umana in un altro pianeta. In tal modo, però, eliminando radicalmente persino dai film di fantascienza qualsiasi spirito d’utopia e principio speranza non resta che la tenebra del quotidiano, cioè non resta che un’apologia indiretta della società capitalista, dato che oltre a essa l’unica alternativa plausibile sembra essere il diluvio.
Undine – Un amore per sempre di Christian Petzold, drammatico, Germania, Francia 2020, voto: 4-: fra i film più sopravvalutati dell’anno, opera di un regista altrettanto insensatamente sopravvalutato, Undine è un’opera senza nessuna qualità. Il film non solo non ricostruisce in nessun modo un mondo storico, ma ne dà soltanto la pessima interpretazione classista dell’ideologia dominante e non presenta un solo personaggio tipico. Il film è del tutto irrealistico, inverosimile e con cadute piuttosto pesanti nell’irrazionalismo. Alla base vi è una concezione del tutto irrazionale, nel peggior senso romantico del termine, dell’amore a cui tutto il resto può e deve essere sacrificato. Il film è decisamente noioso e non lascia nulla di significativo su cui riflettere allo spettatore.
Fran Lebowitz: una Vita A New York di Martin Scorsese, Usa 2021, serie in sette puntate su Netflix, voto: 3+; intollerabile serie documentaria di Martin Scorsese che, con un delirio romantico di onnipotenza, ci ammorba lasciando campo libero a una sua amica, che considera geniale e piena di spirito, mentre – almeno al pubblico italiano che vede la serie doppiata su Netflix – appare una persona priva di qualsiasi qualità. A ciò si mescola il rapporto d’amore del regista con la sua città, altro legame puramente personale, soggettivo, privo di qualsiasi universalità. La serie sin dalla prima puntata oltre a essere estremamente noiosa, per chi non condivide quel vissuto del tutto particolaristico, ha come unico momento di interesse il vano sforzo di comprendere il motivo per il quale uno dei registi più quotati possa aver trovato motivi di interesse in un personaggio così privo di reale spessore.
Wonder Woman 1984 di Patty Jenkins, azione, avventura e fantasy, Usa 2020, voto: 2,5; tossico prodotto della più potente e deleteria branca dell’industria culturale, volta al solito a presentare la trista putrescenza della società imperialista come il migliore dei mondi possibili. Al punto che la ricerca del piacere, della felicità, lo stesso desiderio e, tanto più, la speranza in un mondo migliore costituirebbero i reali problemi della società contemporanea e sarebbero anche i motivi dei crolli degli imperi precedenti. Bisognerebbe quindi rinunciare a qualsiasi desiderio e continuare semplicemente a vivere per fare il proprio dovere di produttore. Così, il problema fondamentale della società capitalista, ovvero il fatto che impedisce a ogni uomo di essere felice, viene, in un’ottica rovescista, presentato come il suo aspetto migliore. Secondo il noto apologo liberista le cose andrebbero bene se ognuno fosse lasciato libero di seguire semplicemente i propri interessi e ogni tentativo di razionalizzare e migliorare le cose non potrebbe che essere distopico. Non resterebbe, dunque, che affidarsi ai supereroi, alias ai superuomini, preposti alla salvaguardia dello Stato di cose esistenti che, paradossalmente, non immaginano mai di utilizzare i propri super poteri per realizzare un mondo migliore, ma solo in difesa della miseria esistente. Perciò, anche loro devono dare il buon esempio, rinunciando in prima persona ai desideri e alla felicità, per poter dedicare compiutamente la propria vita alla salvaguardia dell’ordine costituito. Anche perché ogni alternativa non potrebbe che essere peggiorativa. Siamo, dunque, alla consueta apologia indiretta dell’irrazionale, ingiusto e inefficace “ordine” esistente.