I soliti ignoti di Mario Monicelli, commedia, Italia 1958, con Vittorio Gassman, Marcello Mastroianni, Renato Salvatori, Totò e Claudia Cardinale: voto: 7,5; capolavoro del genere commedia, il film è una gustosissima rappresentazione del sottoproletariato con tutte le sue contraddizioni. I soliti ignoti, con degli eccezionali interpreti, offre anche una conclusione catartica, con un superamento dialettico per cui il sottoproletario si vede più o meno costretto ad andare a lavorare divenendo un proletario. Molto significativa la profonda differenza con i giorni nostri, in quanto all'epoca del film (la fine degli anni Cinquanta), nonostante la guerra fredda, anche i film più popolari e di genere riuscivano a divertire dall’inizio alla fine, facendo anche ragionare lo spettatore.
Il sorpasso di Dino Risi, con Vittorio Gassman, Jean-Louise Trintignant, Catherine Spaak, commedia, Italia 1962, voto: 7+; capolavoro nel suo genere, cioè della commedia all’italiana. Il film resta godibilissimo ed è brillante, divertente e lascia molto su cui riflettere allo spettatore, senza contare i due protagonisti maschili, interpreti davvero d’eccezione. D’altra parte il film resta una pellicola di genere e tutto sommato minore, che non può certo essere spacciata, come pretende l’odierno rovescismo, per un capolavoro assoluto.
Il bambino nascosto di Roberto Andò, con Silvio Orlando, drammatico, Italia 2021, voto: 7-. Buon film italiano piuttosto realistico, che denuncia il contesto sociale disperante della Napoli povera e le problematiche create dalla discriminazione degli omosessuali. Ottimo protagonista Silvio Orlando che ottiene un meritato riconoscimento come migliore attore ai Nastri d’Argento. Purtroppo il film non riceve altri riconoscimenti, che avrebbe meritato in confronto a opere del tutto postmoderne premiate. Significativo il processo di riconoscimento di due mondi così distanti anche se il conflitto sociale non è mai adeguatamente considerato e, tanto meno, rappresentato.
Come te nessuno mai di Gabriele Muccino, commedia, con Anna Galiena e Luca De Filippo, Italia 1999, voto: 6,5; film che ha il merito di ricostruire in modo relativamente realistico il fenomeno delle occupazioni scolastiche, dandone un giudizio storico tutto sommato positivo. Il limite principale è che la prospettiva del film è tutto sommato reazionaria in quanto idealizza il riflusso nel privato e in un amore romantico ormai davvero fuori tempo massimo.
Essere Giorgio Strehler di Simona Rosi, documentario, Italia 2021, voto: 6+; grande occasione mancata per narrare la vicenda di un grandissimo regista del teatro pubblico italiano. Pur avendo a disposizione aspetti molto significativi della vicenda storico-biografica del grande regista – dalla partecipazione alla resistenza, alla militanza nel Partito Socialista, all’aver portato in Italia l’eccezionale teatro di Bertolt Brecht – il documentario, privo di qualsiasi spina dorsale e taglio interpretativo, mette insieme testimonianze di mediocrissimo interesse sugli avi del regista e interviste scarsamente significative fatte negli ultimissimi anni della vita del regista, quando ormai non aveva più nulla di veramente significativo da comunicare. Anche la questione potenzialmente molto interessante del controverso rapporto con il movimento del Sessantotto viene appena accennata nel documentario.
Nostalgia di Mario Martone, drammatico, Italia 2022, con Pierfrancesco Favino, voto: 6+; film che ben rappresenta lo stato sostanzialmente pietoso dell’intellettuale tradizionale di “sinistra” italiano. Il film mostra, in effetti, tantissime potenzialità, grandi capacità del regista, una profondità inusitata per il cinema italiano ma, al contempo, un’assoluta mancanza di realismo e una completa assenza di connessione sentimentale con il proprio stesso popolo. Siamo ancora di fronte a un prodotto malato della sconfitta storica dell’inizio degli anni novanta, con intellettuali che – pur non rinnegando apertamente il proprio passato e non passando al campo della destra – subiscono l’egemonia dell’ideologia dominante e finiscono con fare propri diversi aspetti del postmodernismo, quasi un pensiero unico nel contemporaneo cinema “d’autore”. Vi è poi il consueto scollamento che il formalismo, altra ideologia decisamente di destra, provoca fra una forma dignitosa e un contenuto insostenibile. Con l’aggravante di sostenere tesi decisamente di destra, per cui – per limitarci a un esempio emblematico – la lotta alla malavita organizzata, a ragione identificata con il fascismo, la condurrebbero in prima linea gli imprenditori (cioè i padroni), per il solo fatto di aver assunto questo infausto ruolo sociale, coloro che incarnano il sogno di carta statunitense del self made man ed esponenti del clero cattolico. Ecco così contrapporre una piccola associazione a delinquere, come il clan camorrista, ad altre ben più vaste e presenti in quasi tutto il mondo, con lo scopo di esaltare rappresentanti di spicco delle classi dominanti di contro ai piccoli imprenditori mafiosi. Il messaggio è, come ormai di consueto nei nostri tempi oscuri, che l’unica alternativa possibile alla destra radicale (Meloni) sarebbero il papa e un grande imprenditore (come Draghi), cioè delle alternative ancora più conservatrici e care all’ideologia dominante. Peraltro il modello che si indica ai giovani meridionali è di emigrare all’estero, dove mediante il lavoro si diverrebbe imprenditori etc. Davvero una bella prospettiva in un cupo e inverosimile melodrammone che non conosce catarsi. Restano alcune intuizioni valide all’inizio della pellicola, con la riscoperta, ad esempio, che il terzo mondo lo abbiamo dentro casa, prima ancora di andarlo a ricercare in Medio Oriente.
Il nostro Eduardo di Didi Gnocchi e Michele Mally, documentario, Italia 2020, voto: 6+; un film di mediocre qualità che parte nel modo peggiore parlando dei nipoti, alcuni dei quali non hanno nemmeno mai conosciuto Eduardo De Filippo, e che, soprattutto, non si sono mai occupati di teatro. Se si riesce a superare questa introduzione assolutamente insostenibile, la grandezza del personaggio la cui parabola ricostruisce il documentario, lo rende di sicuro meritevole di essere visto, alquanto godibile e a tratti emozionante.
A casa tutti bene di Gabriele Muccino, Italia 2022, serie tv, voto: 6+; la serie – di cui abbiamo recensito l’episodio pilota nel numero scorso di questo settimanale – nel secondo episodio perde verve e diviene alquanto noiosa anche perché, sostanzialmente, male interpretata. Inoltre il materiale del film da cui è tratta non era certo sufficiente per poter sviluppare un'intera serie. Si assiste così, di fatto, a una ripresa alla “matriciana” della decisamente più brillante ed efficace serie statunitense Succession.
Nel terzo episodio compare uno sfondo giallo che rianima la vicenda, insieme al confronto-scontro fra il ramo ricco e il ramo povero della famiglia. Naturalmente è del tutto assente un qualche personaggio positivo che dia un respiro più ampio a una vicenda piuttosto asfittica.
Nel quarto e quinto episodio il tono drammatico diviene prevalente, anche se non ci sono sorprese e colpi di scena e i personaggi sono piuttosto stereotipati, schematici e poco sfaccettati. La serie è abbastanza godibile anche se prevalgono gli aspetti culinari e A casa tutti bene lascia poco su cui riflettere allo spettatore. Piuttosto inaccettabili i personaggi femminili, in massima parte subalterni agli uomini, e che sembrano avere come massima aspirazione quella di farsi sposare o di preservare a ogni costo il rapporto di coppia.
Nel sesto e settimo episodio la serie finalmente decolla e diviene avvincente ed emozionante. Le contraddizioni e gli elementi di critica sociale emergono in modo sempre più deciso. In questo quadro a tinte fosche pare non esserci modo di arrivare al necessario superamento dialettico dell’esistente. Anche perché il mondo del lavoro e il conflitto sociale e di classe restano quasi completamente estranei alle vicende narrate.
L’ottavo e conclusivo episodio delude le aspettative che si erano sviluppate nelle ultime puntate, anche perché gli autori sembrano essere maggiormente interessati a lanciare una possibile seconda stagione, piuttosto che giungere a una catarsi soddisfacente. Peraltro, ripensandoci a serie conclusa, si comprende che le aspettative sorte negli episodi precedenti, se avevano contribuito a rendere la serie interessante, erano in realtà prive di un contenuto effettivamente significativo. Certo, resta valida la brillante trovata metaforica del cadavere sepolto in giardino, mentre la dinamica dell’omicidio resta al quanto inverosimile a autoassolutoria.
Museo dell’Ara pacis, voto: 5+; lodevole l’aver inserito il museo fra i siti visitabili gratuitamente con la carta dei musei romani, che consente ai soli residenti della città eterna un accesso a una serie di musei e siti archeologici comunali per un intero anno a soli cinque euro. Il museo è bene illustrato e la teca di Maier arricchisce decisamente l’esperienza estetica. Peccato che la “creazione” fascista dell’Ara pacis sia presentata senza un briciolo di spirito critico.
Tiziano. Dialoghi di natura e amore, mostra alla Galleria Borghese di Roma dal 14 giugno al 18 settembre 2022, a cura di Maria Giovanna Sarti, voto: 4-; mostra in realtà fantasma, incentrata esclusivamente sul prestito di Ninfa e pastore, opera autografa realizzata dal Maestro veneto intorno al 1565, concessa dal Kunsthistorisches Museum di Vienna nell’ambito di un programma di scambio culturale tra le due istituzioni. Gli scambi in atto sono certamente molto svantaggiosi per la Galleria romana, in quanto in cambio di una, per quanto grande opera, sono in prestito diverse opere, per quanto minori, oltre a un capolavoro di Caravaggio. Certo la Ninfa e il pastore è un quadro eccezionale, che testimonia l’incredibile sviluppo dell’arte di Tiziano in grado di anticipare, in questa ultimissima fase, la grande pittura dei seguenti tre secoli, influenzando enormemente la pittura successiva quantomeno fino a Picasso. Il quadro è posto a raffronto con due capolavori del pittore veneto presenti nella Galleria Borghese. Per il resto la gestione privatistica della Galleria è davvero pessima, ti costringono a pagare due euro di prenotazione anche se acquisti i biglietti direttamente nella Galleria e altri due se prenoti on-line. Vi è un’assurda aria condizionata potentissima, che costringe i malcapitati visitatori a lasciare quanto prima le sale. Non c’è nessuna spiegazione delle opere esposte. Peccato perché si tratta, comunque, forse della miglior collezioni di opere d’arte privata a livello internazionale.
Museo nazionale di arte moderna e contemporanea, voto: 3,5; il nuovo allestimento del museo è davvero ignobile, completamente assoggettato al pensiero unico postmoderno. In tal modo, si cancella completamente la storia e si mescolano in modo del tutto arbitrario opere di epoche completamente differenti, con pitture e sculture di grande livello spesso raffrontate a opere decisamente modeste. Peccato perché gli spazi espositivi, la posizione della Galleria, le opere presenti nella collezione permanente, le opere in prestito etc. sarebbero anche di buona qualità, per quanto non all’altezza della capitale dell’Italia.